martedì 26 dicembre 2017

Il momento in cui siamo diventati uomini moderni


Il grafico in alto mostra l'andamento del popolamento mondiale negli ultimi duemila anni. Osservandolo bene risulta abbastanza evidente come, almeno fino, più o meno, al 1250 d. C., le "regole del gioco" demografico fossero abbastanza stabili e, apparentemente, immodificabili. Sostanzialmente, nell'ambito di una mortalità molto alta e di una aspettativa di vita molto bassa, la società si divideva in due modelli base, anche se poi declinabili con mille sfaccettature, quelli del popolamento basato su società agricole e quelli del popolamento basato su società nomadi. La maggioranza della popolazione viveva così lavorando i campi, all'interno di tre aree che costituivano i principali poli di attrazione, l'Europa mediterranea e occidentale, il subcontinente indiano e la Cina; a quest'ultima in particolare spettava, in maniera schiacciante almeno a partire dall'anno mille, il primato demografico.
Tra XIII e XIV secolo le cose iniziarono gradualmente a cambiare, anche se ciò avvenne con battute d'arresto molto forti, come quella che colpì l'Europa occidentale dopo il 1300: più realisticamente però, il momento in cui, almeno da un punto di vista demografico, le cose sono realmente cambiate va cercato più in là nel tempo, precisamente nel XVIII secolo d. C.
Se guardiamo alla storia demografica fino al XVIII secolo, le teorie di Thomas R. Malthus possono avere un qualche fondamento. Lo studioso teorizzava che ci fosse una disparità esponenziale tra crescita demografica e crescita della produzione, squilibrio che non può non portare alla crisi e al successivo riequilibrio del sistema, che si realizza in un drastico e rapido crollo demografico. Questa teoria funziona benissimo per i sistemi di produzione e più in generale per le società tradizionali, ma dal 1700 in poi semplicemente le cose cambiano.
Dal 1700 circa (ovviamente parliamo di datazioni indicative), la crescita della popolazione mondiale, per quanto si tratti di un aumento della popolazione mai visto prima, è ridotto rispetto alla crescita della produzione, grazie all'avvento delle nuove tecnologie, soprattutto, sempre in sviluppo, del sistema industriale, grazie inoltre alle nuove conoscenze scientifiche, in primis le moderne cure mediche, e ai conseguenti cambiamenti nelle abitudini e nel modo di vivere.
Per essere più precisi, se prima del '700 e delle sue rivoluzioni culturali ed economiche il sistema di produzione appariva un sistema chiuso, da questo momento parliamo di un sistema aperto, in cui il continuo immettersi di nuove tecnologie e conoscenze rompe gli argini dei limiti malthusiani, confutandone le tesi.
È quindi superfluo dire che il tentativo di continuare ad adoperare le teorie malthusiane appare, senza opportune e poderose correzioni, inutile.
In ultima analisi, se dovessimo tentare di definire quando e in che modo siamo diventati uomini moderni, è al '700 che occorre osservare, e riconoscere che, se si guarda alla storia del lungo periodo, è quello il momento in cui abbiamo abbandonato la società tradizionale per diventare qualcosa di diverso (per lo stesso motivo, ogni tentativo di richiamarsi alla società tradizionale, alla lettera, è un tentativo di tornare ad un'età premoderna, cosa di cui andrebbero spiegate nel dettaglio le conseguenze).

domenica 10 dicembre 2017

Discutiamo razionalmente di ius soli?



Come si sa, quello dello ius soli è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Non di meno, discutere online di questo argomento è particolarmente complicato, soprattutto perché il tema suscita reazioni isteriche e da tifoseria.
Per condurre una discussione razionale sul tema ho quindi deciso di adoperare un portale gratuito, Kialo, che consente di moderare gli interventi e di strutturarli in maniera razionale, secondo lo schema di una mappa concettuale, con una componente valutativa data dal giudizio di pertinenza ad ogni intervento dato dai partecipanti e dai lettori del dibattito. Chiunque volesse quindi seguire o partecipare al dibattito, troverà qui il link

venerdì 1 dicembre 2017

Il Giulio Cesare di Luciano Canfora

Foto: Wikipedia


Leggere e ascoltare Luciano Canfora che racconta Giulio Cesare è, in primis, un piacere, o almeno lo è per un classicista. Tuttavia, come sempre accade con gli scritti di Canfora, le parole del professore non possono non suscitare polemica e dibattito. C'è da riconoscere a Canfora una padronanza delle fonti fuori dal comune, sicché si apre al lettore, o all'ascoltatore di un famoso podcast Rai, uno spiraglio inatteso sulle diverse ricezioni che l'opera cesariana ha ricevuto nel corso dei secoli. Il Giulio Cesare di Canfora è innanzi tutto abile politico, solo successivamente grande generale; tuttavia, se tradizionalmente le figure di Cesare e del figlio adottivo Ottaviano vengono proposte in maniera quasi complementare (militare l'uno, politico l'altro), nell'analisi che ne fa Canfora emerge come per Cesare (o come per tutti coloro che si mossero all'epoca delle Guerre Civili romane) il fatto militare fosse di per sé fatto politico. È per Cesare fatto politico tenersi in disparte dalla contesa politica finché a Roma sarà forte il partito dei sillani, è fatto politico lanciarsi nella tenzone quando Pompeo e Crasso compiranno quella manovra spericolata che, con il 70 a. C., li porterò da eredi di Silla a propugnatori delle politiche dei populares. Cesare così avrà l'occasione di attraversare tutto il cursus honorum, di sfruttare i mal di pancia della plebe urbana, non senza rischi, come la vicinanza a Catilina o, in seguito, a figure borderline come Clodio. Il Triumvirato, in quest'ottica, sarà forse il vero capolavoro di Cesare: un accordo con cui apparentemente egli si sottometteva alle istanze di Pompeo e Crasso, ma che in realtà garantiva a Cesare l'unica cosa di cui egli avesse bisogno per giungere davvero al potere, ovvero un esercito. Per fare ciò, con la spregiudicatezza che lo contraddistinse, Cesare non lesina illegalità e, in Gallia, di arrivare a quello che oggi definiremmo il sistematico genocidio di una popolazione, quella celtica.
A questo punto emerge il Cesare esperto di propaganda: la comunicazione dell'inizio dello scontro con il Senato e con Pompeo è magistrale e condita di astuzie e falsi, come per esempio quello sull'incontro con Marco Antonio, fuggito da Roma dopo la fatidica seduta del Senato che proclamò Cesare nemico pubblico; emerge così come nei suoi commentari Cesare racconti l'incontro avvenuto a Ravenna, mentre tutte le altre fonti lo pongono a Rimini, ben oltre il Rubicone, limite ultimo delle terre in cui al futuro dittatore era in teoria concesso di portare le sue truppe.
Si continua poi con la vittoria contro Pompeo, la mediocrità dell'opposizione senatoria, l'emergere della figura di Catone, i rischi corsi in Egitto.
L'ultimo capitolo della vita di Cesare è quello dei pochi mesi trascorsi a Roma prima della morte, in attesa di una nuova spedizione verso Oriente. Scopriamo così la vicinanza tra i congiurati e Marco Antonio, l'astuzia di Cassio e l'ideologia di Bruto, figlio di Cesare e nipote di Catone.
La figura di Cesare è quindi sfaccettata, ricca, colta, astuta, all'occorrenza violenta, una figura che Canfora analizza, mettendone in luce pregi e difetti politici e, soprattutto, la capacità di avere una visione politica, ben oltre le piccole beghe e i desideri di potere della classe senatoria romana.

Luciano Canfora, Giulio Cesare - il dittatore democratico, Laterza, 1999
Alle otto della sera, Luciano Canfora, podcast su Giulio Cesare


lunedì 13 novembre 2017

Nella scuola secondaria che vorrei





[Casa di Scale, M. C. Escher](https://i.imgur.com/gQ1kuBY.jpg)


Nella scuola secondaria che vorrei:


