sabato 31 dicembre 2016

Vedere cosa si vuol vedere o della focalizzazione

La foto qui riprodotta, piuttosto famosa per l'effetto particolare ottenuto dal tempismo del fotografo, è interessantissima anche per altri motivi.
Questa foto è infatti utilissima per spiegare il concetto di focalizzazione. La focalizzazione, in una narrazione di qualsiasi tipo, è il punto di vista che assumiamo per raccontare i fatti, punto di vista che ci permette di vedere e conoscere alcuni fatti e altri no, o addirittura tutti i fatti narrati e i pensieri dei nostri personaggi.
Se per esempio guardassimo questa scena da una finestra, che ci permettesse di osservare solamente la parte centrale della foto, osserveremmo questo:
Il nostro punto di vista sarebbe limitato, saremmo così guidati a pensare alla foto come la ripresa di una scena romantica di fronte ad una strada dai manifesti piuttosto particolari.
Ancora, se il nostro punto di vista, sempre regolato da una piccola finestrella, fosse spostato un po' più a destra, vedremmo questo:
Due passanti che si incrociano su di un marciapiede, estranei tra di loro, in quello che sembra un paesaggio sudasiatico. Non sappiamo cosa pensino i due protagonisti della scena, se desiderino incontrarsi, se stiano pensando ai fatti loro: qualcosa possiamo dedurla dall'espressione di lui, da quello che osserviamo del suo aspetto, possiamo per esempio ipotizzare che lui abbia adocchiato lei per qualche motivo che noi ignoriamo. In questi casi il nostro punto di vista assume l'aspetto di una focalizzazione esterna.
Proviamo a cambiare prospettiva:
Cosa sta osservando il cane? In questo caso il fotografo sembra volerci fare concentrare su ciò che del paesaggio il cane si concentra ad ammirare, cioè l'immagine dei due elefanti il nome di un prodotto industriale.Il racconto prodotto da questa immagine ci porta ad osservare i fatti secondo la prospettiva di un personaggio ben preciso. In questo caso chiameremo questa prospettiva focalizzazione interna.
E se invece possiamo inquadrare contemporaneamente tutto?
In questo caso, cioè nel caso in cui possiamo contemporaneamente osservare la scena secondo una prospettiva omnicomprensiva e che ci permetta anche di conoscere il pensiero dei personaggi che agiscono si chiama focalizzazione zero, comunemente nota come la prospettiva del narratore onniscente. È il modo di raccontare di tanti romanzi, noti e non, come I promessi sposi. Tuttavia non è il modo di osservare la realtà più frequente, anzi. Si pensi alla difficoltà che ciascuno di noi incontra nel tentare di far capire ai nostri interlocutori il nostro punto di vista: questa difficoltà dipende dal fatto che ciascuno di noi tende a considerare la propria prospettiva di osservazione come una prospettiva altra, esterna se non addirittura onniscente. E così il problema del passaggio dai punti di vista personali a quelli esterni o ad una prospettiva onnicomprensiva è uno dei nodi più urgenti nell'epoca della post-verità.






