giovedì 31 dicembre 2015
Se la scuola smette di essere luogo di confronto
Chi legge questo blog da anni sa che uno dei temi che più mi sta a cuore è quello dei diritti individuali, in particolare tutto ciò che riguarda l'integrazione e la tutela delle minoranze, così come la tutela delle diversità. Non potevo quindi esimermi dallo scrivere una riflessione su quanto avvenuto, neanche troppo recentemente, in Lombardia. La regione presieduta dal leghista Maroni ha infatti messo su, su richiesta del partito del governatore della regione, un call center "anti gender", ovvero un numero telefonico a cui potranno rivolgersi genitori, studenti, insegnanti, delatori... per segnalare chi nelle scuole oserà trattare di temi quali la parità di genere, sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale. In parole povere, gli insegnanti dovrebbero smettere di studiare e spiegare l'argomento, uno dei temi di più larga e aperta discussione negli studi di antropologia, sociologia, psicologia e biologia negli ultimi cinquant'anni, per patrocinare una visione tradizionale e convenzionale, figlia non tanto della scienza, quanto, a punto, della tradizione e della cultura religiosa.
Indubbiamente, già le modalità con cui ho raccontato la notizia la diranno lunga su cosa penso di una simile iniziativa. Ciò che mi preme qui è sottolineare un altro punto, se vogliamo, una questione più astratta, da cui si declinano poi tutta una serie di questioni ancora aperte, su cosa debba o non debba fare la scuola oggi.
Deve o non deve la scuola, pubblica o privata che sia, confrontarsi con ciò che la sua utenza, ovvero i suoi studenti e le famiglie che stanno dietro e accanto ai ragazzi, non conoscono o credono, erroneamente, di sapere? Questo è lo snodo su cui occorre prendere una posizioni chiara, politica, perché da questa decisione dipende cosa vogliamo che la scuola faccia o non faccia. Possiamo decidere che la scuola ignori le ricerche contemporanee, tramandi soltanto le nozioni accreditate da una lunga tradizione, millenaria: è una scelta politica, non diversa da quelle compiute, per esempio, nelle scuole coraniche, anzi, al di là del nome della fede di riferimento, identico sarebbe il risultato finale. Possiamo tramandare nozioni volutamente male interpretate, smettere per esempio di spiegare quale fosse, secondo ogni evidenza scientifica, il reale rapporto tra Achille e Patroclo, o smettere di sollevare dubbi sulla reale esistenza di un certo Gesù di Nazareth, smettere di sollevare dubbi su miracoli e gesta eroiche, possiamo smettere di fare tutto ciò, è una scelta politica, dicevamo, perché ogni narrazione che realizziamo a scuola è, sempre e comunque, fiction, interpretazione dei fatti. non sono mai i fatti così come sono realmente accaduti, se mai sono esistiti, ma il tentativo di dare un ordine e un senso a qualcosa che forse un ordine e un senso non ha. Possiamo decidere di dare un ordine e un senso strutturalmente conservativi, chiedere ai nostri alunni di non avere più dubbi. Possiamo dire loro che ciò che vuole e crede la maggioranza è sempre il meglio; e sperare di essere sempre parte di quella maggioranza.
Al di là di ogni verità posseduta nella tasca dei pantaloni, sulla questione "gender" o dell'identità sessuale esiste un dibattito, orientato da diverse istanze: è lecito chiedere che la scuola si chiami fuori da questo dibattito, faccia finta che questo dibattito non esista, per continuare a tramandare nozioni vecchie di millenni? È lecito farlo su argomenti come l'evoluzionismo, il confliggere di fede e ragione, le storture della nostra storia politica recente e antica, le ipocrisie sui diritti individuali, l'inconsistenza dei diritti naturali, del diritto alla proprietà, delle pratiche e convenzioni più condivise? Porre dubbi vuol dire sempre e soltanto voler distruggere? E se una cultura non è capace di resistere al dubbio, su che fondamenta poggia la sua solidità?
mercoledì 16 dicembre 2015
Per una didattica modulare delle lettere nella Scuola Secondaria di II Grado
Alcuni moduli (grammatica; narratologia-testo narrativo; teatro; testo poetico-lirica; testo poetico-epica) sarebbero obbligatori nel corso dei cinque anni - non è immaginabile che italiano divenga un insegnamento opzionale - mentre altri moduli potrebbero essere opzionali, fermo restando che ogni alunno dovrebbe comunque svolgere, tra biennio e triennio, dei moduli opzionali per completare il suo percorso. Con questi moduli opzionali ma obbligatori nel complesso si potrebbero valorizzare le specificità degli insegnanti: se ho nel corpo docenti uno storico questo potrebbe costruire un modulo opzionale sul metodo storico, o un corso monografico; se ho un giornalista potrebbe venire fuori un modulo sull'editoria; se ho uno scrittore un modulo sulla scrittura creativa. Le opzioni potrebbero essere tantissime, moduli di letteratura comparata, moduli paralleli letteratura-linguaggio audiovisivo, moduli con approfondimenti sulla storia dell'arte piuttosto che sulla filosofia. In tutto ciò almeno eviteremmo che i docenti di potenziamento finissero per fare i tappabuchi o progetti fumosi fatti tanto per non fare stare i colleghi in sala insegnanti in attesa del Messia.
martedì 15 dicembre 2015
venerdì 11 dicembre 2015
domenica 6 dicembre 2015
Leggere Amleto
Amleto è annoverato fra i drammi maggiori diretti da William Shakespeare. La storia del principe ereditario del trono di Danimarca e della sua sciagurata famiglia è per molti aspetti emblematica, e tuttavia difficillmente si dedica spazio alla lettura di questo testo, preferendo, come ovvio e immaginabile, fruirne durante le rappresentazioni teatrali, le messe in scena, perfino le trasposizioni cinematografiche.
Eppure il testo dell'Amleto di Shakespeare è innnanzi tutto un bel testo da leggere, che ha tanto da dare al lettore che voglia dedcarsi ad esso con pazienza ed attenzione. Infatti la lettura dell'opera richiede tempo, paradossalmente di più rispetto alla fruizione dal vivo. Forse perché i versi shaskespeariani sono talmente levigati da richiedere attenzione e cura ai dettagli anche da parte del lettore, o forse perché la lettura dona il tempo per far caso ai rimandi metatestuali, alle citazioni letterarie, o anche solo alla caratterizzazione dei personaggi. Giganteggia certo Amleto, l'eroe del dubbio, scisso, frastagliato, innamorato che non ama, vendicatore che non prova lo sdegno di Medea o l'ira di Oreste. Amleto è l'eroe che può ma non sa di volere, capace di dubitare di tutto, compresa la rivelazione ascoltata dallo spettro del padre morto. Ma nel dramma, emergendo ancor di più nello scritto, giganteggia anche Claudio, il re che potrebbe essere giusto ma non sa esserlo: Claudio ha tutte le doti per essere un buon re, vede il giusto, ha le doti retoriche e il carattere, persino il senno per poter guidare al meglio la Danimarca. Ma Claudio non sa non essere colui che ha macchianto contro il fratello, colui che ne ha sposato la vedova per assurgere al potere. Claudio sa, e non può non sapere, perché Amleto lo odia.
Di fronte a questi personaggi, le altre maschere che fanno da contorno scompaiono. Amleto è tutto in questo confronto, tra un figlio che dice di amare il proprio padre, e tuttavia non crede le sue parole, e un fratello che ha ucciso il suo re per prenderne il posto. Al centro tra questi due opposti speculari c'è la morte, come soluzione ambigua per ogni dramma della miseria umana, il morire, forse sognare che, nella sua vaghezza, muove ogni cupio dissolvi dei due antagonisti e delle marionette da essi manovrate, come Laerte. Lontano, in disparte, un conquistatore vendicativo, quel Norvegia che rigenererà lo stato dopo il bagno di sangue che ne disegnerà l'esisto.
sabato 5 dicembre 2015
Ma di che guerra stiamo parlando?
In questi giorni di intense discussioni, sarà capitato a tutti di sentire parlare di guerra. La guerra sta ovunque, la guerra è stata dichiarata, alla guerra si risponde, non ci possiamo tirare in dietro dalla guerra. Si potrebbe continuare all'infinito.
Ma quando si parla di guerra, di cosa si sta parlando?
Occorrerebbe specificare che la guerra, oltre che una condizione di fatto, è anche uno stato giuridico. In tutti e due i casi, comunque, la situazione attuale è ben lungi da assomigliare alle guerre che abbiamo sempre considerato tali, tanto da far dubitare che, per quanto sta accadendo o potrà accadere in futuro, si possa parlare di guerra.
Guardando alla condizione di fatto, emerge come non esista un campo di battaglia, anzi, a tutti gli effetti non esiste un nemico che e le forze in campo ritengano unanimamente tale. In primo luogo, la guerra verso cui tanti inneggiano, dove dovrebbe combattersi? In Siria? Otterremo la transumanza dei guerriglieri verso la LIbia. Riprenderemmo l'attacco in Libia? I guerriglieri si sposterebbero in Afghanistan o in Africa. Sta di fatto che non esistendo un'entità statale a cui fare guerra è difficile immaginare una guerra in quanto tale.