- scopo della scuola secondaria di secondo grado non dovrebbe essere quello di creare buoni lavoratori, ma di creare buone teste e buoni cittadini, e di conseguenza buoni lavoratori e buoni innovatori;
- la scuola secondaria di secondo grado si dovrebbe prefiggere il totale inserimento degli alunni stranieri e degli alunni diversamente abili nel sistema sociale del paese, così come degli alunni in situazioni di deprivazione economica o in condizioni sociali precarie; 
- la scuola secondaria di secondo grado dovrebbe essere in grado di valorizzare l'eccellenza che è insita in ogni studente; 
- la conoscenza della Costituzione, almeno nei suoi punti fondanti, sarebbe preliminare al conseguimento del diploma di maturità; 
- l'approfondita conoscenza della lingua italiana sarebbe preliminare al conseguimento del diploma di maturità; 
- le discipline e i loro insegnamenti sarebbero organizzati in maniera modulare, e ogni alunno sarebbe chiamato a frequentare un certo numero di moduli che ha scelto fra quelli a sua disposizione ogni anno; 
- per superare l'anno l'alunno dovrebbe aver conseguito valutazioni positive in tutti i moduli frequentati, in caso contrario, non ci sarà passaggio automatico all'anno successivo fino al conseguimento delle valutazioni positive; 
- alcuni moduli delle varie discipline sarebbero obbligatori per tutti, altri, come dei corsi monografici, sarebbero frequentati su base volontaria in base ad una scelta rispetto a quanto offerto dal Piano Triennale dell'Offerta Formativa; 
- Diritto, Filosofia e Storia dell'arte dovrebbero divenire obbligatorie in tutti i licei, istituti tecnici e professionali; 
- l'alternanza scuola-lavoro, lungi dall'essere un mero mandare allo sbaraglio alunni non ancora pronti malgrado i salti mortali compiuti dai docenti, verrebbe proposta esclusivamente su base volontaria e alla fine del percorso di studi, come forma di accompagnamento al mercato del lavoro; 
- ogni studente in alternanza scuola-lavoro dovrebbe essere accompagnato e seguito da un docente, perché solo se è veramente inserita in un percorso di istruzione l'ASL ha senso nella scuola pubblica;
- lo studente in ASL, per le ore in cui dovesse mettere in pratica gli anni di studi, dovrebbe essere retribuito, proprio perché la dignità del lavoro non può essere messa in discussione; 
- il docente che dovrebbe seguire lo studente e dovrebbe creare e ricercare i momenti di formazione all'interno dell'esperienza dello stage, dovrebbe essere lautamente retribuito, proprio perché la dignità del lavoro non può essere messa in discussione; 
- ogni docente dovrebbe accompagnare la sua attività didattica con l'attività di ricerca, pedagogica e disciplinare; 
- il numero di ore di didattica dei singoli docenti dovrebbe quindi ridursi, in favore di una forma di ricerca azione pedagogica; 
- ogni docente dovrebbe essere in grado di spiegare e rendicontare la propria azione didattica, anche attraverso pubblicazioni gestite dalla scuola stessa; 
- lo stipendio dei docenti dovrebbe essere adeguato alla media europea e la crescita degli stipendi dovrebbe essere legata alla crescita dell'inflazione; 
- ogni docente, o almeno i singoli dipartimenti, avrebbero a disposizione degli uffici, in modo che le vetuste Sale insegnanti possano servire solo per dei momenti di incontro e scambio pluridisciplinare;
- ogni scuola dovrebbe essere dotata di aule studio, munite di computer, di connessione veloce, di accesso ai principali portali dedicati all'istruzione e alla formazione; 
- le scuole assomiglierebbero più a dei campus universitari e, per le famiglie che lo richiedessero, dovrebbe essere fornita la possibilità di avere un alloggio temporaneo per gli alunni provenienti da altri paesi;
- i calendari scolastici non sarebbero fissati in base ad esigenze politiche o a tradizioni religiose, ma in base ad esigenze pedagogiche;
- il digitale non dovrebbe essere il fine dell'innovazione didattica, ma strumento di tale innovazione; 
- ogni novità che si volesse apportare alla struttura organizzativa e didattica della scuola pubblica non dovrebbe poter entrare a regime senza un congruo numero di anni di sperimentazione e opportune pubblicazioni sugli esiti positivi o negativi della stessa;

Dall'oblio più lontano, Patrick Modiano

Dall'oblio più lontano, Patrick Modiano, Einaudi 2017
Dall’oblio più lontano, opera scritta da Patrick Modiano e pubblicata nel 1996, è un romanzo breve ambientato tra le città di Londra e Parigi degli anni '60 del Novecento. I protagonisti, poco più che adolescenti, vivono il loro addentrarsi nel mondo degli adulti come una sorta di allontanamento onirico da una realtà che non li rispecchia. Così è per il narratore, di cui non conosceremo mai il nome, ma di cui sappiamo che, presentatoci come un venditore di vecchi libri alle librerie parigine, finirà per divenire uno scrittore; così è per Jacqueline, la protagonista femminile, evanescente e fatale, conosciuta come amante del povero Van Bever, mediocre giocatore di casinò, donna dicevamo che induce il giovane appena conosciuto ad un amore clandestino prima, ad un furto poi, infine ad una fuga a Londra, col sogno di andare a Maiorca, luogo favoleggiato come meta irraggiungibile ed esotica. A Londra però le strade dei due protagonisti si divideranno, mentre la realtà degli anni che faranno grande la città inglese entrano a forza nella storia, con un personaggio, Peter Rachmann, scampato alla Seconda Guerra Mondiale e divenuto affarista, ospite dei due e, come si scoprirà, di tante altre fanciulle da cui amerà farsi pagare in natura. La Londra dello scandalo, dell’hashish, è la Londra in cui, anticipata dall’amica Linda, Jacqueline sparisce lasciando il protagonista alla sua maturazione, ai suoi libri.
Le strade dei due si incroceranno nuovamente quindici anni dopo, di nuovo a Parigi, quando il protagonista, tornato per poco in città, incrocia per caso lo sguardo di lei e decide di seguirlo, di ripercorrere quel viaggio nella memoria che lo riporta indietro nel tempo, come se quegli anni non fossero mai passati. Ed è alla festa di Darius, un padrone di casa tanto ospitale quanto impercettibilmente malinconico, che il protagonista e Jacqueline si ritrovano, solo per dirsi che lei sarebbe partita con il marito per Maiorca, il giorno dopo, per l’estate. Ognuno poi sarebbe tornato alla propria vita, al proprio desiderio di oblio.
Il romanzo si dipana attraverso l’evocazione: nulla sappiamo del passato di Jacqueline, pochissimo del protagonista, ancor meno dei comprimari, sia che essi abbiano un ruolo attivo, sia che siano poco più che comparse. Gli stessi paesaggi sono poco più che sensazioni, del tutto assenti o quasi le descrizioni, se non del chiuso delle camere d’albergo in cui vivono i protagonisti, come se l’unica realtà che conti davvero sia quella piccola, marginale e temporanea del continuo girovagare dei personaggi. Tra l’odore dolciastro di camere scalcinate e carta da parati ammuffita i protagonisti amano, sognano, progettano, mentre la realtà li investe con il suo tocco allucinante, il tocco dell’etere. Nulla sappiamo degli anni che accompagnano questi personaggi, dell’Europa dell’epoca, eppure possiamo sentire l’odore della contestazione giovanile che di lì a poco scoppierà fra le strade.
Dall’oblio più lontano non è un capolavoro, eppure è una lettura che, anche grazie alla sua brevità, riesce ad affascinare e a colpire con il potere delle sue emozioni impalpabili, quasi come il grigiore della Parigi piovosa in cui si svolge la gran parte della vicenda: qualcosa che, seppur apparentemente fastidioso, diventa ben presto intimamente caro.

lunedì 6 novembre 2017

Le vittorie morali di 'sta ceppa, o del grillismo siciliano



In queste ore è sempre più diffusa la manfrina della vittoria morale del M5S in Sicilia. Permettetemi di dire un paio di cose:

  • un partito che in campagna elettorale ha sdoganato l'abusivismo non ha diritto di parlare di vittoria morale
  • il M5S è stata la principale forza di opposizione all'ARS durante tutta la durata del governo Crocetta, mentre il Centrodestra sembrava devastato da odi e rancori interni, con Berlusconi fuori dai giochi e la Lega che era e, pare, rimane partito del Nord.
Per queste ragioni il M5S non ha proprio diritto di parlare di vittoria, neanche morale: se il PD di Crocetta e Renzi è lo sconfitto dichiarato e manifesto, il grillismo di Di Maio e Cancelleri solo un anno fa aveva le porte spalancate verso la vittoria in Sicilia, nondimeno è riuscito nell'ardua impresa di perdere. Perdere dopo aver calato tutti i suoi assi in regione, dopo una campagna elettorale intensiva e un battage mediatico che dura da molto prima dei competitor. Si cerca oggi di vendere il Movimento come una realtà in crescita, ma è spontaneo chiedersi, perché nello sfacelo della Sicilia, avendo occhieggiato al malaffare (e non si faccia finta di non saperlo, perché ciò che ha detto Cancelleri sull'abusivismo di necessità non era altro che questo) non è seguita una vittoria schiacciante come era pronosticabile solo sei mesi fa? Quanto ha influito l'andamento della giunta Raggi? Quanto le scelte ondivaghe in Parlamento? Quanto l'impreparazione generale mostrata dagli aderenti al Movimento?
Un giorno avremo le risposte?