venerdì 30 dicembre 2016

La potenza della parola è tutta qui



Ok, apparentemente è una boiata, eppure questa scritta su di un muro (e non mi chiedete dove sia stata fotografata né se si tratti di un fake, perché non lo so) è una delle cose più potenti che ho letto ultimamente.
Certo, forse dipende anche dal fatto che in questo periodo, complice il marmocchio in casa e il lavoro triplicato a scuola, le letture "per puro svago" si sono ridotte al minimo. Tuttavia in queste due frasi avviene qualcosa di grandioso, qualcosa che solo l'uso della parola, benché casuale o dilettantesco, riesce a creare.
Di per sé si tratta di un gioco retorico abbastanza semplice. Attraverso l'inversione sintattica di due elementi della frase, ovvero l'attributo bella e il complemento di specificazione di merda, si crea un costrutto fortemente ironico, in cui sono le espansioni ad arricchire e completare in maniera paradossale gli argomenti dei verbi, ovvero ciò che realmente è portatore del significato centrale delle frasi. Infatti il nucleo del ragionamento, costruito attraverso i predicati (non) lasciare e rovini, il secondo dei quali regge gli argomenti giornata e vita, porta ad un confronto tra un singolo e minimo giorno e un'intera esistenza. Questo confronto potrebbe essere drammatico, epico, analitico; invece diviene paradossale, e lo diviene grazie, a punto, all'inversione dell'attributo bella, che andrebbe logicamente associato a vita, e del complemento di specificazione di merda, che ci aspetteremmo accanto a giornata.
Insomma, lo spostamento di due espansioni, nello specifico una singola parola e un sintagma, rivoluziona un ragionamento, portando alla risata e al paradosso.
Ma c'è ancora di più. Per usare delle categorie, volendo, pirandelliane, se passiamo dal comico all'umoristico, possiamo notare come nel periodo non lasciare che una bella giornata rovini la tua vita di merda, facilmente passeremo dall'aspetto denotativo all'aspetto connotativo: cosa ci fa venire in mente il sintagma bella giornata? E cosa il sintagma vita di merda? Insomma, ogni lettore inizierà a viaggiare, superando l'aspetto più assurdo di questa frase complessa, per tentare di immaginare cosa possa stare dietro quelle parole. E nell'atto stesso dell'immaginare quelle belle giornate e quelle vite di merda, esse prenderanno vita, forma, anche se momentanea e immaginaria. 
In questo prendere vita e forma delle parole, con una potenza ben superiore rispetto a quanto siamo disposti a riconoscere, il graffitaro o chi per lui avrà vinto sulla nostra razionalità, avrà causato in noi la sospensione di incredulità. Avrà, è bene dirlo, fatto letteratura.

Edit: il buon prof. Morandin osserva che il di merda non è tanto da considerare un complemento di specificazione, quanto un complemento di materia o, forse meglio, di qualità. Personalmente propendo per la seconda ipotesi, ma, sottigliezze logiche a parte, questa precisazione nulla toglie al ragionamento sopra esposto riguardo allo slittamento sintattico e semantico che realizza il paradosso letterario di questa frase complessa.

Roba da nerd: Macross Plus


Come sanno i miei lettori, di tanto in tanto l'adolescente che è in me tenta di uscire fuori, battere un colpo e fare vedere che è ancora vivo e vegeto, anche sotto i peli e i capelli che si fanno brizzolati (forma cordiale per dire bianchi). Quando questo adolescente prende il sopravvento (da non confondere con il fanciullino mezzo pervertito di Pascoli) devo categoricamente tuffarmi in una delle mie passioni ormai lontane: videogiochi, narrativa o cinematografia fantasy o fantascienza, manga e anime. E non c'è verso, o lo faccio o mi viene la tachicardia, divento un rompiballe indescrivibile, da rischiare la richiesta di divorzio della mogliera; meglio essere accondiscendente verso l'adolescente inside, insomma.