In secondo luogo, la coalizione che dovrebbe combattere questa guerra è tutto fuorché omogenea: gli USA, oggi a capo di questa coalizione, avevano sovvenzionato negli anni Ottanta i guerriglieri talebani in Afghanistan e hanno permesso la nascita dell'Isis fra le carceri irachene durante la sciagurata guerra prevenva di Bush Jr.; la Francia è stata l'artefice del precipitare degli eventi in Libia, con il semplice scopo di rinegoziare i contratti per le forniture di petrolio, a danno dell'Italia; la Germania, dopo aver affossato l'Europa scopre di avere alleati deboli e riprende in mano delle armi che stavano nascoste nell'armadio dalla Seconda guerra mondiale; la Russia, ufficialmente in guerra contro l'Isis, bombarda in realtà i gruppi d'opposizione al regime siriano, mentre la Turchia, ufficialmente in guerra all'Isis, ne compra il petrolio e seda nel sangue l'opposizione curda; l'Arabia Saudita infne, si trastulla nel finanziare il nemico che dice di voler eliminare. Del resto, almeno la metà dei paesi che dichiarano alla propria opinione pubblica di voler contrastare il terrorismo di matrice islamica, poi non si fa scrupoli a commerciare con esso petrolio e armi.
Ma per quanto riguarda lo stato giuridco della guerra, ciò che c'è di più paradossale è la maggiore chiarezza raggiunta dai terroristi rispetto agli stati nazione che vorrebbero contrastare. Quanto meno va riconosciuto che l'Isis dichiara apertamente i propri nemici, e non si fa problemi a riconoscere che il nemico, avvertito come infedele, non dispone di alcun diritto. Un diritto barbarico, certo, ma dichiarato. Dall'altro lato si grida alla guerra, ma opportunamente non la si dichiara, perché dichiarare guerra implicherebbe riconoscere al nemico uno stato giuridico che oggi nessuno vuole riconoscere all'Isis, quello di avversario, con dei diritti da preservare. Un conto è il prigioniero di guerra, il milite, mio avversario ma che riconosco mio pari, sebbene dalla parte sbagliata; un altro conto è il terrorista, a cui non riconosco alcuna attenuante, che considero un criminale, e a cui quindi non riconosco alcun diritto. Questa è la scelta sino a qui portata avanti da chi oggi decide di contrastare l'Isis, una scelta che contraddice lo stesso diritto che i paesi occidentali dicono di voler difendere.
In ultimo, ma di che guerra poi stiamo parlando? Esiste una guerra nei numeri? Non per i paesi occidentali: guardiamo alla Francia, il paese europeo più colpito dagli attentati terroristici. Negli attentanti francesi sono morti, in un anno, circa ducecento persone. Ora consideriamo, sempre in Francia, la battaglia di Verdun, durante la Prima Guerra mondiale: in sei mesi di guerra morirono, tra tedeschi, inglesi e francesi circa 950.000 uomini; ancora, consideriamo gli schieramenti in campo, per esempio il fatto che secondo gli analisti l'Isis conterebbe di circa 50.000 guerriglieri. Consideriamo solo la prima battaglia sul fronte occidentale, quella del fiume Marna, sempre durante la Prima guerra mondiale: in quel caso, tra francesi, inglesi e tedeschi, a scontrarsi furono poco meno di due milioni e mezzo di uomini. Insomma, cifre ben maggiori.
Alla luce di tutto ciò, quando sentiamo parlare di imminenza della guerra, chiediamoci: ma di che guerra stiamo parlando?
giovedì 3 dicembre 2015
Rozzano, Benedetto Croce, Oriana Fallaci e i fondamentalismi
Dopo il caso del dirigente scolastico di Rozzano, gli interventi sul valore del Natale, sul Cattolicesimo a scuola, sul presepe e il crocifisso in classe non si sono fatti attendere. Dai sondaggi effettuati sull'opinione pubblica a partire da un caso montato ad arte (perché di questo si tratta, come chiarito da diverse testate giornalistiche e non, per esempio Butac), viene fuori un'Italia radicalizzata nella sua identità cattolica, fortemente legata all'idea che la cultura italiana si identifica nel Cattolicesimo (finanche l'intero Occidente, ad essere precisi). Fra gli altri, a fondamento di questa idea condivisa addirittura dall'ottantasette per cento della popolazione, viene citato Perché non possiamo non dirci "cristiani" di Benedetto Croce.
Ecco, Benedetto Croce si incacchierebbe alquanto. Per chi non lo sapesse, Croce era un laico, un po' come Montale, sempre tenutosi lontano dalle due croci, quella nera e quella rossa, che parimenti guardava dall'alto in basso. Si potrebbe discutere a lungo dell'Idealismo crociano, del suo valore culturale e dei suoi limiti, ma ciò che qui preme fare è ricondurre le idee del filosofo ai loro limiti. Quando Croce diceva che non possiamo non definirci cristiani intendeva dire che, di certo, la rivoluzione culturale del Cristianesimo ha impregnato profondamente l'Occidente. Finché ci limitiamo a questa idea, non si può non condividere la tesi. Tuttavia, con Croce, ci si ferma qui. Se la storia dell'Occidente si è caratterizzata, negli ultimi duemila anni, anche del Cristianesimo, essa tuttavia non si limita ad esso. Sia perché c'è un prima del Cristianesimo, almeno trentamila anni di homo sapiens in Europa, sia perché ci sono un durante e un dopo il Cristianesimo. Se consideriamo l'eterna dialettica tra tesi, antitesi e sintesi in cui lo stesso Croce credeva, l'Occidente di oggi non è solo il Cristianesimo, bensì la sintesi, contorta e magmatica, del Cristianesimo e della sua antitesi, antitesi che non sta in altre religioni, ma nella negazione del sentimento religioso, relegato ad elemento privato a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento. Dove si trova questa sintesi? La si scorge nei valori, contraddittori anch'essi, proclamati dall'Illuminismo, nella sua estensione relativista che giunge fino ai giorni nostri, fino ai postulati ludici e nichilisti del Postmodernismo. È con l'Illuminismo, lo ripeto, un modello culturale che ci culla ancora oggi, che possiamo dire che, è vero, gli europei non potevano non definirsi cristiani, e tuttavia non lo sono più. O almeno, non lo sono nei presupposti, sebbene continuino ad esserlo nei fatti.
Perché risulta così difficile osservare come i valori dell'Illuminismo, pur nascendo anche da quelli cristiani, li superino, non certo in maniera pacifica o priva di contraddizioni?
Perché non abbiamo gli occhi per osservare. Come nessuna cultura ha gli occhi per osservare se stessa.
Già nel terzo secolo d.C. i Persiani chiamavano l'impero romano come l'impero dei cristiani, eppure i romani stessi faticavano a considerare il Cristianesimo come il tratto culturale che li caratterizzava. Allo stesso modo ogni cultura vive dando valore a certi tratti culturali e ignorandone altri, che tuttavia, nella pratica, possono essere parimenti importanti, se non addirittura fondamentali. Qualsiasi induista giurerà la sacralità delle vacche, nessuno riconoscerà che, in una qualche maniera, anche gli animali sacri vengono fatti morire: eppure accade; in certi quartieri del Brasile le donne sono pronte a giurare che, con l'aiuto di Dio, cureranno alla stessa maniera tutti i loro figli, eppure alcuni di essi, caratterizzati da certi tratti ben precisi, vedranno tassi di mortalità molto più alti della media; la giustificazione sarà sempre la stessa: era incurabile, il Signore se l'è preso per farne un angelo.
Siamo pronti a far valere la nostra visione etica, nel senso antropologico del termine, nell'osservazione dei fanatismi e dei fondamentalismi altrui, ma non ci rendiamo conto di come, di fronte ai nostri fondamentalismi, prevalga la visione emica, empatica, che si riconosce nei valori che dovrebbe studiare. Non abbiamo gli occhi per vedere.
"Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici", la frase scritta da Oriana Fallaci a seguito degli attentati di giorno undici settembre duemilaeuno è l'esempio evidente di questa contraddizione: presa come un mantra dalla gran parte dell'opinione pubblica, questa affermazione non è in grado di spiegare, ma neanche di categorizzare, i fondamentalismi cristiani, seppure essi esistano: si pensi alla chiusura nei confronti delle unioni omosessuali, delle adozioni da parte di coppie di fatto e omosessuali, nei confronti dell'aborto, si pensi al genocidio della minoranza islamica perpetuato in Bosnia e in Kosovo frino agli anni duemila, si pensi alle azioni di gruppi radicali negli USA o in Sud America, si pensi ai gruppi di terroristi africani nell'Africa centrale, alla persecuzione contro la popolazione musulmana sistematicamente portata avanti dalla Russia di Putini, infine si ricordi l'attentato di Anders Breivik in Norvegia, il più grave atto terroristico, dopo l'attentato del Bataclan, realizzato in Europa a partire dalla Seconda guerra mondiale.. Sono tutte situazioni che fanno il palio con i fondamentalismi di qualsiasi altra religione, ed elencarli in maniera analitica non vuole ridurre l'importanza del fondamentalismo islamico o di quello di altre fedi o ideologie, ma ricordare che i fondamentalismi si annidano dentro ogni cultura, e che solo un atteggiamento critico, capace di relativizzare, di mettere in discussione certezze secolari può fungere da medicamento contro i colpi che ogni estremismo può portare alla comune convivenza.