mercoledì 1 novembre 2017

Dai Gracchi a Silla


Come svolgere l'analisi logica di una frase semplice


Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia



Scritto nel 2002, Kafka sulla spiaggia è uno dei romanzi più celebri dell'autore giapponese Haruki Murakami. Il romanzo si muove all'interno del genere del realismo magico. La trama ci racconta la storia dei due protagonisti, il primo, un ragazzino quindicenne che scappa di casa e  inizia a farsi chiamare da tutti Tamura Kafka, il secondo un anziano signore di nome Nakata, colpito da giovane da un fulmine e rimasto, come lui stesso dice, "stupido" dopo l'incidente, ovvero fermo all'età mentale di un bambino; gli episodi che coinvolgono i due personaggi vengono raccontati attraverso l'alternarsi dei capitoli riguardanti ora l'uno ora l'altro, in un fitto intreccio che, ad un certo punto, porta le vicende a viaggiare sullo stesso binario senza però incontrarsi, visto che, come ci si accorge ben presto, le peripezie di Nakata e le peripezie di Tamura sono sfalsate di qualche giorno.
Si diceva del realismo magico: infatti, sebbene l'ambientazione, il Giappone contemporaneo con dei flashback sino alla Seconda Guerra Mondiale, sia ricostruito con dovizia di particolari, i due protagonisti continuano a viaggiare in bilico tra realtà e un mondo altro, magico, fatto di spiriti e entità astratte.
I temi affrontati nel romanzo sono tanti, del resto, in un certo senso, Kafka sulla spiaggia è il romanzo di ciò che non è: Tamura è un quindicenne che non vuole essere un quindicenne; Nakata è un anziano che non è un anziano, un uomo che non è uomo perché privo di ricordi; la signora Saeki è una donna viva che non è più viva già da tempo, è la madre di Tamura pur non essendone la madre; Oshima è per definizione qualcosa che non è, non essendo né maschio né femmina; il maggiore Sanders è un puro concetto, ma non sapremo mai quale, Sakura è la sorella che non è una sorella; Johnnie Walker è padre pur non avendo nulla del padre; Hoshino è un uomo maturo pur non essendolo ancora del tutto.
In questo continuo passaggio da una dimensione ad un'altra, dalla realtà al mondo altro, in maniera evidente alcuni elementi fanno da continuo tramite: i gatti per il signor Nakata, la Pietra dell'entrata per Hoshino, l'avatar del Ragazzo chiamato corvo per Tamura, così come alcuni luoghi, la foresta, la villa, il lupanare. Soprattutto, alcuni oggetti segnano la presa di consapevolezza del proprio non essere quello che si è: la musica per Hoshino, i libri per Tamura e Nakata.
Infatti Kafka sulla spiaggia è anche il romanzo della ricerca continua del proprio essere, essere che si concretizza in una parola, al contempo una metafora, ovvero la memoria. Se la memoria, che manca a Nakata e che è incomprensibile per Tamura, trova la sua metafora nella biblioteca, i ricordi sono i libri, quei libri di cui Tamura si nutre senza ritegno e che sono permanentemente fuori dalla portata dell'analfabeta Nakata.
Insomma, ben presto in questo romanzo il momento simbolico prevale su quello realistico. Ciò avviene anche a discapito della solidità della trama: nulla viene detto davvero del perché un padre possa gettare una maledizione di carattere edipico sul figlio, nulla viene detto di concreto sull'incidente di Nakata, nulla su cosa sia davvero il generale Sanders, sul perché offra una notte di sesso ad Hoshino, su perché Walker sia così malvagio. Nulla infine, ed è la falla più grande nella trama del romanzo, sappiamo davvero di Sakura,che pure, nel contesto della maledizione che colpisce Tamura, ricopre un ruolo non certo secondario, essendone almeno la sorella simbolica.
Per tutti questi motivi Kafka sulla spiaggia è un romanzo che può entusiasmare così come può lasciare interdetti. Se si è disposti a non piegarsi alla consequenzialità dei fatti, a non chiedere all'autore di dirci i perché delle cose, se si è disposti a vedere sparire dalla scena con la stessa rapidità con cui sono comparsi personaggi fondamentali, per spingerci nel ricchissimo impianto immaginifico e simbolico, immergerci nei richiami storico musicali e letterari, allora questo romanzo assurge al rango di capolavoro letterario. Se al contrario non si è disposti a sorvolare su quelle che di norma sono le regole della narrazione, allora Kafka sulla spiaggia risulterà una lettura fallimentare.

sabato 30 settembre 2017

Sono un migrante economico



Sono un migrante economico

Ecco, l’ho detto, in modo che mi possiate disprezzare come meglio credete.

Perché i migranti economici non sono mica solo quelli che vengono dall’Africa.

Si va via dalla propria terra anche per percorrere viaggi molto più brevi, per fortuna.

Migrante economico era mio padre, che si trasferì a Torino e venne accolto dalle insegne “Qui non si accettano cani e terroni”.

Lo è mia moglie, che per non dover sottostare alle leggi clientelari della mia terra, è partita pur tra troppi sacrifici.

Lo è mio fratello, lo è sua moglie.

Lo è mia cognata e lo è il suo compagno.

Lo è il mio testimone di nozze, lo è la sua compagna.

Io ho lasciato la mia Sicilia: l’ho lasciata perché, giunto alla laurea, ho dovuto riconoscere che quanto sentivo dire dagli altri italiani sulla mia terra era in troppa parte vero. Che c’era un sistema mafioso e clientelare, anche all’Università, che bisognava aspettare il proprio turno e ringraziare se ti facevano lavorare gratis e in nero. Ho lasciato la Sicilia perché non ho voluto cercare raccomandazioni, e questa è forse la mia unica e vera fonte di orgoglio (certo, non solo mia).

Ma essere un migrante economico vuol dire doversi sentire dire, da una direttrice di specializzazione che di Istruzione non sapeva nulla, che non poteva essere sicura che la mia preparazione fosse pari a quella dei suoi allievi parmigiani, essendomi laureato in Sicilia, per cui il mio esame sarebbe stato più duro (peccato che ai test d’ingresso avessi brillantemente superato tutti i suoi allievi, assieme alla mia fidanzata dell’epoca, e fossi entrato alla Scuola di Specializzazione come terzo in graduatoria per la classe di concorso che dovrebbe portare all’insegnamento del Latino e del Greco antico).

Essere un migrante economico vuol dire che, giunto al tuo primo posto di lavoro al Nord Italia, il dirigente ti dice che vuole gente venuta su per lavorare davvero e non per mettersi in malattia (peccato che in quello che era annoverato tra i dieci migliori licei classici d’Italia il tasso d’assenteismo fosse molto più alto tra i nativi che tra gli insegnanti venuti dal Meridione).

Essere un migrante economico vuol dire ad un certo punto fallire: a me è capitato, quando un esaurimento nervoso mi ha portato a non accettare più supplenze da pochi giorni in quel di Torino, vivendo in un Bed and Breakfast di schifezze precotte e percorrendo la città in cerca di una lavanderia a gettoni.

A quel punto sono tornato a casa, convinto di non ripartire più, ma dopo che un anno e mezzo di call center mi ha prosciugato portafogli e anima, ho deciso di non fare più ritorno in Sicilia. Da allora mi sento di aver regolato i conti con la mia terra e no, non la rimpiango né mi sento in debito con chi mi ha tolto anche solo per breve tempo la dignità.

Essere un migrante economico vuol dire dover spendere tutto il tuo stipendio per poter stare con tuo padre morente, scontrandoti con un sistema sanitario vergognoso, dei servizi inesistenti, l’incuranza di molti (e ringraziando l’umana pietà di pochi, costretti a doversi sporcare nella richiesta di favori a destra e a manca pur di aiutarti).

Oggi sono ancora un migrante economico: da qualche parte sono stato accolto come a casa, da qualche parte come un ospite. E se sei un ospite devi stare muto e accettare che le cose vadano anche in maniere che non ti piacciono.

Peccato che io non mi sento ospite, e apolide nell’anima, sono cittadino ovunque, e ovunque rivendico il diritto alla felicità come realizzazione dell’uomo. Ovunque rivendico il mio diritto a partecipare alla vita politica e sociale, ad esprimere idee e a criticare, ad integrarmi senza dovermi sentire un peso. Perché se io ho dovuto fare i conti con i pregi e i difetti della mia terra, anche gli altri devono essere in grado di farlo.

Quando vi allargate la bocca parlando di migranti economici, pensate che uno di loro potrebbe essere il vostro vicino di casa, il ragazzo seduto accanto a voi al cinema, il postino (lui è probabile proprio), il cameriere, la commessa, l’insegnante dei vostri figli, la badante dei vostri genitori.

Quando parlate dei migranti economici, e lo fate per sentito dire o per slogan politici, ve lo dico col cuore, sciacquatevi la bocca col cloroformio.

martedì 12 settembre 2017

Strategie di comprensione nell'apprendimento dal testo scritto, Maurizio Gentile

Ho finalmente avuto modo di leggere il recente lavoro di Maurizio Gentile; la sua disamina delle diverse strategie per migliorare la comprensione del testo scritto dovrebbe essere argomento di riflessione per ogni docente, i suoi consigli dovrebbero entrare nel kit degli strumenti del mestiere di ogni buon insegnate. Una lettura sintetica, efficace, consigliata.
Nel 2014, il 17,8% di quindicenni scolarizzati dell’UNIONE EUROPEA aveva un grado di competenza di lettura sotto il livello uno della scala di valutazione OCSE-PISA. In ITALIA, tale percentuale era pari al 19,5%. Entrambe le percentuali sono al di sopra dell’obiettivo UE: ridurre la quota dei lettori più deboli al di sotto del 15% entro il 2020.

Nel 2016, in base a quanto rilevato dall’indagine OCSE- PISA, l’ITALIA si posizionava significativamente sotto la media internazionale con un punteggio pari a 485. Questo risultato collocava il paese tra il 29° e il 37° posto nella lista di tutte le nazioni partecipanti all’indagine, e tra il 23° e il 28° posto circoscrivendo il confronto ai soli 34 paesi OCSE.

È evidente che nelle scuole italiane esiste una larga percentuale di “lettori inadeguati” che non capisce ciò che legge, che vive la comprensione della lettura come un ostacolo alla riuscita scolastica, all’espressione di sé, al proprio senso di responsabilità.

Su questo tema è da poco uscito un mio lavoro, pubblicato dalla rivista Form@re. L'articolo affronta l'insegnamento delle strategie di comprensione della lettura nel quadro più ampio del processo di apprendimento da testo scritto. L’insegnamento diretto di tali strategie riguarda sia alunni di primo e secondo ciclo. 