In questo caso, nelle serate veronesi di sosta dalle attività didattiche, causa festività cristiane, tra un pacco di verifiche e l'altro che mi ritrovo a correggere, mi sono dedicato alla visione dei quattro OAV che compongono la serie di Macross Plus. Per farla breve sulla trama:
Trama: Anno 2040. Sono passati trent'anni dalla grande guerra tra Umani e Zentradi. Sulla colonia spaziale Eden prende il via il Progetto Supernova che prevede il collaudo e il confronto di due nuovi modelli di caccia spaziali: YF-19 delle Industrie Shinsei e YF-21 della General Galaxy. L'aereo che supererà tutti i test verrà scelto come velivolo per le forze militari. Per uno scherzo del destino i due piloti chiamati per i test sono Isamu Alva Dyson ed il mezzosangue Zentradi Guld Goa Bowman, amici di gioventù poi separatisi a causa di alcuni contrasti. Dissapori che aumentano con il ritorno di Myung Fang Lone, di cui entrambi erano innamorati e che fu la causa della loro separazione. Myung, nel frattempo, è diventata la manager della più celebre idol virtuale dello spazio: Sharon Apple. Ora, dopo il ritorno della ragazza, le tensioni fra i due piloti aumentano, sfociando in un confronto aereo che mette a rischio l'intero progetto. Però, nonostante i loro dissapori, quando Sharon Apple va fuori controllo, mettendo in pericolo Myung, Guld e Isamu uniscono le forze per salvare la ragazza. (fonte Animeclick)
Ora, quella che serguirà non è una vera e propria recensione, semmai si tratta delle impressioni che la serie mi ha lasciato.
Il comparto grafico è indiscutibilmente di ottimo livello: le animazioni, soprattutto per quanto riguarda i mech e le battaglie aeree, lasciano una piacevole sensazione di meraviglia nel lettore. il disegno dei personaggi è però banale, eccessivamente in linea con quanto visto e stravisto in tanti anime degli anni '90.
Il comparto sonoro originale della serie è invece stupefacente, in particolare l'accompagnamento musicale, in puro stile narrazione cyberpunk, colpisce l'orecchio dello spettatore lasciandolo ammaliato e, soprattutto, è eccezionalmente funzionale allo svolgimento della trama.
Per quanto riguarda la trama, a punto, ho letto in rete giudizi contrastanti. Pur non trattandosi di un capolavoro, il lavoro fatto sulla sceneggiatura di Macross Plus, secondo i dettami della saga, è più che ragguardevole. Le sequenze d'azione, neanche celatamente ispirate a Top Gun, catturano l'attenzione ma, e qui sta la buona riuscita della serie, senza perdere di credibilità passano in secondo piano rispetto al vero filo narrativo degli episodi, il confronto fra i protagonisti della serie, alle prese con un passato e dei fallimenti mai rielaborati davvero. Il triangolo amoroso certo non brilla per brio o originalità, eppure in un'opera del genere rimane tuttavia coraggioso prediligere la caratterizzazione dei personaggi alle battaglie aeree. Il tutto mentre la descrizione del contesto che ne viene fuori, quella di una popolazione terrestre persa tra la contemplazione sterile della natura e l'immersione asociale e asincrona nella tecnologia, tratteggia un ambiente di riferimento che ha tanto a che spartire con la migliore narrazione cyberpunk.
Alcuni passaggi logici nello sviluppo della trama non sono molto chiari allo spettatore che non conosca la serie originale di Macross, soprattutto nel quarto episodio, ma queste sbavature non impediscono la fruizione della serie che, nel complesso, è ampiamente godibile.

venerdì 9 dicembre 2016

E questo sarebbe uno statista?

Penso che Matteo Renzi dovrebbe prendere atto del suo fallimento come uomo di stato, pernderne atto, e lasciare la scena politica. Lo dico senza astio, ma da elettore di sinistra e, più ancora, da italiano. Penso che nella vita occorra, di tanto in tanto, fermarsi e ricapitolare, vedere cosa si è fatto bene e in cosa si è sbagliato, tirare le somme, e capire se per quel lavoro che si sta svolgendo si è realmente portati o se si sta prendendo delle cantonate mostruose. Nel secondo caso, per il bene proprio, della propria dignità, e soprattutto per il bene della comunità, sarebbe bene cambiare strada e iniziare a fare altro.
Ecco, se Matteo Renzi osservasse questo suo "stint" da Presidente del Consiglio o, allargando, il suo periodo da segretario del PD, osservasse seriamente e serenamente intendo, non potrebbe non riconoscere come pochi statisti hanno collezionato la sua mole di disastri nella loro storia.
Già a partire dalla sua elezione a segretario, veicolando un linguaggio avventato, quello della rottamazione, l'idea bambinesca dell'innovazione sempre e comunque bella e di un passato sempre e comunque stupido e da buttare perché ottuso. Continuando con la presenza cialtronesca sui media, sui social, uscite irrisorie contro l'avversario, mai rispettato, sempre maltrattato (con una maleducazione comparabile solo ai più beceri grillismi e legihsmi), ocn il cappello sugli "stai sereno" o sui "ciaone", con i silenzi sui "fuori fuori" e sugli insulti del ministro dell'istruzione ai suoi dipendenti, con gli "li asfaltiamo" su quelli che sarebbero degli alleati. Ancora, con una riforma della scuola che ha irriso i dipendenti pubblici che colpiva (per cui questo blog non può essere tacciato di bonaria complicità o sommaria empatia), il clientelismo dei Faraone e dei De Luca accettato come prezzo da pagare per il successo, il compromesso al ribasso sulle unioni civili, la svendita del diritto al lavoro in nome di qualche voucher riguardo all'articolo 18.
Soprattutto, con l'appropriazione indebita del tentativo di riforma costituzionale, tentativo che andava riconosciuto impossibile nelle maniere legittime per una riforma costituzionale, ovvero la massima condivisione possibile; il tentativo invece di cucirsi addosso ad ogni costo il titolo di padre della patria e uomo della speranza, costruendo nel frattempo una impalcatura dello stato che avrebbe consegnato un popolo confuso nelle mani di un potere totalitario. Il tentativo plebiscitario sulla falsariga della Brexit di Cameron, con il risultato di aver rafforzato le ondate populiste nel paese. La pessima gestione della crisi di governo ora, e il colpo definitivo alla stessa esistenza del PD.