Si può rispondere al fondamentalismo con un fondamentalismo simile e contrario? È quello che una parte di Europa sta pensando di fare, a partire da chi vorrebbe costellare i nostri luoghi pubblici di simboli religiosi. Penso ai Salvini, Gelmini, La Russa, Gasparri, ma penso anche a giornalisti come Messori che, nel suo commento pubblicato su il Corriere Della Sera, catalogano ogni tentativo di affermare un'Europa diversa e lontana da ogni fondamentalismo religioso come segno di debolezza. Ecco che impedire che dei non docenti vengano ad insegnare canti di una religione a scuola pubblica e laica diventa attentato ai valori identitari, cedimento. Ma quali valori identitari? Valori, quelli cristiani, che non sono gli unici, come già detto, né, ormai quelli predominanti in Europa. Se proprio volessimo non mostrarci deboli, dovremmo avere il coraggio di proseguire nel nostro percorso, già avviato quattrocento anni fa con le scoperte di Copernico e Newton e con il metodo di Galilei, e giungere alla conclusione che nessun valore religioso potrà e dovrà segnarci come collettività, che quei valori dovrebbero essere simboli privati per essere realmente credibili. Mi avrebbe fatto piacere leggere commenti razionali, di uomini che, di fronte alla follia religiosa, rispondono con la tolleranza della ragione, riconoscendo come non è imponendo un simbolo sull'altro che si fa integrazione, ma accogliendoli tutti in una cultura ragionata, o ponendoli tutti nella sfera privata. Mi avrebbe fatto piacere che Messori, anziché cercare consensi, avesse chiesto la presenza di una Costituzione in ogni classe, avesse gridato allo scandalo non vedendo affissi ai muri dei nostri luoghi pubblici la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Valori che dovrebbero davvero caratterizzare l'uomo in quanto tale, a prescindere dalle fedi e dai credi politici. Ma non abbiamo gli occhi per vedere.
domenica 22 novembre 2015
lunedì 16 novembre 2015
Minuti di silenzio e anni di occhi chiusi
Possiamo fare un minuto di silenzio a scuola, ma è inutile senza poi fare in modo che per 365 giorni all'anno, 24 su 24, in classe, per le strade, negli ospedali, sui posti di lavoro, giovani e adulti di ogni credo, colore, religione, orientamento politico o sessuale non si sentano abbandonati dalla società che li dovrebbe accogliere.
Se un diciottenne nato e cresciuto nelle nostre periferie non si sente europeo, forse dovremmo anche iniziare a fare autocritica e chiederci dov'è che abbiamo sbagliato, a che punto lo stato sociale fallisce, quando un ragazzo inizia a sentirsi straniero in casa propria non perché estromesso da chissà quali nuovi giunti, ma perché vede tradite le promesse di diritti, di uguaglianza e di libertà.
Credo che prima di un'identità collettiva, un diciottenne cerchi una comunità che gli permetta di sviluppare la sua di identità, che gli offra delle prospettive concrete e simboliche, che non lo faccia sentire un recluso e un reietto. L'opposto di quanto avviene nelle nostre periferie, per gli immigrati di n generazione come per i nativi.
domenica 15 novembre 2015
La Costituzione italiana, principi fondamentali
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lunedì 9 novembre 2015
Ma di che scuola stiamo parlando?
Perché? Perché nel ragionare della scuola dimentichiamo sempre un elemento che, in realtà, in società fortemente industrializzate e dove la cultura è (apparentemente) diffusa, è probabilmente il primo elemento per il raggiungimento del successo formativo (e dovremo, tra l'altro, discutere una volta per tutte cosa sia questo successo formativo): questo elemento misconosciuto è il contesto, il milieu sociale, l'hic e nunc in cui la scuola agisce. Di fronte al contesto sociale di riferimento, il buon docente può essere avvantaggiato, così come può essere svantaggiato di fronte ad un contesto sociale scarsamente alfabetizzato o refrattario alla scolarizzazione. Tuttavia, c'è un'altra eventualità che in genere non consideriamo, ovvero quella di un contesto sociale apparentemente favorevole, ma in realtà fortemente marcato, caratterizzato da delle aspettative ben precise riguardo a ciò che la scuola deve fare e ciò che gli studenti devono ottenere per raggiungere il successo formativo. Un contesto simile, è inutile negarlo, è per il docente qualcosa di castrante: di fronte alle interferenze del territorio, il docente, non solo perde la propria libertà d'insegnamento (di per sé potrebbe anche non essere una grave perdita, se al contrario si garantisse in questo modo un miglioramento nel sistema educativo in toto), ma si trova ad assecondare le richieste delle famiglie, delle imprese, delle istituzioni, perdendo di vista quella che dovrebbe essere la prima e vera funzione della scuola.
Ma qual è questa funzione della scuola? Semplificando parecchio, insegnare a leggere, scrivere e far di conto. Un'affermazione banale, ma che banale non è, se cerchiamo di capire cosa queste conquiste hanno rappresentato per la storia dell'uomo. Leggere e scrivere hanno rappresentato, in primo luogo, la possibilità di potersi avvalere di un diritto stabile ed uguale per tutti; hanno significato, in secondo luogo, poter avere accesso ad una memoria storica, individuale e collettiva, condivisa o critica, ma comunque hanno rappresentato la formazione di una individualità; leggere e scrivere, in Europa, hanno permesso all'uomo di trasformarsi da suddito in cittadino; leggere e scrivere hanno rappresentato persino la possibilità, con l'obbligo scolastico, di vedere garantito un diritto all'infanzia altrimenti negato dallo sfruttamento del lavoro minorile; non di meno, far di conto ha permesso di trasferire il perimetro delle conoscenze da una logica deduttiva ad una induttiva, di spostare l'asse delle nostre conoscenze dalle superstizioni tramandate per secoli alle conoscenze studiate sulla base di dati, quantitativi, certificabili; anche in questo caso, questo traguardo è stato, è e sarà il coronamento di un percorso dalla schiavitù dell'ignoranza alla libertà della conoscenza.
Di fronte alla funzione prima della scuola, ovvero quella di rendere degli studenti, attraverso l'unico vero rito di passaggio che la nostra società ancora mantiene, degli uomini e delle donne liberi, dei cittadini e non dei sudditi, di fronte a questa utopia che di giorno in giorno la scuola dovrebbe alimentare, come si pone il contesto? È il milieu sociale realmente pronto a collaborare con la scuola per questo fine?
Non mi voglio certo esprimere in maniera definitiva, ma giornate come quella di oggi mi costringerebbero a dare una sola risposta: un no secco.
Basta entrare in classe per accorgersi che, malgrado gli sforzi degli insegnanti, la maggior parte dei nostri studenti ritiene inutile questa funzione della scuola. Lo fa per un semplice fatto, ovvero il contesto intorno spinge per una funzione diversa, l'addestramento in funzione dell'ingresso nel mercato del lavoro. Esiste una larga fetta della popolazione che non considera la scuola strumento di affermazione delle libertà e dei diritti, bensì uno strumento per garantirsi un rapido accesso al mercato del lavoro, preferibilmente con una retribuzione adeguata. Hai voglia a spiegare che, per la maggior parte dei lavori di cui si discute, basterebbe un banalissimo corso annuale, che non può essere quella la finalità di un percorso di studi più che decennale. L'utenza vuole questo, e accoglie con fastidio ogni altra istanza.
La cosa peggiore è vedere come la politica, che dovrebbe essere sempre un gradino più in alto della popolazione che rappresenta, si fa invece portavoce di questa istanza: è una posizione di comodo? Può darsi; è sicuramente una posizione miope e stupida. Così ci avviamo verso un sistema dell'istruzione sempre più rivolto alla formazione per e con il lavoro, un rafforzamento dell'alternanza scuola-lavoro, in proporzioni che non potranno non mettere in difficoltà scuole e aziende, e l'assenza di un serio programma di rafforzamento della letto-scrittura.