Qui il link:
http://www.fupress.net/index.php/formare/article/view/20535

sabato 2 settembre 2017

Murakami, o della leggerezza

Come definire la leggerezza in un'opera letteraria? Calvino ci aveva provato nelle sue Lezioni americane, ma se posso dire la mia, in un romanzo la leggerezza è quella capacità che ha il buon autore di toccare temi e ragionamenti alti o complicati senza indurre un complesso di inferiorità nel lettore, con uno stile piano, medio; l'abilità di volare sulle cose sfiorandole e lasciandole dischiuse al gusto di chi si sta gustando l'opera. Un esempio di leggerezza, per me, sono queste pagine di Haruki Murakami tratte da Kafka sulla spiaggia: qui il giovane professionista e il suo apparente aiutante Oshima si confrontano, una delle tante volte, su argomenti di critica d'arte, in questo caso musicale, ma il tutto avviene nel mezzo do un viaggio verso una meta ignota, viaggio condito di dettagli che ne smorzano pesantezza e pressione, come quelli sul colore delle auto sportive.
Eseguire perfettamente le sonate per piano di Schubert è una delle imprese più difficili che esistano. Ciò vale in particolare per questa Sonata in re maggiore. È veramente di una difficoltà estrema. Ci sono alcuni pianisti che possono eseguirne quasi perfettamente un paio di movimenti. Ma se si ascoltano i quattro movimenti di seguito, per quanto ne so io, non esiste un’esecuzione del tutto soddisfacente, che riesca a mantenere sempre lo stesso livello. Molti pianisti famosi si sono misurati con questa sonata, ma tutti hanno mostrato delle pecche evidenti. L’esecuzione perfetta non è ancora stata realizzata. Perché secondo te? — Non lo so, — rispondo. — Perché è la sonata in sé che è imperfetta. Schumann, che pure apprezzava profondamente l’opera di Schubert, la definì “di una noia celestiale”. — Se come composizione è imperfetta, perché tanti pianisti famosi hanno voluto eseguirla? — Buona domanda, — dice Ōshima. Fa una breve pausa, durante la quale la musica riempie il silenzio. Quindi: — Neanch’io posso dare una risposta precisa. Ma una cosa la posso dire. Le opere che possiedono un certo tipo di imperfezione, possono attrarre proprio a causa della loro imperfezione... o quantomeno possono attrarre un certo tipo di persone. Ad esempio tu sei attratto dal Minatore, perché quel romanzo ha per te un fascino che non trovi in romanzi più perfetti come Il cuore delle cose e Sanshirō. Tu hai incontrato quel romanzo. O meglio, quel romanzo ha incontrato te. Lo stesso vale per la Sonata in re maggiore. Quest’opera ha una capacità di attrarre che altre non hanno. — Allora, — dico io, — tornando alla domanda di prima, perché lei ascolta le sonate di Schubert? E proprio quando guida? — Le sonate di Schubert, e in particolare la Sonata in re maggiore, se vengono eseguite senza uno sforzo interpretativo, limitandosi a seguire la partitura, non arrivano a essere opere d’arte. Come ha fatto notare Schumann, questa sonata è troppo idilliaca, lunga, e troppo semplice dal punto di vista tecnico. Se viene eseguita senza estro, diventa qualcosa di insipido e sciatto, un pezzo da antiquariato. Quindi ogni pianista si ingegna per trovare una propria chiave interpretativa. Ad esempio come qui — ascolta — , enfatizzando un passaggio. Introducendo un rubato. Lavorando sui tempi, sulla modulazione. Se non si fa questo, subentra la noia. Però, se non si presta una grande attenzione questi stratagemmi possono distruggere la qualità dell’opera, che non sembrerebbe più una composizione di Schubert. Tutti i pianisti che eseguono la Sonata in re maggiore lottano con questa contraddizione. Ōshima ascolta la musica, accompagnando la melodia a bocca chiusa. Poi riprende: — È per questo che ascolto spesso Schubert quando guido. Come ti ho già detto, si tratta nella maggior parte dei casi di esecuzioni imperfette da vari punti di vista. Un’imperfezione di qualità, intensa, può stimolare la coscienza e destare l’attenzione. Se uno mentre guida ascolta musiche di ineguagliabile perfezione eseguite con altrettanta perfezione, è probabile che gli venga voglia di addormentarsi e morire così. Io invece, ascoltando la Sonata in re maggiore, riesco a cogliervi i limiti dell’attività umana. E imparo che un certo tipo di perfezione è raggiungibile solo attraverso un’infinita accumulazione di imperfezioni. Io lo trovo incoraggiante. Capisci cosa voglio dire? — Più o meno. — Scusami, — dice Ōshima. — Quando faccio questi discorsi, mi lascio sempre trasportare. — Ma anche nell’imperfezione, si possono distinguere diversi tipi e diversi livelli, no? — dico io. — Naturalmente. — Finora, fra tutte le esecuzioni della Sonata in re maggiore che ha sentito, quale le è sembrata la migliore? Relativamente, si intende. — È una domanda difficile, — dice. Ci pensa un po’ su. Scala di marcia, passa sulla corsia di sorpasso, supera rapidamente un grosso camion frigorifero, poi sale di nuovo di marcia e ritorna sulla corsia lenta. — Non voglio spaventarti, ma la roadster verde è una delle macchine più difficili da distinguere in autostrada di notte. È bassa, il colore si confonde con l’oscurità. Soprattutto non si vede bene dal posto di guida sui grossi camion. Se uno non sta attento, può essere molto pericoloso. In particolare nei tunnel. Per la verità le automobili sportive dovrebbero essere tutte rosse. Questo le fa spiccare molto di più. Ed è proprio per questo che la maggior parte delle Ferrari sono rosse. Ma a me piace il verde. Anche se è più pericoloso. Il verde è il colore delle foreste. Mentre il rosso è il colore del sangue. Dà un’occhiata all’orologio. Poi di nuovo canticchia a bocca chiusa insieme alla musica. — In generale, le esecuzioni migliori credo siano quelle di Brendel e Ashkenazy. Anche se sinceramente a me non dicono molto. Cioè, non arrivano a catturarmi. Per me quella di Schubert è una musica che mette in discussione e sovverte l’ordine delle cose. Questa era l’essenza del romanticismo, e in tal senso Schubert ne è l’anima. Ascolto con attenzione la sonata. — Di’, la trovi noiosa, vero? — chiede. — Sì, — ammetto francamente. — La musica di Schubert richiede allenamento, per essere apprezzata. Anch’io quando l’ascoltavo le prime volte la trovavo noiosa. Alla tua età è naturale. Ma vedrai che un giorno l’apprezzerai. Le cose che non annoiano, stancano presto, mentre quelle apparentemente noiose non stancano mai. Credimi, è così. Nella mia vita io do tutto il tempo necessario alle cose ritenute noiose, ma non ne do nessuno a quelle effimere, che prima o poi ti stancano. La maggior parte delle persone non sa distinguere tra questi due aspetti.
Calvino, Italo. Lezioni Americane: Sei Proposte per Il Prossimo Millennio. Milano: Oscar Mondadori, 2006.

Murakami, Haruki. Kafka Sulla Spiaggia. Torino: Einaudi, 2016.

martedì 29 agosto 2017

Ghost in the shell, Robert Sanders


Ghost in the shell, film diretto da Robert Sanders, è il remake dal vivo dell'omonimo film di animazione giapponese, tratto dal manga di Masamune Shirow, edito nel 1989.
Il film si fregia di un buon cast - tra gli altri attori, spicca, non senza aver suscitato polemiche, la presenza di Scarlett Johansson - e di un discreto budget speso per la ricostruzione della futuristica Hong Kong.
La trama ripercorre più o meno fedelmente il film d'animazione fonte d'ispirazione, a parte delle scelte, evidentemente compiute per semplificare la vita al pubblico contemporaneo, come il racconto dell'incidente che coinvolge Batou.
Tutto il film si concentra sulla questione della distinzione tra artificiale e umano: in un mondo in cui gli innesti artificiali nei corpi umani sono all'ordine del giorno, si può considerare umana una donna il cui corpo sia per intero una macchina e di cui rimanga solo il cervello? Una simile donna, in balia della sua azienda produttrice, che diritti e doveri ha?
Se il plot del film rimane fedele all'originale, ciò che manca è la primigenea potenza evocativa: Scarlett Johansson è fuori luogo e, soprattutto, l'impatto filosofico della storia si perde nella ricerca dell'effetto speciale. Si guardi per esempio alla potenza evocativa dei paesaggi, che, come sostiene Nerdwriter, nell'originale creano lo straniante e caratteristico effetto eterotopico, purtroppo assente in questo remake.



Un'ultima nota, ancora sull'aspetto visivo del film. Milioni di dollari spesi in computer grafica, in questo caso, non valgono uno yen speso in buoni disegnatori con conoscenze artistiche e filosofiche che, come in Akira, sono capaci di rendere l'atmosfera cyberpunk molto meglio, e questo è un paradosso, di qualsiasi computer.

giovedì 24 agosto 2017

Ciò che non fecero i barbari a Roma...