Guardando a tutto ciò, come si può rimanere impassibili? Come pensare di accettare nuovamente un incarico da Presidente o di rimanere segretario del partito? Come, se non per un'abnorme vena narcisistica e per un ipertrofico concetto di sé?

Il segretario del PD Matteo Renzi faccia un favore a noi tutti, conduca all'approvazione di una legge elettorale, convochi il congresso del PD e dia le sue dimissioni dalla politica, perché in questo settore ha già fatto troppi danni perché li sopporti una sola generazione.

Qiundi i Veneti sarebbero minoranza etnica, ovvero della riscrittura dell'identità fondata su falsi storici e su metodi fascisti

Quindi i Veneti, cioè gli abitanti del Veneto (che, ricordiamolo, non coincide affatto con i confini del Veneto attuale, ma vallo a spiegare a Zaia e Maroni) sarebbero minoranza etnica da tutelare, a partire dalla lingua veneta. Almeno questo è quello che crede e ha votato la giunta regionale del veneto, approvando la legge regionale 116/2016.
Una maggioranza di 27 fini linguisti, evidentemente, che sono riusciti dove ha fallito la linguistica nel corso dei decenni. Infatti il dibattito su cosa sia realmente la lingua veneta è ancora aperto: tutto sta nel trovare una definizione per lingua e dialetto.
Se consideriamo le mere condizioni politiche, una lingua è tale finché è considerata ufficialmente lingua di uno stato, altrimenti ne diviene dialetto (e questo è stato lo status del veneto fino ad oggi) a meno che non sia riconosciuta la forte componente identitaria di quella favella; tuttavia quest'identificazione nella parlata non è sufficiente per definirla lingua, dato che occorrono delle regole grammaticali codificate, una tradizione di testi scritti, e soprattutto, la produttività linguistica, ovvero la capacità di produrre nuove parole e regole grammaticali per adattare il linguaggio al presente. Venendo meno anche solo uno di questi casi, correttamente si dovrebbe parlare di dialetto.
Nel caso del Veneto, all'annessione di questi territori nel 1866, sul dialetto della Serenissima Repubblica di Venezia (che era già annoverata come dialetto nell'Impero Austro Ungarico) si sovrappone la lingua italiana appena codificata dalla commissione presieduta niente meno che da Alessandro Manzoni (e fondata su una tradizione un attimino più ricca e importante, senza nulla togliere al grande apporto dato da autori come Goldoni e Ruzzante alla cultura italiana).
Ora la Regione Veneto, facendo appello alla Convenzione del 1997 con cui l'UE tutela le minoranze linguistiche, legifera sul riconoscimento della lingua veneta che, ad onor del vero, nel 1976 veniva definita tale dall'UNESCO. Con una serie di problemi: proprio perché improduttivo, il dialetto veneto, sebbene tutt'ora molto parlato e compreso dai dialettofoni regionali, è improduttivo, tanto che per nominare un qualsiasi aggeggio nato negli ultimi due decenni ha bisogno di avvalersi di parole della lingua italiana pronunciate alla veneta. Inoltre, sempre essendo rigorosi, non esiste alcuna codificazione della grammatica della lingua, del resto frastagliata in una miriade di dialetti locali con uno prevalete per ragioni storiche, il veneziano. Ma se a prevalere sono le ragioni storiche ed identitarie su quelle linguistiche, per paradosso, perché Veronesi e Padovani dovrebbero accettare il veneziano come lingua regionale, malgrado il passato prestigioso