Nella forma che utilizziamo per formulare le nostre intenzioni è già evidente la qualità delle pratiche che adotteremo, perché ad un pensiero intricato corrispondono pratiche disordinate, a scarse capacità nella letto-scrittura corrispondono scarse capacità di decodifica della realtà. Ecco, se questa teoria ha ragione, la lettura della legge 107/2015 è tutta un programma: un testo frastagliato, spesso discorde, comunque intricato e inutilmente confusionario anche lì dove esprime istanze condivisibili. Il perfetto rispecchiamento di un pensiero di corto respiro, abituato a concepire il mondo come un contesto semplice, di buoni contro cattivi, anziché osservare un mondo entropico e frastagliato per raggiungere l'ordine attraverso la limpidezza del pensiero. Da una politica così, da un contesto così, che scuola vi volete aspettare.
martedì 3 novembre 2015
venerdì 30 ottobre 2015
mercoledì 28 ottobre 2015
Fonologia e ortografia
Fonologia e ortografia - Created with Haiku Deck, presentation software that inspires
martedì 27 ottobre 2015
lunedì 26 ottobre 2015
martedì 20 ottobre 2015
Metronews, Senza investimenti cresce la dispersione
Per innovare occorre investire: bisogna permettere alle scuole di fare ricerca, come accadeva fino a qualche decennio fa...
Posted by La vera scuola gessetti rotti. on Lunedì 19 ottobre 2015
Senza investimenti cresce la dispersione. @sebascuffari per @MetroNewsItalia @tonysaccucci http://t.co/UblinXKNS5
— Gessetti Rotti (@gessettirotti) 19 Ottobre 2015
sabato 17 ottobre 2015
Di Battista, rispondi ad una domanda?
venerdì 16 ottobre 2015
Il dominio del Mar Baltico nella seconda metà del '600 - Svezia, Prussia e Russia
mercoledì 14 ottobre 2015
Se avete voglia di ascoltarmi alla radio...L'angolo della scuola, lunedì 19 ottobre, ore 17.30, Radiofree

Ecco il link all'evento su Facebook
Questo l'annuncio del programma
Da lunedì 19 ottobre alle 17,30 su www.radiofree.it ospiti de L’ANGOLO DELLA SCUOLA rappresentanti dell’Associazione Gessetti Rotti. Il primo sarà il prof. Sebastiano Cuffari, quindi Lucia Taverna (avvocato, giurista ed assistente parlamentare). L’ANGOLO DELLA SCUOLA è il primo (e si pensa unico) programma interamente dedicato al mondo della scuola. Nato nel 1995 su una radio locale di Milano per iniziativa dell’insegnante e giornalista milanese Massimo Emanuelli, in occasione del ventennale della trasmissione Emanuelli, oltre agli ospiti (studenti, insegnanti, genitori e tutti coloro, famosi e non, che ricordano i tempi della scuola) riproporrà spezzoni di vecchie puntate andate in onda negli anni passati. Potremo quindi riascoltare Fabrizio De Andrè (intervistato da Emanuelli nel 1996), Paolo Villaggio, Sergio Zavoli, Franco Battiato, un allora studente universitario e sconosciuto consigliere comunale milanese: Matteo Salvini (era il 1995 ed Emanuelli gli diceva: sei idealista, non riuscirai a cambiare la Lega. E, per scherzo, aggiungeva: “ne riparliamo fra vent’anni, prenderai il posto di Umberto Bossi), lo scrittore Stefano Benni, l’allora ministro della pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, l’allora deputato dell’opposizione Valentina Aprea con l’allora presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Regione Lombardia, Franco Abruzzo. E, ancora, Beppe Grillo (allora solo comico esiliato dalla Rai), Gianfranco Funari, Massimo Boldi, l’imprenditore (e allora Presidente dell’Inter) Ernesto Pellegrini, Stefano Zecchi, Vittorio Sgarbi, Don Luigi Ciotti, Dario Fo, il regista Maurizio Nichetti e tanti altri. Dopo avere cambiato diverse radio locali di Milano e di Varese (a causa della chiusura delle piccole emittenti in crisi e a causa del personaggio scomodo e dirompente quale è), Emanuelli nel 2012 approda sulla webradio Radio Free, nel giro di pochi mesi il programma viene poi replicato ogni giorno, in fasce orarie diverse, da una decina di altre radio. Fra gli ospiti degli ultimi anni ricordiamo l’allora capogruppo al Senato per il Movimento 5 Stelle, professor Nicola Morra (i pentastellati avevano da poco rotto il silenzio stampa, Morra concesse la prima intervista ad Enrico Mentana e la seconda ad Emanuelli), Giovanni Caccamo: “un bravo ragazzo, istruito, perbene, con brani stupendi, a differenza di altri giovani sedicenti cantanti, si presentò subito in maniera educata, umile, ne intuii le potenzialità. Giovanni tornò diverse volte in trasmissione e ad un certo punto, per incoraggiarlo ma anche per la bravura, gli profetizzai la vittoria al Festival di Sanremo, cosa che accadde successivamente nel febbraio 2015”. E, ancora, Federica Fabbri Fellini (giornalista e nipote del grande Federico Fellini), il vice-sindaco di Parma Nicoletta Paci, il docente e giornalista di Metro Tony Saccucci e tanti altri.
“L’ANGOLO DELLA SCUOLA – ha dichiarato l’ideatore e conduttore – è in onda su così tante radio che non le ricordo tutte nemmeno io. Mi è inoltre impossibile ricordar gli oltre 1000 ospiti fra studenti, genitori, insegnanti, persone famose (e non) che con me hanno parlato di Milano e di scuola. Molte mie "sparate" sono risultate profetiche. La puntata forse più curiosa? Oltre a quello con un ancora poco conosciuto Matteo Salvini e quella con l’esordiente Giovanni Caccamo (poi vincitore del Festival di Sanremo) ricordo quella con Cino Tortorella, il famoso Mago Zurlì del 2013. Cino si sfogava con me: "spiegami tu professore, che capisci qualcosa di televisione e di scuola, perché mi hanno licenziato. Ho la stessa età del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di Papa Ratzinger, ma quelli non li licenziano, non si dimettono". La mia replica: "guarda magari si dimetterà il Papa, invece Napolitano si ricandiderà" e così, qualche mese dopo, fu: Ratzinger si dimise, ma Napolitano venne ricandidato. L’ANGOLO DELLA SCUOLA è in onda ogni lunedì alle 17,30 su Radio Free, replica nei giorni successivi in diverse fasce orarie su Tele Radio Vajont, Radio Mare Italia Network, Radio Hemingway, Radio Mare Imperiale, Radio Big One, Moviradio, Luke Wave Radio, Radio 1 New York (la radio degli italo-americani negli Usa), Irdm Radio.
lunedì 12 ottobre 2015
Si possono davvero valutare gli insegnanti?
Intervista a Cristiano Corsini dei Gessetti Rotti. "La valutazione migliora tanto l’apprendimento quanto l’insegnamento...
Posted by La vera scuola gessetti rotti. on Lunedì 12 ottobre 2015
@MetroNewsItalia intervista Cristiano Corsini. Si possono davvero valutare gli insegnanti? http://t.co/La4JhNol20 pic.twitter.com/6g2ntxhui6
— Gessetti Rotti (@gessettirotti) 12 Ottobre 2015
giovedì 8 ottobre 2015
I 500 euro a chi andranno in pasto? Chi controlla? Sebastiano Cuffari su MetroNewsItalia
Sarà obbligatorio spendere i 500 euro per corsi di formazione?http://metronews.it/15/09/27/i-500-euro-pasto-agli-enti-di-formazione.html
Posted by La vera scuola gessetti rotti. on Martedì 29 settembre 2015
I 500 euro a chi andranno in pasto? Chi controlla? @sebascuffari su @MetroNewsItalia http://t.co/RPthau8xrH pic.twitter.com/EP8nkSBF8x
— Gessetti Rotti (@gessettirotti) 29 Settembre 2015
lunedì 5 ottobre 2015
Cosa l'evoluzione può insegnare ad un uomo di lettere
foto: struttura anatomica delle ginoccha di un uomo (palexstudio.it); struttura anatomica delle ginocchia di un cane (paperblog.com)
L'anatomia delle ginocchia di un uomo ci dice tante cose sull'evoluzione della nostra specie. In primis ci dice una cosa che sappiamo bene ma che tendiamo a voler ignorare appena se ne presti l'occasione: siamo fragili. Ad essere precisi, siamo fragilissimi, per il semplice motivo che, tutto sommato, non siamo quella macchina perfetta che nei millenni ci siamo raccontati. In effetti, tutto ciò che rende le nostre ginocchia ad un tempo funzionali e fragili è l'eredità del nostro millenario passato. Se infatti provassimo a comparare la struttura delle nostra ginocchia alla struttura delle ginocchia di un cane, scopriremmo che, al di là delle sommarie differenze dovute all'adattamento all'andatura bipede, cani e uomini, sotto questo punto di vista, sono sorprendentemente simili. Le nostre ginocchia sono fatte di materiale di riuso: una struttura già presente in natura e riadattata a nuove funzioni. Proprio per questo, da un punto di vista ingegneristico, quelle ginocchia non sono la migliore struttura possibile per svolgere quel determinato compito, ma sono la struttura che in quel momento e luogo la specie Uomo ha potuto sfruttare per la propria lotta per la sopravvivenza.