Foto: Corrieredellosport
È sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere lo scempio che sta accadendo in questi giorni a Roma. Per chi non sapesse val bene fare un breve riassunto: negli scorsi giorni Comune  e Questura hanno fatto sgomberare un palazzo occupato abusivamente da richiedenti asilo e profughi legalmente presenti in Italia e spesso integrati nel tessuto sociale della città. A questi profughi e richiedenti asilo, non clandestini ma persone legalmente presenti in Italia, occorre ancora ricordarlo, nel corso degli anni non era mai stata offerta una sistemazione decente e se di questo non può essere fatta colpa esclusiva all'ultima giunta, quella della Raggi, anche questa però deve addossarsi la responsabilità di non aver fatto nulla nel periodo del proprio governo a parte sgomberi forzati e inconcludenti. I profughi e i richiedenti asilo, in attesa della proposta di sistemazione proveniente dal Comune o da privati, sono rimasti accampati a Piazza Indipendenza, senza servizi sanitari e senza sapere fino a quando uomini, donne e bambini sarebbero rimasti in quella condizione, almeno fino ad oggi. Questa mattina infatti la barbarie si è perpetrata, quando alle prime luci della giornata la polizia, sostenendo di essere stata attaccata con il lancio di più bombole di gas, anche se le immagini ne mostrano soltanto una, proveniente dal palazzo, in particolare dal primo piano, dove era stato concesso di rimanere ad alcune famiglie le cui condizioni sanitarie del tutto particolari impedivano lo sgombro, la polizia dicevamo ha sgomberato la piazza svegliando spesso i migranti con getti di idranti, che hanno tra l'altro colpito e rovinato in alcuni casi i beni delle persone accampate in piazza, in modo da liberare il luogo. Per fare tutto ciò non si ha avuto riguardo per i bambini o per le donne, comprese quelle incinte.
Che quanto è accaduto sia uno dei peggiori esempi della barbarie che sta colpendo il nostro paese ne è riprova non l'opinione di un buonista radical-chic come potrei essere io, ma quanto denunciato dai rappresentanti ONU a Roma, che per primi hanno condannato quanto accaduto e dichiarato pubblicamente come le proposte di sistemazione venute dal comune siano impraticabili per i rifugiati, perché comporterebbero la scissione dei nuclei familiari o il trasloco a centinaia di chilometri di distanza di lavoratori integrati nel tessuto sociale e di bambini già iscritti nelle scuole romane. Già negli scorsi giorni Medici Senza Frontiere avevo denunciato come non ci fosse alcuna cura delle condizioni sanitarie degli sgomberati e ancora oggi la ONG si è trovata da sola sul campo a curare i contusi e i feriti nello sgombero.
Oltre i fatti, che già mostrano uno scadimento morale e culturale del paese, ancor di più preoccupa come gli eventi qui riportati lascino del tutto indifferente l'opinione pubblica, concentrata sulla paura di un pericolo terrorismo alimentata da forze politiche irresponsabili, ma che sono esse stesse specchio di un sentimento purtroppo comune nel paese, un paese incapace di assumersi le proprie responsabilità riguardo agli accadimenti internazionali e alla crisi economica locale, intento solamente a trovare un capro espiatorio nel più debole di turno.

mercoledì 2 agosto 2017

Questa è l'acqua, o del perdere la propria umanità tra razzismo e ridicolo












In questi giorni  Vice ha pubblicato uno studio sui legami tra gruppi Facebook e movimenti xenofobi e razzisti di estrema destra . Secondo il giornale online il legame sarebbe facilitato dal fatto che i social network aggregano molto facilmente e senza particolari forme di moderazione gruppi di cittadini, spesso caratterizzati proprio dallo spiccato spirito identitario e localistico, humus ideale per la propaganda di estrema destra di movimenti che, altrimenti, probabilmente potrebbero contare su una minore risonanza e un minor consenso. Dall'analisi del sito risulta anche chiaro come questi gruppi siano facilmente luoghi di diffusione di notizie false e di disinformazione, quasi sempre di carattere parascientifico o xenofobo. Bisogna d'altro canto dire che, soprattutto per quanto riguarda la propaganda parascientifica, essa non riguardi solo i gruppi identitari di destra ma sia tristemente distribuita anche attraverso gruppi caratterizzati più spiccatamente per ceto sociale o interesse politico anche di sinistra o estrema sinistra (si pensi alle prime istanze sulle presunte scie chimiche o antivacciniste).
Per quanto riguarda gli esempi di propaganda parascientifica, un esempio è stato pubblicato su questo blog.  Invece, per quanto riguarda la propaganda xenofoba, due casi recentissimi sono saliti alla ribalta, uno proveniente dalla Norvegia, l'altro dalla italianissima Palermo.
Viene oggi ripresa un po' su tutti i giornali  la notizia del gruppo nazionalista che lamentava l'invasione di donne in burqa sugli autobus , malgrado la foto in realtà riprendesse dei normalissimi sedili sgombri di passeggeri e che, solamente per un effetto ottico, quelle sedie potessero assomigliare a delle donne vestite col tipico abito di una parte dell'Islam. Invece è già di qualche giorno fa la notizia di come sul proprio profilo Facebook il principale esponente della lista Noi con Salvini di Palermo  abbia lamentato la sorprendente presenza di un clandestino disteso a riposare per le vie della città senza che nessuno facesse niente , peccato si trattasse di un ragazzo in preda ad una crisi epilettica, come giustamente segnalato da Caterina Altamore. Per la cronaca, l'espoente politico non ha poi avuto il minimo riguardo nello smentire il falso pubblicato, lasciando che i commenti razzisti proliferassero anche dopo l'essere stato sbugiardato.
In entrambi i casi due cose sono immediatamente evidenti: come prima che qualcuno si ponesse il problema dell'assurdità della condizione lamentata siano passate ore se non giorni, e di conseguenza come siano fioccati i commenti apertamente razzisti, e come di per sé le situazioni lamentate siano ridicole. Come può accadere tutto ciò? Come può succedere che centinaia se non migliaia di persone non si accorgano di falsi così evidenti, non si pongano domande un minimo critiche su quanto stanno leggendo? Sicuramente, a differenza di quanto avveniva tempo fa sui forum, le pagine Facebook sono prive o quasi di moderazione, permettendo la pubblicazione di qualsiasi castroneria. Inoltre, spesso nel frequentare gruppi o pagine preferite la soglia di attenzione e di criticità dell'utente si abbassa a tal punto da rasentare la creduloneria.
C'è poi una questione più profonda, che riguarda il nostro stesso modo di essere esseri umani. Riprendendo il mio amato David Foster Wallace nel suo discorso intitolato Questa è l'acqua, il nostro di modo di vivere la realtà prevede una configurazione di base, priva o quasi di sforzo, che ci permette di sopravvivere fermandoci tuttavia alle apparenze o alle credenze che sono ben radicate in noi. Andare oltre di esse richiede in primis sforzo, e sforzarsi in ogni situazione è faticoso, nessuno di noi lo vorrebbe fare. Questo ci spiega perché di fronte ad una situazione di relax come la navigazione sul web è così facile per noi fermarci a quelle informazioni, vere o false che siano, che confermano quanto già crediamo, senza che esse vengano minimamente messe in discussione. Ovviamente tutto ciò vale anche al di fuori della rete, sia chiaro. E qual è la soluzione per Wallace? Questa è l'acqua:

Se siete automaticamente sicuri di sapere cos’è la realtà, e state operando sulla base della vostra configurazione di base, allora voi, come me, probabilmente non avrete voglia di considerare possibilità che non siano fastidiose e deprimenti. Ma se imparate realmente a concentrarvi, allora saprete che ci sono altre opzioni possibili. Avrete il potere di vivere una lenta, calda, affollata esperienza da inferno del consumatore, e renderla non soltanto significativa, ma anche sacra, ispirata dalle stesse forze che formano le stelle: amore, amicizia, la mistica unità di tutte le cose fuse insieme. Non che la roba mistica sia necessariamente vera. La sola cosa che è Vera con la V maiuscola è che sta a voi decidere di vederlo o meno. [Traduzione di Roberto Natalini] 
Wallace, David Foster., and Luca Briasco. Questa È L'acqua. Torino: Einaudi, 2009. Print.

martedì 25 luglio 2017

Libero, Flavio Cattaneo e la cattiva informazione


Mentre i dipendenti muoiono di fame Quaranta milioni in 16 mesi da Tim
Flavio Cattaneo, amministratore delegato dell’azienda telefonica, incassa una cifra mostruosa e ingiustificabile non per lavorare bensì per andarsene. Ecco perché l’Italia fa schifo
Libero
23 Jul 2017
Di RENATO FARINA

L’architetto Flavio Cattaneo è un lombardo di 54 anni che, con quella mascella larga e magra, ha l’aria del frequentatore di bar sport e di intendersi di carambole, Campari soda, soldi e donne. Della sua attitudine a cavarsela splendidamente con il ramo femminile testimonia il legame durevole con Sabina Ferilli. Quanto a manager, parla il curriculum (...)


Al solito, come non si dà una notizia: la buonauscita era presente già nel contratto firmato dal signor Cattaneo, chi si indigna ora, cosa faceva all'epoca? Seconda cosa: il contratto del signor Cattaneo prevedeva un 10% di fisso e un 90% di provvigioni all'ottenimento dei risultati aziendali stabiliti dal CDA nominato dagli azionisti. Risultati che, a quanto pare, il signor Cattaneo avrebbe ottenuto dimostrandosi uno dei più validi manager italiani. Chi si indigna oggi, saprebbe fare altrettanto? Detto da un comunista duro e puro.