della loro storia comunale prima ancora della Serenissima e della sua espansione? Se parliamo invece di ragioni linguistiche, di che diamine di lingua stiamo parlando? Del veneto del 1976? E negli ultimi 40 anni cosa è successo? Perché i dati sulle competenze linguistiche nella comprensione della lingua italiana che, con i testi INVALSI, premiano (meritatamente?) il Veneto vengono citati (a sproposito) quando conviene millantare la buona amministrazione della regione, e vengono dimenticati quando si vuole affermare il veneto come presunta lingua madre dei giovani indigeni?
Le ragioni politiche di questa forzatura sono evidenti: la Regione Veneto, nella persona del suo presidente Zaia, sta cercando in tutti i modi di assecondare le spinte indipendentiste, forte dell'ondata populista che attraversa l'Europa. La partita si gioca proprio sul piano della formazione e dell'identità, passando attraverso la riscrittura del Risorgimento, epoca in cui i veneti, quando hanno potuto, hanno aderito pacificamente all'annessione (lo dimostrano l'assenza di qualsiasi forma di resistenza, come è stato invece il brigantaggio meridioanale, e la partecipazione di massa alle guerre garibaldine di numerosi volontari provenienti da queste terre), continuando con i silenzi sui fondi travasati dai piani per il Mezzogiorno verso il Veneto dagli anni '50 agli anni '90 (a partire dal Piano Marshall), concludendo con il paradosso dei paradossi, ovvero il riferirsi ad una Convenzione dell'UE, che non riconosce affatto la lingua veneta come tale, e che è nata per tutelare le minoranze etniche, Rom, Sinthi etc, che più sono vittima proprio in Veneto.
Non regge il paragone con il Sud Tirolo: è evidente a chiunque abbia studiato almeno due pagine di storia contemporanea come le modalità dell'annessione del Trentino e delle regioni tedescofone siano state del tutto diverse, come è evidente la mancanza di onestà intellettuale di chi millanta fantomatici regni del Bengodi sotto la dominazione austriaca, quando il Veneto era invece soggetto alla più alta tassazione dell'Impero e quando i parlanti veneto erano soggetti, lì sì davvero, a persecuzioni e discriminazioni. Né ha alcun fondamento la giustificazione tante volte sentita dagli indipendentisti veneti, allorché sostengono che mai la Serenissima ha dato il suo consenso all'annessione al Regno d'Italia. È evidente come una simile evenienza non abbia avuto luogo in primis perché la Serenissima non esisteva più già dal trattato di Campoformio del 1797, la svendita di Napoleone agli Austriaci, ben 69 anni prima dell'annessione all'Italia.

Insomma, in Veneto si assiste oggi ad un tentativo di ridefinizione etnica su base nazionalista, razzista e populista, fondata su una serie di falsi storici e culturali, sul disprezzo per il dibattito scientifico (emblematiche le posizioni dell'assessore Donazzan sulla presunta teoria gender). Atti legislativi che verranno plausibilmente cassati dalla Corte Costituzionale ma che, intanto e nel futuro, meritano una reazione di disobbedienza civile, lì dove si vorrebbe imporre la riscrittura della storia e della cultura della nazione, anche limitando sempre più la libertà d'insegnamento con iniziative unilaterali e lontane da reali ragioni pedagogiche, come la settimana dello sport imposta a tutte le scuole, che per i suoi connotati potrebbe benissimo chiamarsi settimana Balilla.