Il punto è che noi siamo animali molto di più di quanto vogliamo raccontarci. Non è tanto soprendente che noi condividiamo più del 95% dei nostri geni con i nostri parenti più stretti, ovvero gli scimpanzè, ma che condividiamo circa il 30% dei geni con una banana, per fare solo un esempio.
Il nostro cervello per fare un altro esempio, non viene su dal nulla per permetterci di fare metafisica: se vogliamo, questo è un effetto collaterale. Il nostro cervello si sviluppa per permetterci di relazionarci con lo spazio e il tempo a noi circostanti nel miglior modo possibile per sopravvivere. Un fine basico che verrà poi declinato in forme diversissime, tra cui la metafisica. Questa esigenza basica ci permette di creare strumenti, non fini, che ci hanno consentito la sopravvivenza in un ambiente ostile: pietre lavorate, archi e frecce, la conservazione del fuoco, la parola, i simboli, la logica, la prospettiva aerea, il metodo scientifico, le navicelle spaziali. Anche in questo caso, senza disdegnare di riadoperare ciò che già c'era con nuove finalità. Come l'area del cervello che sviluppa le funzioni del linguaggio e, in special modo, la lettoscrittura: un'area preesistente a questa funzione, adibita in primo luogo al riconoscimento delle figure più piccole, e solo in un secondo tempo convertita per una funzione che oggi definiremmo astratto/simbolica.
Nessuna macchina perfetta, insomma, anzi, meravigliosamente imperfetta, e proprio per questo in grado di migliorarsi. Si guardi allo sviluppo delle moderne tecnologie, ai computer: per molti versi, queste macchine svolgono delle funzioni che noi pensiamo connaturate al nostro essere uomini in maniera molto più ottimizzata di noi. Un computer esegue calcoli molto più rapidamente di un umano medio, ricorda e immagazzina molti più numeri di telefono o e-mail di quante possa fare un uomo non allenato a farlo. Eppure, ad oggi, il computer non impara autonomamente, se non in maniera limitata e secondo la programmazione che gli viene data. Nell'uomo quella stessa capacità di adattarsi agli eventi che ha permesso di modificare il comportamento di aree del nostro cervello in funzione di nuove istanze, ci ha anche permesso di realizzare macchine che per molti aspetti superano i nostri limiti, ampliandone i confini.
L'evoluzione delle malattie genetiche ci racconta una storia simile: il continuo tentativo di resistere a ciò che ci circonda, che ci cambia; una lotta continua, in cui la vittoria spetta a chi è capace di correre più a lungo. Non potremmo per esempio fare la storia del Mediterraneo senza raccontarci la storia, lunghissima, della malaria che ha infestato per millenni queste terre. Ma non potremmo raccontare la storia della malaria senza narrare anche la storia, affascinante, delle variazioni genetiche che hanno reso l'uomo ad un tempo più resistente e più fragile: più resistente, modificando la forma dei globuli rossi degli abitanti di queste aree, rendendoli più difficilmente attaccabili, e più fragile, diffondendo una malattia genetica potenzialmente mortale come la talassemia. Una malattia, una variazione, evidentemente vantaggiosa, perché un rischio potenziale, quello della talassemia, corrsipondeva ad un vantaggio concreto, quello della sopravvivenza alla malaria.
Una storia simile è quella di alcune patologie di recente diffusione, come l'Alzheimer o il Parkinson
La conservazione di ciò che siamo, scissa dalla conservazione di ciò che ci circonda, equivale alla morte. Non siamo fatti per l'immobilità: non perché sia un dio o un'ideologia a dircelo, ma semplicemente perché l'immobilismo, in termini evoluzionistici, equivale all'estinzione. Non esiste evoluzione senza variazione, senza continui cambiamenti, anche impercettibili.
Ciò che possiamo imparare dalla lezione che l'evoluzione ci insegna, è il non dare per scontati come acquisizioni eterne i frutti della nostra cultura, come se fossero dei totem inamovibli. Per esempio l'idea che il sapere critico sia intimamente connaturato con la lettoscrittura, e non sia piuttosto da legare ad una capacità simbolica che innerva in maniera diversa ogni linguaggio fruibile dall'uomo. Dobbiamo avere chiara la percezione della storicità di ogni nostro fatto, della validità di ogni nostra costruzione culturale non di per sé, ma in funzione del contesto, delle necessità, non solo strettamente connesse alla sopravvivenza, ma anche alla formulazione teorica, alle esigenze espressive...
Ciò che inoltre l'evoluzione ci insegna è che non c'è un fine, non c'è un obiettivo. Non siamo lo scopo ultimo dell'evoluzione, siamo semmai uno dei tanti granelli che riempiono la clessidra, anche se, qui e ora, siamo il granello più pesante. Ma come per miliardi di anni l'universo ha potuto esistere senza la nostra presenza, non c'è nessuna ragione che possa spiegarci perché l'universo stesso dovrebbe, o non dovrebbe, sopravvivere dopo di noi. Semplicemente, si tratta di una questione mal posta, di una domanda retorica, il tentativo estremo di trovare un ordine in un caos che tale rimarrà sempre e comunque, ordinato solo, per il breve sprazzo del nostro esistere, dal nostro stesso istinto alla sopravvivenza.
domenica 4 ottobre 2015
Dagli al lavoratore, dagli al dissidente
Giudicare un'epoca nel mentre la si vive risulta sempre un atto cognitivo piuttosto complicato a causa della vicinanza, cronologica e sentimentale che non permettono la minima distanza critica. Tuttavia, la percezione ragionata del contemporaneo dell'epoca che vive può risultare utile ai posteri per comprendere meglio ciò che determinati cambiamenti hanno rappresentato per la percezione condivisa delle persone che li hanno vissuti.
Se c'è qualcosa che sta caratterizzando gli ultimi anni della politica e dell'azione di governo in Italia, questo è probabilmente un tentativo di cambiamento del paradigma sociologico/culturale. Starà ai posteri stabilire se il tentativo sia solo apparente o reale, ma qui invece tocca discutere in che cosa consista questo tentativo.
Sfogliando i giornali, guardando gli spettacoli televisivi, assistendo alle discussioni pubbliche, il motto dei politici di ogni campo o schieramento è stato quello della rottamazione. Rottamazione di uomini, schemi, modelli. Se la rottamazione degli uomini appare più apparente che reale, almeno in politica, non così per quanto riguarda certi schemi sociali e politici che apparivano acquisiti, come alcuni diritti.
Assistiamo ad un riposizionamento della sinistra di governo che, ormai ben distante da una critica serrata al capitalismo come modello unico socioeconomico, ne accetta le regole, punta alla massima capitalizzazione di una fiducia (ben spesa?) verso la sua visione progressista del governo del bene comune. Il renzismo, riproposizione italiana del modello Labour del presidente Blair, si annida dentro le regole del capitalismo, cerca l'alleanza di chi nel capitalismo ha il ruolo del fornitore di lavoro/erogatore di servizi, abbandonando quel target di elettori storicamente legato alla sinistra di opposizione, come le varie categorie di lavoratori del settore pubblico, il proletariato (o ciò che ne resta), gli immigrati, i pensionati e che ha poco a che fare con un partito, il PD di oggi, che vuole in ogni modo essere di governo .
In questo contesto, distinguere destra e sinistra diventa un puro gioco stilistico, studio delle diverse forme di espressione, per esempio, dello stigma nei confronti di chi ha ottenuto poco dalla vita, immigrato, reietto, lavoratore o pensionato che sia.
Si guardi con attenzione all'azione di governo: il filo conduttore di questa azione è stato la riduzione costante dei diritti dei lavoratori neoimmessi nel mercato del lavoro, la loro precarizzazione, soprattutto nelle forme contrattuali (se è vero che si è compiuto un taglio sui contratti a progetto, allo stesso modo il contratto a tutele crescenti riduce le garanzie per le forme contrattuali storicamente più solide). Lavoro simile si è compiuto sulla scuola, con una riforma che vede non tanto la stabilizzazione dei contratti dei precari della scuola, quanto la precarizzazione dei dovuti contratti a tempo indeterminato; a questo si aggiunge un rinnovato verticismo dell'organizzazione scolastica e un ampliamento delle attività di alternanza scuola/lavoro, ovvero ore di stage non retribuite a cui saranno costretti non più solamente gli studenti degli istituti professionali e tecnici, ma anche quelli dei licei. Quali saranno le ricadute di questa scelta sul piano occupazionale sarà tutto da vedere, vista la reale difficoltà di scuole sotto organico nell'organizzare simile attività.
Ma ciò che preme sottolineare è come l'attacco al lavoratore come figura socialmente riconosciuta non si compie solamente dal punto di vista contrattuale: è nella stessa propaganda di stato, sui giornali e tra i canali televisivi, che osserviamo un continuo tentativo di ridefinizione della figura del lavoratore da un punto di vista culturale.