Ma, al di là della bontà delle informazioni, che diamine di articolo è una roba che parte dal gossip e da un'analisi dell'aspetto fisico del manager per avvalorare la bontà della propria tesi? Qui siamo nella più pura disinformazione

venerdì 21 luglio 2017

La morte di Chester Bennington o della fine dell'adolescenza

Foto: Wikipedia
Quando usciva In the end era il 2001 e io non avevo ancora compiuto vent'anni.



Frequentavo l'università, iniziavo a superare la mia cronica apatia del vivere adolescenziale, l'indole asociale che dall'infanzia mi aveva rinchiuso in una prigione autocostruita che mi aveva impedito tante amicizie e tante possibilità. In the end è stato il mio primo incontro con la voce di Chester Bennington, in un certo senso una rivelazione.



Dopo anni ad ascoltare in loop quasi esclusivamente i Queen, Metallica, Iron Maiden, Megadeath, Dream Theater e Blind Guardian (ad eccezione dei Queen, gruppi ascoltati al traino di mio fratello) dopo anni di venerazione per le voci di Freddie Mercury e di James LaBrie, la voce di Bennington e le melodie rap/metal dei Linkin Park mi aprirono un mondo. Era il mondo che da adolescente avrei voluto saper esprimere ma per cui mi mancavano le parole, le corde vocali, i ritmi.



Diciamocelo chiaramente: i primi album del gruppo, da Hybrid Theory a Meteora, avevano un target che non andava oltre i venti/ventidue anni, anzi miravano chiaramente agli adolescenti, disagiati o presunti tali. Un canto di protesta che nulla aveva di politico, era rabbia in quanto tale, la frustrazione della incomunicabilità, del crescere e non sentirsi capiti. Che i Linkin Park cantassero queste sensazioni per mero calcolo economico o che ne fossero onesti cantori, poco importa; lo facevano, e tanto ci bastava,



Appartengo alla generazione MTV, quelli venuti su con i video del canale musicale, con le serate Anime, le sitcom in prima serata, Scrubs su tutti. Quelli come me hanno vissuto in pieno l'esplosione del fenomeno Linkin Park, con i loro video in computer grafica, quel mescolarsi di rap e neometal e, soprattutto, la voce di Bennington. Una voce da dilettante. Lo so, sto dicendo una blasfemia, ma a me ha sempre fatto questa impressione, l'impressione di un cantante da band liceale che si sia trovato in un mondo più grande del suo, senza aver mai studiato più di tanto le basi del mestiere, senza una grandissima estensione vocale, senza, insomma. Eppure la voce di Bennington funzionava perché era una voce malinconica, come suona in tante delle ballate del gruppo, una voce prestata al metal ma che del metal aveva poco. Una voce, tra l'altro, che non aveva paura di improvvisare e di steccare in concerto, pur di rimanere se stessa.



I Linkin Park sono stati la voce che mi ha fatto fare i conti con la mia adolescenza, chiudendola. Mi hanno accompagnato negli anni dell'università, mentre il mio essere cambiava radicalmente, fino al primo lavoro, alle prime vere soddisfazioni e ai primi grandi fallimenti.



I Linkin Park, come Bennington, non sono mai stati dei rivoluzionari nel loro settore, né particolarmente raffinati (eppure devo a loro l'essere poi arrivato ai Genesis, ai Toto, ai Kansas, a Dylan e agli Smiths) ma hanno avuto il coraggio di crescere, con album più maturi e per questo meno apprezzati dal pubblico. Nel frattempo la voce di Bennington si continuava a ritirare in se stessa, sempre meno rabbiosa, sempre più triste.



Chi lo conosce dice che il suo suicidio, se confermato, non era del tutto inatteso: tanti segnali, la tossicodipendenza. Non lo so, non seguivo più il gruppo da un po'. Ma la voce di Bennington rimane per me inconfondibile, uno degli ultimi grandi del rock, quasi per caso, nonché la fine della mia età più buia.

venerdì 14 luglio 2017

La scopa del sistema, David Foster Wallace



La scopa del sistema è il primo romanzo di David Foster Wallace. In questo romanzo l'autore pone le basi per quelli che sono i suoi temi caratteristici: l'ironia pungente, il racconto corale, il rapporto controverso con il sesso, l'ossessione per le scene surreali.
La trama ripercorre le vicende delle due Lenore Beatsman, bisnonna e pronipote, intente in un reciproco ricercarsi, simbolico da un lato, reale dall'altro. Accanto il comprimario, coprotagonista, antagonista Rick Vigorous, compagno e datore di lavoro della Lenore pronipote, assieme a tutti gli altri personaggi che ruotano intorno alla vicenda (dal finto psicologo al padre proprietario di azienda, all'adolescente conturbante divenuta moglie tradita, fino al pantagruelico Norman Bombardini e al pappagallo capace di formulare frasi sconce trasmesse in televisione in un programma di un santone cristiano), costituisce un intreccio di storie che si accavallano nel comune paesaggio della provincia americana, Cleveland in Ohio. Ognuno dei personaggi assume quindi un ruolo che è al tempo stesso di narratore, protagonista, antagonista, permettendo all'autore David Foster Wallace continui inserti metanarrativi e metalinguistici, nonché di sviluppare sotto forma di narrazione un ardito ragionamento filosofico fondato sui paradossi della scuola di Wittgenstein.
Chi è Lenore Beatsman? La scopa del sistema del titolo, proprio come la scopa dell'esempio filosofico riportato dalla bisnonna per spiegare come nella nostra logica linguistica gli oggetti e le parole assumano una funzione solo in base alle relazioni che costruiamo loro intorno. Ecco che quindi Lenore è tutto e niente, il barbiere che non può radere se stesso, imprigionata nelle funzioni che gli altri stabiliscono per lei, fino al picaresco finale, lasciato volutamente aperto dall'autore. Proprio nel finale dell'opera tanti critici hanno osservato quasi la premonizione della fine il David Foster Wallace, sottovalutando però la presenza di un personaggio, il fratello di Lenore, Lavache, filosofo anch'egli, che smonta punto per punto le teorie della bisnonna assumendo una visione critica e autoironica rispetto alle stesse idee di Wallace. In ogni caso l'autore caratterizza tutto il romanzo proprio per il continuo uso dell'ironia e dell'autoironia, per le scene surreali e per l'abilità con cui di volta in volta i personaggi, su tutti Rick Vigorous, inseriscono racconti su racconti. Il tutto non potrebbe funzionare senza l'abilità mimetica di Wallace, capace allo stesso tempo di costruire un sistema linguistico ricorrente riconoscibilissimo e di modificare il proprio linguaggio, il proprio stile, a seconda dei diversi personaggi, fino ad arrivare ai meravigliosi soliloqui dello stesso Vigorous.
Senza dubbio l'opera prima di Wallace si pone ben al di sopra del livello della comune narrativa, assurgendo al gradino della grande letteratura. La morte dell'autore ha purtroppo fatto cadere in secondo piano i valori innanzitutto letterari di questo romanzo, che si pone a diretto confronto con opere fondamentali del '900 caratterizzate dalla stessa vena filosofica, in primis la Recherche di Proust. È proprio del confronto stilistico che si nota questa ricerca del colloquio con il passato letterario, ma se la sintassi di Proust è una sintassi complessa e tuttavia ordinata, la sintassi di Wallace si dirama in mille direzioni, diventa labirintica, quasi compromessa, ed è solo l'enorme talento dell'autore che riesce a mantenere il filo conduttore di periodi che possono durare pagine intere mettendo in risalto come, proprio nel letterato per eccellenza del romanzo, ovvero Vigorous, l'idea che attraverso una profonda introspezione si possa giungere alla conoscenza della verità si sia ormai perduta nella patologia studiata dalla psicoanalisi.
In ultima analisi se c'è un autore che a partire dai tardi anni '80 ha potuto definire la letteratura della fine del Novecento e del postmodernismo, questi è David Foster Wallace, e il suo primo romanzo, La scopa del sistema, è una lettura obbligata per chiunque voglia comprendere le contraddizioni degli ultimi 30 anni della cultura occidentale.

Wallace, David Foster., and Sergio Claudio. Perroni. La Scopa Del Sistema. Torino: Einaudi, 2015. Print.


martedì 11 luglio 2017

Sul reato di apologia di fascismo o della damnatio memoriae



La questione dell'estensione del reato di apologia di fascismo è complessa. Trasformiamo il  ragionamento comunemente espresso in questi giorni dai detrattori del provvedimento del governo in un sillogismo: 
abbiamo avuto un passato fascista; abbiamo fatto i conti con il nostro passato; non dobbiamo temere il nostro passato.
Il sillogismo però è fallace perché una delle due premesse è falsa: noi NON abbiamo fatto i conti con il nostro passato. Nessun gerarca fascista è stato condannato per crimini di guerra o contro l'umanità; in pochi sanno di avere avuto magari dietro l'angolo dei campi di concentramento e in pochissimi sanno che la percentuale di morti nei campi in Slovenia era pari o superiore ai campi di sterminio tedeschi; la maggiorparte degli italiani non sa che la gran parte dei fascisti sono stati amnistiati e non conosce la gravità dei reati commessi in Italia, Grecia, Albania, Etiopia e Libia; relativamente in pochi conoscono le falsità della propaganda fascista è la reale condizione economica e sociale del paese durante il ventennio, e peggio, notizie falsificate o manipolate girano indisturbate in rete.
Per tutto questo, la damnatio memoriae, che normalmente sarebbe da condannare, di fronte alla acclarata incapacità dello Stato e della società Italiani di fare i conti con quello che è stato il ventennio (e di conseguenza con quella guerra civile che chiamiamo resistenza),  questa damnatio memoriae sembra l'unica soluzione, per quanto si tratti di una sconfitta per tutti.