sabato 3 dicembre 2016

Battaglia di Kadesh: fonti e ricostruzione



FONTI:
Per i documenti citati: https://www.academia.edu/3642893/LA_BATTAGLIA_DI_QADESH_2006_
Per la ricostruzione in 3D: https://www.mozaweb.com/it/Extra-Modelli_3D-Battaglia_di_Kadesh_1285_a_C-109429

lunedì 28 novembre 2016

Due parole su Castro

Foto: WIkipedia
Fidel Castro diceva che la storia l'avrebbe giudicato innocente dalle gravi colpe che gli venivano imputate. Io non so se è vero perché la Storia, con la esse maiuscola, è materia più complessa di un aforisma.
Tuttavia due parole non scontate vanno dette.
Castro era un dittatore, su questo, tolto Minà, siamo tutti pressoché d'accordo. Castro era un dittatore e in quanto tale ha negato i diritti umani a tutti coloro che gli sono stati oppositori. Negare questo è negare un evidenza.
Detto questo, Castro è stato anche un dittatore atipico: nessuna aggressione militare, nessun tentativo, neanche misero, di espansione territoriale, solo, e si fa per dire, un'estrema chiusura nei confronti dell'Occidente, chiusura del resto reciproca, visto l'embargo che da decenni colpisce Cuba.
Ma Castro è anche il dittatore della lotta all'analfabetismo (caso unicissimo nella storia delle dittature) e del sistema sanitario più progredito ad esclusione di quelli dei paesi più ricchi. 
Per dirla in termini banali, Castro ha davvero odiato i suoi oppositori, ma ha davvero amato il suo popolo. Proprio per questo, non rendere onore alla sua salma, come proposto dal neoletto Presidente degli USA Donald Trump, per quanto comprensibile, sarebbe un errore, un non voler riconoscere l'unicità della figura di Castro. Ma qui parliamo di fioretto e ricamo, di fronte ad un presidente che, ancora deve giungere al potere, usa come strumento di precisione la clava.

La pubblicità e l'attacco al pensiero critico



Forse qualcuno si ricorda ancora la sciagurata campagna TV della TIM, in cui un dinoccolato PIF, nel tentativo di celebrare il canale televisivo On Demand del colosso della telefonia, tirava fuori dal cilindro una passaggio terribile: "le nuove tecnologie ci stanno dando la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?"
In molti hanno notato quanto quell'asserzione e quella domanda retorica dopo nascondessero delle implicazioni etiche complesse e terribili. Davvero si può ipotizzare che esista una libertà che esuli dalla scelta? Davvero si può ipotizzare che questa libertà, sempre che esista, debba essere dipendente dalle nuove tecnologie fornite, non come diritto, ma come prodotto da un'azienda privata?
Se poi volessimo volare più basso, la campagna sarebbe comunque un improprio attacco al pensiero critico, veicolando un messaggio semplicistico, il più deletereo pensiamo noi per voi, non vi preoccupate.

Sempre in questo senso si muove in questi giorni una nuova campagna pubblicitaria, questa volta della BMW, che onestamente ho sentito solo alla radio. La campagna inneggia all'innovazione in quanto tale e, ad un certo punto recita più o meno così: gli innovatori non si chiedono il perché, si chiedono solo il come.
Ora, anche qui, certi messaggi, se non opportunamente spiegati, sono quasi criminali. In queste frasi sono condensati 2500 anni di riflessione sul metodo scientifico e filosofico, e a sintetizzarle così, oltre che a dare un punto di vista quanto meno criticabile e tutt'altro che pacifico o oggettivo, si rischia di far passare come indubitabilmente giusto uno schema logico che così scontato non è.
Vero è che la scienza non dovrebbe chiedersi il "perché" (domanda teleologica), occupandosi semplicemente del "come", ma questo non esclude che, in altri contesti, quel "perché" ritorni in tutto il suo vigore, sia che sia domanda di carattere etico, sia che sia di carattere metafisico. In più, "perché?" è la domanda logica per eccellenza, il primo nostro atto conoscitivo quando da bambini iniziamo a scoprire il mondo proprio attraverso quella domanda. Questa campagna, a dire la verità una serie di campagne pubblicitarie sempre più incalzante, non fa altro che porre in discussione la stessa legittimità, da parte del cliente, del suo atto conoscitivo. Anche in questo caso, non importa che tu, cliente, conosca i perché delle cose, tanto alla fine ci penseranno altri.
Un inno all'omicidio del senso critico, un inno che è ancora più pericoloso perché implicito, nascosto, malizioso, ingannevole e rivolto non alla globalizzazione, come da più parti si legge, ma al consumo. Un messaggio che sa di capitalismo sfrenato e che, ci si augura, non avrà seguito