Questa ridefinizione passa attraverso il costante attacco ai sindacati, accusati di un immobilismo di cui, in realtà, possono essere colpevoli solo in parte - molto banalmente, non spetta ai sindacati investire sulla ricerca e l'innovazione, non spetta ai sindacati legiferare, non spetta ai sindacati creare posti di lavoro e rafforzare i consumi, mentre spetta ai sindacati agire a livello di contrattazione e difendere i diritti dei lavoratori; inoltre, va ricordato che i sindacati, a differenza di un governo nazionale, hanno come compito la rappresentanza dei propri iscritti, non dell'universo mondo, compito che invece spetterebbe ai partiti e, soprattutto, ai governi -. L'attacco ai sindacati ha come ricaduta evidente l'individualizzazione del lavoratore: privato della propria rappresentanza, il lavoratore scopre di essere solo e debole, e, soprattutto, responsabile per il trattamento che riceve da parte del datore di lavoro. Ciò che viene proposto è il modello del self made man, il successo come canone di giudizio dell'uomo: il lavoratore che non ha raggiunto le più alte sfere della propria carriera lavorativa non l'ha fatto per le proprie evidenti mancanze, sempre misurabili e certificabili.
Questa dottrina, che impregna l'azione di governo degli ultimi anni, si fonda su almeno due assunti logici tutt'altro che incontestabili: che le condizioni di partenza dei lavoratori siano in generale sempre equiparabili, tanto che il successo dell'uno, o l'insuccesso dell'altro, corrispondano al rispettivo valore dell'uno e dell'altro; che sindacati e dissenzienti vogliano difendere a tutti i costi chi, semplicisticamente, vuole mascherare le proprie incapacità.
Il continuo attacco al fronte sindacale - si guardi, ancora, al trattamento riservato ai sindacati della scuola, del pubblico impiego, delle industrie automobilistiche e siderurgiche, infine dei beni culturali - nella continua volontà di sminuirne il lavoro ha come obiettivo finale lasciare da solo il lavoratore di fronte al datore di lavoro, privato di potere contrattuale e, soprattutto, intimamente convinto che il proprio destino stia esclusivamente nelle proprie mani - al di là di ogni reale e oggettivo impedimento e nella misura del proprio fallimento -. Chi aderisce al sindacato, chi dissente da questa visione non è altri che un fannullone o un lavoratore che vuole tenere in ostaggio un settore intero, contro gli interessi di quei lavoratori che, in quest'ottica, si impegnano davvero.
Che il successo sia la misura di tutte le cose si può notare anche dagli attacchi costanti al dissenso politico: esempi emblematici gli attacchi post mortem subiti da Pietro Ingrao sul giornale, l'Unità, che fu di Gramsci. In Ingrao, con il tramite di articoli come quelli di Rondolino, si è voluto colpire un dissenso ontologicamente incomprensibile, semplicemente perché non atto a produrre risultati immediati e immediatamente visibili. L'opposizione di Ingrao è presa quindi a simbolo di ogni possibile dissenso che, in quanto tale, è sempre assolutamente perdente; in più, il dissenso in quanto tale è futto di immaturità politica e cognitiva, rifugio adolescenziale - eppure il successo del renzismo si è fondato proprio sul dissenso nei confronti di una precedente classe dirigente -. Una visione che è semplicemente incapace di cogliere il valore del dissenso in quanto tale, persino dell'insuccesso. Sarebbe troppo semplice ricordare come storicamente sia stato proprio il dissenso verso certi tratti della nostra cultura a fondarne il superamento e il progresso della civiltà occidentale (il dissenso nei confronti dello schiavismo, del fascismo, del nazismo, della pena di morte...); il punto è che una cultura politica incapace di riconoscere le ragioni altrui perché convinta ssolutisticamente delle proprie, che riduce i diritti dei lavoratori, che segue pedissequamente le ragioni degli industriali, non solo tradisce gli ideali di qualsiasi sinistra, di opposizione o di governo che sia, ma rischia di essere un vulnus per la democrazia, nella misura in cui attenta alle sue strutture sminuendone continuamente il valore storico e l'importanza presente.
Foto: gazzettadellavoro.it
lunedì 28 settembre 2015
Kitchen, Banana Yoshimoto
Kitchen è la prima opera importante di Banana Yoshimoto, autrice giapponese che ha fondato il suo successo sulla particolarità della sua visione del mondo e sul suo linguaggio, che avvicina le sue opere al modo di narrare tipico dei manga degli anni '90.
In particolare in quest'opera, in realtà una raccolta di due racconti lunghi, Yoshimoto narra la vita di due personaggi, due ragazzi giapponesi, venuti su in maniera disincantata in un mondo che, malgrado la gentilezza di circostanza, pare benissimo poter fare a meno di loro.
I due ragazzi vengono accomunati dai lutti, prima i genitori di lei, poi il padre di lui - un padre particolare, dato che, quando ancora il figlio era poco più che un bambino, aveva deciso, per poter sopravvivere, di divenire donna e aprire un locale per trans.
Sarà questa visione disincantata e distorta della realtà ad unire i due personaggi, con un luogo d'incontro prediletto, le cucine. Kitchen, a punto, come le cucine in cui la protagonista femminile si trova a suo agio, unico luogo in cui pare saper essere se stessa.
Un romanzo di formazione, certo, condito da qualche ironia, lo scuarcio di un velo di ipocrisia sulla vita di tanti adulti della società bene, e soprattutto, uno stile nell'esposizione e nel tratteggiare luoghi e persone che non può non ricordare alcuni mangaka famosi, in primis Tsukasa Hojo, l'autore di una miniserie, Family Compo, che per tantissimi motivi, dal tema alla sensibilità, non può non essere accostato a Banana Yoshimoto.
Un buon libro insomma, lontano dall'essere un capolavoro, ma che trova nella sua brevità l'arma migliore per farsi apprezzare.
Foto: Amazon
martedì 22 settembre 2015
Notte Bianca Della Scuola, Gessetti Rotti c'è #lascuolaperme
La scuola non la fanno le riforme o i governi, la fanno alunni e docenti. Il 23 settembre batti un colpo: scatta una...
Posted by La vera scuola gessetti rotti. on Domenica 20 settembre 2015
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martedì 15 settembre 2015
Il Miur e i numeri che non tornano
Dicembre 2014, il primo ministro Matteo Renzi, a seguito della sentenza della Corte europea sull’abuso di precariato...
Posted by La vera scuola gessetti rotti. on Lunedì 14 settembre 2015
Anche @MetroNewsItalia ci racconta i numeri gonfiati della #scuola di @matteorenzi http://t.co/GN4n3QkJwB pic.twitter.com/ldd5TMXCtc
— Gessetti Rotti (@gessettirotti) September 15, 2015
domenica 13 settembre 2015
Come l'evoluzione ci ha cambiati

(foto: slate.com)
Secondo le teorie più recenti, l'evoluzione della specie Homo avviene, come del resto sempre in Natura, secondo processi in parte casuali. Durante la vita delle diverse generazioni dei nostri antenati sono nati un certo numero di esemplari portatori di variazioni genetiche (Variazione), variazioni che, se sono risultate utili alla sopravvivenza dell'individuo, si sono poi diffuse (Ereditarietà), spesso andando, nel corso di migliaia o milioni di anni, a sostituire quelle che erano le caratteristiche precedenti non più adatte alle diverse circostanze, situazioni climatiche, sviluppo del territorio (selezione). Questo tipo di sviluppo, come detto, può avvenire solo con il trascorrere di migliaia, più spesso milioni di anni (Tempo), ma tutto ciò non potrebbe preservare la vita sul pianeta se non per la capacità di adattamento delle specie naturali (Adattamento). Questi agenti dell'evoluzione delle specie animali vengono indicati da paleontologi e antropologi con la sigla V.E.S.T.A..
In particolare una variazione è risultata fondamentale rispetto ai nostri parenti più stretti, gli scimpanzè, ovvero l'avere acquisito la capacità di camminare con i soli arti posteriori. Quando, già con l'Australopiteco, i nostri antenati hanno iniziato ad essere bipedi, il loro modo di vivere ha iniziato a mutare, favorendo una serie di altri cambiamenti.
Se guardiamo l'evoluzione degli arti, già con l'Homo habilis possiamo osservare come i piedi sembrino aver perso il pollice prensile, perché nel processo di specializzazione non sarà più necessario arrampicarsi sugli alberi per garantire la propria sopravvivenza. Al contrario le mani acquisiranno uno strumento fondamentale che sarà il pollice opponibile, con cui l'uomo potrà non solamente arrampicarsi, ma anche afferrare e manipolare oggetti, iniziando quindi a modificare l'ambiente circostante secondo le proprie esigenze.