Linguaggio e senso, la costruzione della proposizione significativa in Gilles Deleuze

Nella sua Logica del senso, Gilles Deleuze dà un suo contributo significativo ad uno dei problemi che in qualche maniera affligge da De Saussure in poi la linguistica, ovvero come si sviluppi il rapporto tra significanti e significati e come una proposizione possa risultare significativa. Per capire i termini della questione, in particolare cosa si intenda con i termini significante e significato, si farà riferimento ad un precedente post intitolato De Saussure, Wittgenstein: dalla linguistica alla logica linguistica.
Per Deleuze, sia nel caso della scelta della singola parola, sia nel caso della costruzione delle proposizioni, pensare che il tutto avvenga per un semplice meccanismo di denotazione non è sufficiente: non è sufficiente cioè pensare che la costruzione di un testo possa avvenire dando un nome (significante) ad ogni concetto o oggetto (significato) - si pensi per esempio all'idea biblica dei primi uomini che iniziano semplicemente a nominare il creato -, perché questo meccanismo non produrrebbe per forza di cose un testo significativo. Per Deleuze infatti la costruzione di un testo significativo richiede la presenza di altri elementi che si associano al meccanismo di denotazione, ovvero manifestazione e significazione.
Con il termine manifestazione Deleuze intende la chiara espressione della volontà di adoperare un significante per riferire un significato: se per esempio io mi addormentassi sulla tastiera, plausibilmente potrei battere involontariamente a schermo delle lettere, come queste
qweoijalnfsidrieà
che, apparentemente, potrebbero costituire un significante, ma che in realtà non trasmetterebbero nessun significato perché mancherebbe, da parte mia, la volontà e la capacità di trasmettere alcunché. In questo verrebbe a mancare la manifestazione, ovvero l'atto volontario del trasmettere un significato attraverso un significante, e quindi verrebbe meno la possibilità di costruire un testo significativo.
Inoltre, secondo Deleuze, perché un testo sia significativo, esso dovrà far riferimento ad una struttura logica e sintattica in qualche maniera condivisa: la significazione. In altre parole, non basterà nominare volontariamente (manifestazione) ogni singolo oggetto o concetto (denotazione) per costruire un testo significativo - non basta irrompere in una stanza dicendo ai presenti "tavolo" - ma occorre che questi significanti che si riferiscono a dei significati siano inseriti in un contesto sintattico e logico (significazione), esplicito o implicito, per ottenere un testo significativo - il tavolo traballa -.
Possiamo quindi immaginare denotazione, manifestazione e significazione come i vertici di un triangolo e che la costruzione di un testo significativo sia la costruzione di una figura geometrica che dovrà per forza di cose collimare con tutti e tre i vertici del triangolo in maniera ripetitiva: per questo l'immagine più appropriata è quella di un triangolo iscritto in un cerchio, dato che non esiste, nella costruzione di una proposizione, denotazione senza manifestazione e viceversa, ma anche denotazione senza significazione e viceversa, ma anche significazione senza manifestazione e viceversa.
Per Deleuze però tutto ciò non spiega un fatto: perché ciascuno di noi avverte immediatamente che un testo come questo
nnpausicnet anojcasn nppojasjnenneèpasèckapojitnete
è privo degli elementi appena descritti, mentre di fronte ad un testo come questo
aister ostirinch spassol, deg auchmatur kikibuz
potremmo essere tentati di vedere i resti di qualche lingua fino ad ora sconosciuta?
Ciò avviene perché ad  agire in questo caso è il senso, individuale, impotente di per sé perché improduttivo, eppure fondamentale, che nel secondo caso ci fa avere l'impressione che esista una scansione in singole parole articolate sintatticamente e che esprimono la chiara volontà di un mittente di trasmettere un messaggio, anche se in realtà non è così.
Secondo Deleuze quindi, prima ancora delle categorie di denotazione, manifestazione a significazione, nella produzione e nella ricezione di proposizioni significative agisce il senso.

Nello specifico il senso agisce negli ambiti della denotazione e nell'ambito della significazione.
Nell'ambito della denotazione il senso individuale ci spinge alla costruzione di serie di significanti e di significati non omogenee, cosa evidente se guardiamo alle serie di sinonimi più o meno equivalenti e riferibili ad oggetti o concetti identici o affini, o al contrario se guardiamo a concetti o oggetti non nominabili.
Quando, per esempio, gli eschimesi scelgono di adoperare una certa parola piuttosto che un'altra per riferirsi ad un referente, la neve, che in altre lingue viene espresso con un solo significante, ad agire è il senso, figlio dell'esperienza, che porta a vedere diverse sfumature in quel referente che, magari, altri parlanti o altri popoli non sono in grado di osservare o di esprimere.
D'altro canto, in maniera simile, il senso agisce nell'ambito della signifazione, nel momento in cui decidiamo di adoperare una certa struttura sintattica piuttosto che un'altra e di conseguenza, decidiamo di esprimere certe relazioni piuttosto che altre. È proprio il senso quindi la base della costruzione di testi in cui prevale l'io dell'emittente (si pensi alla funzione poetica di Jakobson) nella scelta delle singole parole e delle costruzioni sintattiche. È sempre il senso, secondo Deleuze, a permetterci di costruire e veicolare proposizioni significative anche nel momento in cui adoperiamo significanti non legati ad un reale referente, creando un cosiddetto nonsenso, come spesso avviene in letteratura.
In ultima analisi per Deleuze la produzione di proposizioni significative è un complesso sistema alla cui base sta il senso che agisce prima e attraverso manifestazione, denotazione e significazione. Risulta poi evidente come la denotazione sia sempre un processo per sottrazione, ovvero lo specificare che, rispetto ad un insieme più ampio, il significato che stiamo trasmettendo in quel momento con la scelta di un significante è un significato ristretto. In questo processo per sottrazione ciascun emittente crea delle serie più o meno articolate che potremmo chiamare campi semantici (si pensi alla serie di parentele che costituiscono il campo semantico della famiglia). Più serie andranno, per l'autore, a costituire delle strutture, dei reticolati di relazioni che, tanto più complessi saranno, tanto più arricchiranno di senso le nostre proposizioni e di conseguenza le renderanno significative.

Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, 1984 ISBN 88-07-10028-2 ISBN 88-07-81866-3 ISBN 978-88-07-81866-0

lunedì 3 luglio 2017

Essere radical chic ed esserne fieri



È la condanna di chiunque voti sinistra: prima o poi arriverà il fenomeno di turno e, se non siete un operaio metalmeccanico, vi dirà che siete dei radical chic (o, quasi come fossero sinonimi, un hipster). Prima o poi ci si passa, dà un certo fastidio, almeno fino a che non ci si rende conto che il nostro interlocutore, spessp, non sa di cosa parla.

Cosa sia radical chic è lungo da raccontare (ed è una bella storia sullo slittamento semantico, su come l'italiano medio non capisca una ceppa di inglese e su come i giornalisti di destra, a partire da Indro Montanelli, conoscano e capiscano veramente poco della storia della sinistra), per cui rimanderò all'ottima spiegazione di Luca Sofri su Il Post, intitolata Cosa sono i radical chic?

Perché tirare fuori questa questione lessicale? Perché dietro la scelta di definire chi fa politica o vota politiche di sinistra con questa definizione (e dietro lo slittamento semantico a cui accennavo) si nasconde una buona dose di malafede e di ignoranza. Si guardi ai casi di Pierluigi Bersani, Giuliano Pisapia, Tomaso Montanari e Gianni Cuperlo: in misura diversa tutte queste figure politiche che caratterizzano la sinistra italiana dal PD in poi vengono accusate a punto di essere dei radical chic, ovvero di essere persone dal reddito più o meno elevato che predicano idee di sinistra senza applicarle davvero, magari solo per moda o, peggio, per tornaconto personale. Con buona pace per il fatto che, in inglese, non sono le persone ad essere radical chic, bensì le idee.

