Sui social e la censura


È di questi giorni la notizia che i principali social netork hanno inibito al presidente Trump l'uso dei propri profili, a seguito dei fatti di Capitol Hill. Subito, soprattutto la destra ha iniziato a parlare di censura, insinuando il complotto delle Big Tech che si arrogano il diritto di censurare le posizioni scomode o a loro non gradite. Ma le cose stanno davvero così?

Per come la vedo io, il problema sta a monte e prima dei social network, ed è un problema in primis di analfabetismo digitale. Mi spiego: da anni ci si batte perché la rete internet sia considerata patrimonio universale e bene comune, in modo da garantirne un libero accesso a tutti. Di fatto la rete internet è una enorme (e fragile) infrastruttura che garantisce a pubblici (per esempio gli Stati con i loro siti e le loro app) e privati (per esempio Googlee, Facebook, Twitter) di offire all'utenza dei servizi. E qui casca l'asino, ovvero la confusione tra la libertà e pubblicità dell'infrastruttura e le specifiche dei siti o delle app che adoperano l'infrastruttura. Nel caso specifico, se io mi iscrivo su di un social o su un forum, servizio che normalmente mi viene offerto da dei privati, accetto nell'atto di iscrizione di seguire delle regole che si sommano a quelle già previste dalla legge: possono essere regole di puro bon ton digitale ("QUI NON SI SCRIVE IN CAPITOLETTO e non si parla di...") o cose più serie, come per esempio le norme sulla diffusione delle fake news o sull'incitamento all'odio o alla violenza. Riguardo a queste violazioni i social non si sostituiscono alla magistratura che dovrebbe vigilare su violazioni di tipo amministrativo, civile e penale, ma vigilano sul rispetto delle proprie norme di condotta. Quello che è accaduto con Trump è semmai una normalizzazione degli eventi: negli anni sui social si era creata, per le figure politiche, una sorta di immunità che ne proteggeva le figure anche a discapito delle reiterate violazioni sulle norme di comportamento accettate all'atto dell'iscrizione su un social (tralasciando il fatto che quelle violazioni coincidessero con dei reati). Ora Twitter, più di Facebook o Google, inizia ad applicare quelle regole pattuite anche alle figure di spicco, e lo può fare, non si sta sostituendo alla magistratura che dovrebbe semmai perseguire reati, però sta facendo in modo che sulla sua proprietà privata si rispettino le norme di comportamento che esplicitamente si erano accettate in precedenza. Come avverrebbe nella vita reale: io posso normalmente girare in pantaloncini in città, ma se mi metto in pantaloncini in chiesa, facile che mi caccino; normalmente posso scattare foto, ma se un museo prevede il divieto di foto e io lo infrango, mi cacciano; in un caffè letterario posso parlare di alcune cose, ma se mi metto a disquisire di qualcosa che non è gradito, mi cacciano.

Questo scambio, l'aver scambiato l'infrastruttura con i servizi che i privati forniscono attraverso l'infrastruttura, ha portato nel tempo a varie disfunzioni e miti che, all'apparir del vero, si trovano ad essere risibili, quando non distopici. L'aver confuso i social con delle piazze virtuali, per esempio, ci porta oggi a scoprire che in quelle piazze (che non sono mai state piazze e non sono mai state aperte e pubbliche) c'è qualcuno che può decidere cosa si può o non si può dire; in realtà era già così, ma siamo cresciuti nell'illusione che i privati che fornivano i servizi l'avrebbero fatto senza avvalersi dei propri diritti, mentre oggi scopriamo che quegli stessi privati possono permettersi di lasciare libertà di espressione e pensiero ai propri utenti fino a che non viene valicato un limite che dovrebbe essere invalicabile, quello del loro tornaconto economico e sociale. Allo stesso modo quanto accade oggi sui social (e che è sempre accaduto, ma che non abbiamo voluto osservare perché accadeva a noi comuni mortali, non ai potenti) ci mette in guardia dalle tentazioni di affidare le chiavi della democrazia a privati che vorrebbero fornire "piattaforme o sistemi operativi proprietari per la gestione della democrazia diretta". Come sempre, se qualcuno ti offre un servizio gratuito in rete è perché la merce che viene venduta sei tu (e sarebbe buono che ne fossi consapevole).

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