Camminare su due gambe implica anche un modo diverso di vivere: la stessa dentatura degli uomini inizia a modificarsi rispetto a quella degli altri primati. Osservando i teschi dei primati a noi più vicini e confrontandoli con quelli dei primi esemplari di uomini, notiamo che la dentatura lentamente si rimpicciolisce e cambia di forma. Negli scimpanzè incisivi e canini particolarmente lunghi servono ad incidere e dilaniare anche le cortecce più dure, mentre dei molari massicci serviranno a triturare le fibre più resistenti. Il rimpicciolirsi dei denti nella specie Homo indica una dieta più varia, tipica di animali cacciatori/raccoglitori, che presto impareranno ad ammorbidire la carne adoperando il fuoco o altri strumenti. La perdita del pollice prensile nel piede e la diversa dentatura ci dicono che gli homo, a questo punto, si stanno evolvendo per coprire una nicchia ecologica diversa rispetto a quella dei loro cugini. Possiamo immaginare che il tempo dedicato alla nutrizione si riduca rispetto, per esempio, ai gorilla: in questo senso il fuoco è uno strumento che permette di rendere più rapida la digestione.
La postura dell'uomo cambia con il progredire della specializzazione degli arti inferiori, e di conseguenza cambia anche la forma delle ossa pelviche. Esse si modificano, sia nella forma che nella posizione, andando a sostenere muscoli diversi rispetto agli altri primati. In particolare nel nostro essere bipedi le ossa pelviche sosterranno prevalentemente i glutei, i muscoli che lavorano maggiormente nell'atto dell'incedere, mentre negli scimpanzè queste ossa sostengono prevalentemente i muscoli delle cosce. La nuova postura consente all'uomo di specializzarsi nella caccia di gruppo e nella raccolta. È probabile che l'homo, tra gli altri motivi, sviluppi forme di socialità proprio durante l'attività della caccia, postendo contare su una postura, quella bipede, che se lo rende più lento rispetto ad altri animali, gli permette di sprecare meno calorie e di inseguire per spazi più ampi le proprie prede.
La colonna vertebrale assume la forma odierna, e si innesta nel cranio in maniera diversa rispetto agli altri primati: per questo motivo il Forame Magno, il punto in cui la colonna vertebrale incontra il cranio, si posiziona verticalmente nell'uomo, mentre ha una posizione orizzontale negli altri primati.
Il cranio dell'uomo cresce di dimensioni nel corso di milioni di anni, permettendo quindi che il volume del cervello si incrementi. Scoperte recenti mostrano come all'interno delle stesse specie le dimensioni del cranio possono variare notevolmente, ma in generale possiamo dire che nel corso dei milioni di anni questo processo è stato costante. Inoltre il cranio perde via via le sue sporgenze e diventa meno spesso, con la notevole eccezione dell'Homo erectus, in cui le ossa del cranio sono molto spesse e sono presenti delle arcate sopracigliari molto sporgenti: dimostrazione del fatto che in questa specie era utile proteggere gli occhi perché, per esempio, anche la testa veniva utilizzata come strumento nella lotta.
Riguardo al modo di partorire degli uomini, si è inoltre notato come, a differenza degli altri primati, per la specie Homo questo sia un atto sociale, tanto che, anche senza aiuto medico, la presenza di qualcuno che dia sostegno alla partoriente garantisce percentuali di successo maggiori rispetto ad un parto avvenuto in solitudine. Inoltre, proprio per le accresciute dimensioni del cranio, l'uomo è una delle poche specie che corre notevoli rischi per la propria stessa sopravvivenza durante il parto. Del resto, si è scoperto che la durata della gestazione dipende grandemente dall'apporto di calorie che la madre può garantire al nascituro nell'utero. In questo senso, all'incirca al nono mese di gravidanza il fabbisogno di calorie del nascituro non potrà più essere garantito dalla madre nella gestazione, mentre verrà più facilmente garantito attraverso l'allattamento e la collaborazione della famiglia allargata (padre, madre, fratelli, sorelle, nonni e nonne, zii e zie); questo dato, che rende gli hominidi e l'uomo animali altriciali, spiega la grande longevità di individui anche oltre gli anni della fertilità.
BIBLIOGRAFIA (solo a titolo esemplificativo)
http://elucy.org/Main/WhatIsBipedalism.html
White, T. (2003) Early hominids: Diversity or distortion? Science 299:1994-1997.
http://johnhawks.net/weblog/reviews/early_hominids/diet/stable_isotopes_2005.html
http://humanorigins.si.edu/evidence/human-fossils/species/australopithecus-sediba
http://www.efossils.org/species/australopithecus-sediba
Peters, C. R., & Vogel, J. C. (2005). Africa's wild C4 plant foods and possible early hominid diets.Journal of human evolution, 48 (3), 219-236
Lewin, R, & Foley, R, (2004) Origins of Homo. Principles of Human Evolution (284-307). Blackwell Publishing.
http://humanorigins.si.edu/evidence/behavior/tools
http://www.nature.com/scitable/knowledge/library/homo-erectus-a-bigger-smarter-97879043
http://archaeologyinfo.com/homo-erectus/
Sarah A. Tishkoff and Scott M. Williams, Aug. 2002, Genetic Analysis of African Populations: Human Evolution and Complex Disease, Nature Reviews.
http://www.slate.com/articles/health_and_science/science/2015/09/homo_naledi_discovery_newfound_hominid_species_deliberately_disposed_of.html
http://news.nationalgeographic.com/2015/09/150910-human-evolution-change/
Downey, Becoming Human, How evolution made us, August 2013
http://ewn.co.za/Features/Naledi
http://www.slate.com/articles/health_and_science/science/2015/09/homo_naledi_discovery_newfound_hominid_species_deliberately_disposed_of.html
sabato 12 settembre 2015
IL SISTEMA DI VALUTAZIONE DELLA SCUOLA ITALIANA: La proposta di Gessetti Rotti
IL SISTEMA DI VALUTAZIONE DELLA SCUOLA ITALIANA: La proposta di Gessetti RottiValutazione: forse il tema più caldo e...
Posted by La vera scuola gessetti rotti. on Sabato 12 settembre 2015
giovedì 10 settembre 2015
Scattone, la cattedra e l'Illuminismo
Scattone ha rinunciato la cattedra, evviva Scattone. Bravo Scattone, ha fatto bene, prevale il buon senso.
Buom senso un ca$$o. A prevalere sono stati gogna e caccia alle streghe.
Perché se è vero che l'Italia nell'anno di grazia 2015 è ancora uno stato fondato sul diritto, e se è vero che Scattone ha ricevuto una condanna definitiva, vero pure che la sua condanna, Scattone, senza riconoscersi colpevole, l'ha tuttavia affrontata tutta. E Scattone che è costretto a rinunciare alla cattedra che gli spettava per aver superato un concorso pubblico è una sconfitta per lo stato di diritto, un ritorno alla società della faida.
Per non lasciare dubbi, non credo che Scattone fosse innocente.
Ma quello che credo io, in uno stato di diritto, non conta. Conta, su Scattone, quello che crede la legge, nello specifico quello che è stato il giudizio della magistratura. E per la magistratura Scattone ha pagato, ha scontato la sua condanna ed ora è un uomo libero, che ha compiuto un percorso di riabilitazione. Principio che non è nato ieri, ma che sta alla base della nostra cultura giuridica dall'Illuminismo in poi, da quel Beccaria che troppi conoscono solo per la sua parentela con Manzoni (sempre che si conosca Manzoni).
Perché per lo stesso principio per cui, per il giudizio morale di chi non ha titoli per giudicare, Scattone è stato costretto a rifiutare la cattedra che gli spettava di diritto, domani potrei alzarmi, andare a scuola e pretendere che i miei colleghi si dimettano, dato che non li ritengo moralmente adeguati. Così, perché una volta li ho visti sputare per terra, calpestare un'aiuola. Estremizzo? Certo, ma il principio è esattamente lo stesso che è stato applicato in questa circostanza. Ed è portando all'estremo che si scova una fallacia logica.
Che la famiglia di Marta Russo si indigni è cosa comprensibile, come da millenni si indigna ogni famiglia di ogni vittima. Ma lo Stato, se si chiama tale, non è chiamato a compiere una vendetta, bensì a riportare l'ordine, ad allontanare temporaneamente dalla società chi ne risulta elemento perturbante, provvedendo alla sua riabilitazione e ponendo le condizioni per il suo reinserimento nella società.
Ciò che è mancato oggi è lo stato di diritto, perché raccontiamocela tutta: il problema non sta nel fatto che Scattone potesse insegnare, qualsiasi mestiere andasse a fare lo troveremmo indecoroso, o perché di responsabilità, o perché pagato con i soldi pubblici per chissà quale altro motivo. Il problema è di fondo: quell'uomo deve portare su di sé lo stigma di ciò che ha fatto, dovrà portarlo per sempre, e pretendiamo che non lo nasconda sotto l'apparenza di una vita normale.
Parliamo di indignazione, ma in realtà stiamo coltivando una società di mastini con la bava alla bocca.