Perché questo modo di appellare gli uomini di sinistra è particolarmente scorretto? Perché è delegittimante e fondato su preconcetti. Parliamo per esempio di Giuliano Pisapia e di Pierluigi Bersani, mettendo in ordine le accuse tipicamente mosse dalla destra ai radical chic. Hanno questi due personaggi in qualche modo predicato le loro idee senza mai metterle in atto, quindi per moda o per tornaconto personale? Pierluigi Bersani è nato da famiglia di artigiani, è stato da giovane (finché il tempo a disposizione e la condizione fisica l'hanno concesso) volontario, tanto da essere uno dei soccorritori durante l'alluvione di Firenze, si è laureato con lode in filosofia (e forse è questa la sua principale colpa, ci torneremo); da uomo politico, come governatore dell'Emilia Romagna, ha tentato di mettere in campo politiche di sinistra fondate sulla crescita del welfare e su una moderata ridistribuzione del reddito. Giuliano Pisapia nasce da famiglia benestante, tanto da rilevare lo studio legale del padre; anch'egli fa volontariato da giovane, mentre coltiva la militanza politica, frequenta il liceo classico Berchet di Milano per poi laurearsi due volte, in giurisprudenza e in scienze politiche; la sua carriera poi si dirama tra la pubblicistica, il giornalismo e la carriera come avvocato penalista, per cui si occupa anche di casi clamorosi, come quello di Carlo Giuliani o di Ocalan; da politico raggiunge l'apice della sua fama come sindaco di Milano, caratterizzata, durante il suo governo, dall'apertura sulle tematiche di ordine civile e dalla spinta all'integrazione dei migranti di diverse etnie residenti in città. Cosa accomuna queste figure? Cosa li accomuna, per esempio, a Gianni Cuperlo o a Tomaso Montanari o al defunto Stefano Rodotà? Tutti questi uomini di sinistra, accusati di essere radical chic, in realtà sono tali agli occhi della destra, non perché ricchi, ma perché intellettuali. 
Basterebbe un'analisi un minimo oggettiva per accorgersi di come Pisapia, Bersani, Cuperlo, Montanari, Rodotà etc., nell'occasione di farlo, si sono spesi per il bene comune ed in particolare per quello dei ceti meno abbienti, facendo anzi di propria mano quanto gente come Feltri, Belpietro, Sallusti, Santanché, Grillo, Salvini e compagnia cantante, i paladini della destra popolare, non solo non hanno mai fatto ma non hanno neanche mai concepito di fare. E questo a prescindere dai redditi dichiarati e dai beni ereditati dalle famiglie.

E allora perché la definizione radical chic appiccicata a questi politici (e a chi li vota) riscuote tanto successo? Perché si accompagna ad un convinto moto anti intellettualistico che caratterizza la società italiana da almeno gli anni '80. È dai tempi del Drive In, dell'esplosione della TV privata e della mortificazione della cultura alta che questo processo è in atto, e colpa della sinistra al governo è stato non accorgersene o non fare abbastanza al riguardo, fino a creare nell'opinione pubblica la diffusa sensazione, non solo dell'inutilità, ma dell'ipocrisia o della pericolosità dell'intellettuale. Intellettuale pensato come un ricco e tronfio essere fuori dal mondo, perso nell'idealismo crociano o in un marxismo polveroso (avete presente Fusaro? Avete presente perché fa tanto comodo alla destra culturale la sua sovraesposizione ?), distaccato dalla realtà, anzi intento a sfruttare la sua posizione per il proprio interesse e contro la maggioranza silenziosa e sofferente. L'intellettuale insomma come il manzoniano Azzeccagarbugli. Non per niente ad essere accusati di essere radical chic sono soprattutto giuristi, docenti, artisti (di qualsiasi ordine e grado), su cui si sommano diversi strati di pregiudizi (ingarbugliate le leggi contro il popolo con il vostro latinorum, avete tre mesi di ferie, la giustizia al soldo dei più ricchi, lavorate solo diciotto ore, non fate realmente ricerca, non volete essere valutati, non volete la separazione delle carriere, parlate tanto ma non pagate le tasse...), ovvero categorie sociali che, a torto o a ragione, vengono considerate avverse alla destra. Ulteriore paradosso è come questa definizione trovi successo e piede anche fra i docenti, in questo caso divisi tra docenti universitari e ricercatori, docenti in ruolo o precari, sempre al di là dei reali redditi o delle reali tendenze e scelte politiche. A questi stereotipi si accompagna poi l'idea che per essere di sinistra occorra per forza provenire da ceti sociali meno abbienti, anche se storicamente dal socialismo utopico in poi questa affermazione non è mai stata vera e da sempre le classi dirigenti della migliore sinistra sono state l'integrazione fra forze dei ceti popolari e dei ceti alti riformisti. La definizione radical chic fa quindi comodo a chi, da destra (e qui si considera destra, come si sa, anche il grillismo), vuole escludere dalla scena politica la figura dell'intellettuale.

Per tutte queste ragioni, quando sentirete (o vi sentirete dire) durante un dibattito che siete o votate dei radical chic, tenete ben presente che, ad andar bene, chi vi sta appellando non sa che dice, ad andar male sta cercando di farvi fuori politicamente perché non vi capisce o vi teme. In ogni caso, prendetela come un'investitura.

domenica 2 luglio 2017

Come non si fa informazione sui vaccini, ovvero delle fake news


Per lo meno nell'ultimo anno, l'opinione pubblica italiana si è divisa sull'ennesima questione tecnica (e che forse ai tecnici sarebbe meglio lasciare), ovvero l'obbligo vaccinale; in particolare il dibattito si è inasprito dopo che alcuni casi di autismo sono stati attribuiti (a torto, si è poi scoperto), alle vaccinazioni, e al conseguente crollo del numero dei vaccinati, con le immaginabili conseguente (si guardino per esempio i dati sull'epidemia di morbillo che sta attualmente colpendo il paese), fino ad arrivare al decreto Lorenzin e all'obbligo di somministrazione di 12 vaccini per poter frequentare gli asili nido.
Qualsiasi cosa si pensi sulla questione, che si sia dalla parte di chi pretende il rispetto delle libertà personali, compresa la scelta autonoma sulla necessità o meno di vaccinare i propri figli, sia che si sia dalla parte di esperti come il prof. Burioni, una cosa comunque rimane certa, ovvero la necessità di fare buona informazione sull'argomento, adoperando fonti certe, assumendosi la responsabilità delle proprie affermazioni e adoperando dati scientifici inappuntabili.
Quello che viene proposto ora, è il caso opposto, ovvero un esempio di pessima informazione antivaccinista.
Fonte di tale scempio è il sito infovax.it che, malgrado il nome, risulta chiaramente un sito di propaganda unilaterale antivaccinista: basta leggere il disclaimer pubblicato sulla pagina "chi siamo"
L’INFORMAZIONE È POTERE. Lo scopo del gruppo nasce proprio da questo principio.
Nasce dalla voglia di combattere UNITI questa battaglia contro l’iniquo DL della Lorenzin.
È un gruppo che ha come obiettivo quello di dare il maggior numero di informazioni possibili, con l’intento di aiutare i genitori a saper affrontare questa situazione nel modo migliore.
Siamo per la libertà di parola e la discussione pacifica. Noi vi aiuteremo semplicemente ad essere informati su cosa sta accadendo o è accaduto. Vi daremo gli strumenti per poter difendere le vostre posizioni.
OGNI INIZIATIVA È BEN ACCETTA. Nessuno prevarica gli altri, a noi non interessano discussioni sterili nè divisioni di alcun genere.

Non perdiamo mai di vista l’Obiettivo:
IL BENESSERE DEI NOSTRI AMATISSIMI FIGLI E NIPOTI.
Grazie a tutti
Insomma, quella sostenuta dal sito è una posizione ideologia ben definita. Nulla di male, se lo si facesse sempre correttamente.
Mi riferisco in particolare all'articolo, scritto da tale Antonio (chi? Cognome? Esperto in cosa?) pubblicato il 30 - 06 - 2017 (attenzione, le date sono importanti) e intitolato Muore a Torino bimba di 2 mesi dopo esavalente.
L'articolo, abbastanza breve, consiste in questa sorta di striminzito comunicato
E’ morta a Torino una bimba di 2 mesi di origine Nigeriana, è stata trovata morta questa mattina nella culla, il giorno prima è stata sottoposta a vaccino esavalente, l’Asl To4 ha sostituito, in via precauzionale, tutti i lotti del vaccino del tipo a cui era stata sottoposta la bimba.
http://www.ilmessaggero.it/primopiano/cronaca/torino_bambina_morta_culla_vaccino_asl-1755584.html
Qual è il problema? Basta seguire la fonte citata.
Aprendo il link si scopre, intanto, che la notizia risale al 25 - 05 - 2016, ovvero più di un anno prima, mentre Infovax la riporta come una situazione ancora in fieri e di cui si attendono gli sviluppi. Continuando la lettura dell'articolo si evince poi che è stata disposta l'autopsia della bambina per capire le cause della morte, che potrebbero essere slegate dalla vaccinazione. Correttezza vorrebbe quindi che, per un dibattito serio, Infovax pubblicasse tali dati, se disponibili, ma a distanza di un anno dai fatti, non lo fa. Nondimeno, spulciando in rete, si scopre che la morte della bambina è già stata spiegata, e di questa morte ci informa il giornalista specializzato nello sbugiardamento delle bufale David Puente su debunking.it (link). Stando ai risultati dell'autopsia la piccola sarebbe purtroppo morta per la Sids, e la vaccinazione a cui era stata sottoposta non avrebbe a che fare con il suo decesso. Di tutto ciò Infovax non dice nulla purtroppo, e dire che si tratta di informazioni reperibili in rete da più di un anno.
Ricapitolando: un autore di cui non sappiamo nulla, su un sito apertamente schierato, riprende una notizia già smentita spacciandola per appena accaduta e nascondendo alcune informazioni fondamentali per farsi un'idea chiara sui fatti. Questa è una fake news o, da noiantri, una bufala.
Sembra quindi doveroso chiudere con un breve decalogo, made in UE, per riconoscere le fake news e cercare di essere un po' più accorti in rete.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....