La società del rischio di Beck e la perdita dello status sociale
Nel suo volume La società del rischio, Ulrich Beck analizzava, nel 1986, i mutamenti a cui stava assistendo nell'ambito di quel mondo in cambiamento che sempre più veniva definito postmoderno. Nella sua analisi Beck parlava di una società che si avviava a superare la società industriale, per divenire invece società fondata sul rischio, naturale o sociale che fosse. Il rischio era, nella visione dell'autore, democratico, colpiva tutti, abbattendo le differenze di classe o ceto sociale o i confini geografici. Ovviamente erano ben vive, per il lettore dell'epoca, l'immagine di Chernobyl, il rischio nucleare o la paura per il perenne rischio di una terza guerra mondiale. Nella società del rischio quindi, abbattute le classi sociali, Beck scovava una seconda caratteristica, ovvero il disincanto, la perdita di fiducia nelle vecchie autorità, leggi e norme sociali che non sono più in grado di scongiurare il rischio diffuso. Questo disincanto era preceduto e seguito da una più diffusa alfabetizzazione, oltre che da una conoscenza delle scienze più massificata; di fronte ad una popolazione meno incolta, ma non per questo più competente, autorità come quelle degli scienziati, dei medici, degli insegnanti, della magistratura vacillano, sono messe in discussione da chi sa, o crede di sapere, e da chi sa, o crede di sapere, come reperire le informazioni. Un'ulteriore spinta verso questo disincanto è venuta poi dai moderni mezzi di comunicazione, la rete, per esempio. Di fronte alla perdita di credibilità delle vecchie autorità, l'uomo di Beck si trova solo, ed ecco quindi che compare il terzo concetto fondante la sua teoria, ovvero l'individualizzazione. L'uomo, solo, senza più alcun paracadute sociale, che sia il welfare, la famiglia, la classe sociale, non può che affidarsi a ciò che ha egli stesso messo in discussione, la conoscenza tecnica, il progresso economico, resisi unici veri valori fondanti della società postmoderna. Così è solo il progresso economico ad essere soluzione per una crisi, economica, che esso stesso ha creato; è il progresso tecnico ad essere, solo. soluzione verso i rischi da esso creati, come i disastri ambientali di cui Chernobyl è esempio. L'uomo individualizzato quindi, non è più libero di prima, ha semplicemente cambiato padrone; ma mentre la differenza fra il potente e il sottomesso erano ben evidenti in epoca feudale e industriale, questa linea di demarcazione appare meno netta (ma non è detto che poi non lo sia realmente) in epoca postmoderna.
Come si è detto, uno dei concetti fondanti questa teoria è quello del disincanto. Disincanto verso, dicevamo, ogni autorità, classe sociale e norma acquisita. La causa del disincanto è, si diceva, la sensazione di diffusa insicurezza verso cui le risposte tradizionali non sono più valide. Gli effetti di questo disincanto sono ben visibili ogni giorno: ciascuno di noi quotidianamente mette in discussione quanto detto dai medici, se la diagnosi non ci convince (immediatamente ricerchiamo su google i sintomi per controllare che il medico non sia un incompetente), cerchiamo su qualche sito conferma a quanto espresso dal politico (soprattutto, cerchiamo qualcosa che, ad ogni costo, lo smentisca e lo smascheri), cerchiamo le contraddizioni nelle dottrine religiose, nelle teorie filosofiche, senza magari accorgerci delle sonore cantonate che stiamo prendendo. Se il disincanto è, entro una certa misura, cosa buona e giusta e sintomo del progresso culturale di una società, lo stesso disincanto, quando raggiunge forme estreme e disgreganti, diventa patologico. Quando il disincanto colpisce la stessa fiducia nelle norme e nello stato di diritto, come per l'iconico caso Scattone, esso costituisce la premessa per la dissoluzione dello stato.
Fra le classi sociali che più hanno sofferto il disincanto dell'età postmoderna, sicuramente una delle più colpite è quella degli insegnanti. Si osservino le recenti polemiche sulla categoria, a partire dalla foga con cui da ogni parte se ne chiede una valutazione sistematica (senza che però si faccia mai realmente riferimento agli studi scientifici sul come e cosa valutare negli insegnanti, perché quegli stessi studi scientifici godono di poca fama) o alla caccia alle streghe sulla presunta teoria gender. Si guardi a come vengano rigorosamente ignorati documenti ufficali, prese di posizione, studi e testi rigorosi sull'inesistenza di questa teoria. Si osservi come, finanche oggi sul Corriere venga riportato un sondaggio sulla riforma chiamata Buona scuola, e come per l'ennesima volta vengano riferiti dati sul mestiere dell'insegnante più volte smentiti da studi accurati.
Eppure non si può fare a meno di insegnanti e di scuola, perché l'uomo è animale altriciale, che ha bisogno di molto più della famiglia per poter formare i suoi cuccioli; e ha bisogno di pensiero divergente per poter evolversi costruire qualcosa di nuovo, creare progresso. Anche in questo caso, ciò che è vittima di disincanto è esso stesso fautore della propria conservazione.
Forse sarà solo quest'esigenza di una scuola libera e di insegnanti liberi a poter salvare la scuola stessa e gli insegnanti stessi dalla forca della società del rischio.
sabato 29 agosto 2015
Ancora sulle bufale sul gender e la scuola

Partiamo da quanto di infondato si dice dal punto di vista dei programmi e dell'organizzazione scolastica. Intanto, il patto di corresponsabilità è, a punto, un patto, che già da parecchi anni si fa firmare nelle scuole. in pratica è un patto che viene stabilito tra scuola e famiglia, le regole, i diritti e i doveri condivisi. Se un genitore non firmasse il patto di coresponsabilità, che è fondato sul POF (o in futuro il POTF) della scuola, ovvero il Piano dell'Offerta Formativa della scuola scelta, in linea molto teorica l'alunno/a non dovrebbe essere accettato a scuola. E questo ha un senso: se scegli di mandare tuo figlio presso la scuola X dovrebbe essere perché hai letto il POF, che è pubblico e scaricabile dai siti delle scuole o richiedibile a scuola. Se non ti va bene il POF, non iscrivi lì tuo figlio.
Per quanto riguarda la questione Gender. Intanto, va precisato che non esiste alcun documento pubblico che parli in alcun modo di teoria gender. La legge 107/2015, la cosiddetta Buonascuola, criticabile per tantissime altre questioni, istituzionalizza una cosa che già si fa a scuola, anche se forse troppo poco, ovvero la lotta contro ogni discriminazione, sessuale, religiosa, etnica, politica. Si sancisce che ogni scuola nel proprio POF debba inserire delle attività di lotta e prevenzione contro le discriminazioni.
Sulle pratiche legate alla lotta contro le discriminazioni a scuola molto si è detto, e spesso a sproposito; per esempio si è parlato di maestre che insegnano agli alunni a masturbarsi o che confondono i generi sessuali dei bambini. In realtà già da anni nelle scuole si praticano giochi di ruolo, ovvero il "mi metto nei panni di" per vedere che cosa cambia cambiando prospettiva. La pratica nasce dagli studi di psicologia, era in origine adoperata come terapia, sia individuale che di gruppo, per curare diverse patologie evitando l'uso dei farmaci. Strada facendo tuttavia i giochi di ruolo sono diventati anche pratica didattica e vera e propria attività ludica, essendone riconosciuta l'utilità per lo sviluppo pratico di un'intelligenza critica. Per quanto riguarda la masturbazione infantile, studiata già da Freud, è un comportamento che si riscontra normalmente anche fra i bambini come fenomeno di autoesplorazione, nulla comunque di cui preoccuparsi, anche se ovviamente ne va monitorata l'intensità.
Oggi antropologi e psicologi sono abbastanza concordi nel definire due concetti diversi, ovvero sesso biologico, per sua stessa natura legato ai geni di cui siamo espressione, e genere sessuale, ovvero il come ci autorappresentiamo e pensiamo come uomo, donna o qualsiasi altra variante. Il genere sessuale, a differenza del sesso biologico, è quindi definito più da componenti culturali e sociali, è variabile: una donna può rappresentarsi e pensarsi femminile, per esempio, in maniera molto diversa a seconda della cultura in cui è calata. Scopo degli studi di genere è quindi capire il limite tra le differenze tra i sessi, sia da un punto di vista biologico che da un punto di vista culturale
Quando si parla di teoria gender, che non esiste in scienza né in alcun documento o programma scolastico, invece si fa riferimento ad una presunta volontà occulta di confondere gli alunni, con il fine di diffondere l'omosessualità. Questa teoria in realtà nasce sulle riviste Tempi e Avvenire, legate al Cristianesimo, avendo poi largo seguito tra le organizzazioni omofobe, i partiti e i movimenti politici di estrema destra, i siti specializzati nella distorsione delle notizie e il conseguimento di guadagni dai click sulle pagine. Tale teoria non ha alcun riscontro reale nel dibattito scientifico. La stessa definizione di teoria gender o del gender gioca sulla confusione terminologica della mancata traduzione della parola gender, termine inglese, che, a punto, vuol dire "genere".
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