sabato 5 novembre 2016

Il tema delle elementari ed il pippone morale

In questi giorni sta furoreggiando sui social un temino scritto da una bambina di Clusone nel 1944. Tale componimento è giunto agli onori della ribalta grazie ad un articolo, pubblicato su Scuolazoo, che voleva mettere in luce la ricchezza lessicale e sintattica dell'alunna della scuola di Gentile, a confronto con la povertà e grettezza logica degli studenti di oggi. L'articolo è stato ripreso da più parti, non ultimo dal dott. Max Bruschi, faccia nota del mondo della scuola sul web nonché ispettore ministeriale.

" Il professor Enrico Galiano sul sito Scuolazoo.com ha pubblicato un’interessante analisi su un tema di una bambina di Clusone che frequentava la quinta elementare nel 1944. Il testo è stato inserito in una pagina internet dal titolo Quaderniaperti.it che raccoglie i quaderni scolastici di bambini italiani dal 1900 a oggi. Lo scopo del sito è tutt'altro, e la raccolta non prevede una analisi comparativa degli apprendimenti (e indirettamente delle didattiche). Ma il prof. Galiano è andato oltre. Mi sembra una riflessione davvero interessante, la sua.
“Sono lì che faccio una ricerca su internet (ok, lo ammetto, stavo cazzeggiando) e mi imbatto su una pagina meravigliosa: una raccolta di temi e quaderni di bambini e ragazzi, dall’inizio del ‘900 agli anni novanta.Ora, a parte i lucciconi agli occhi che mi son venuti, a un certo punto inizio a leggermi per bene i temi di questi bambini, per capire se col tempo siamo migliorati, o peggiorati. Ecco: era meglio se non l’avessi fatto.
Una proprietà lessicale, una capacità di analisi, una coerenza testuale che oggi i nostri si sognano: ho letto temi di bambini di terza elementare che gareggerebbero con quelli di ragazzi che oggi fanno le superiori.
Volete un esempio? Ecco un tema di una bambina di Clusone (BG), una quinta elementare del 1944 (ho lasciato gli errori):
Titolo: rovistando in solaio
Giorni or sono non sapendo cosa fare salii in solaio e mi posi a guardare tutte le antichità tra cui molti abiti. Vi erano anche dei vecchi mutandoni della nonna! Svelta me li provai. Mi arrivavano sino ai piedi. Scoppiai in una risata continuando a vestirmi. Sopra ad ogni cosa misi un grande abito da sera, certo della nonna.
Mi guardai allo specchio e esclamai con gioia: “Sembro proprio una piccola dama dell’800!”. Presi una borsa e infilatami un paio di guanti corsi giù. Per la scala però constatai con rabbia di non essermi messa le scarpe. Risalii.
Per fortuna c’era un paio di scarpe lunghe quanto me e me le misi: “Ora si che sono antica” eslamai. Di sotto la gona mi si vedevano oltre ai mutandoni due scarpe lunghe che facevano veramente ridere.
Scesi in cucina e mi presentai come una dama inglese. Tutti mi riconovvero e risero della mia burla. Quando mi smascherai affermarono che ero veramente irriconoscibile e che quell’acconciatura mi si addiceva a meraviglia.
Salii di nuovo e mi divertii più di prima. Aprii una cassa e che meraviglia: una divisa da garibaldino con la sciabola mi incantò.
Toltami i panni da dama dell’800, indossai la divisa garibaldina stringendo nel pugno la lunga spada con la quale scansai un quadro. Non l’avessi mai fatto! Uscì fuori una frotta di sorci, ed io che fino al momento mi ero immaginata di essere in un campo di battaglia, al solo veder quel brulicar di topi, fuggii e inciampando da tutte le parti ruzzolai fino in fondo alle scale. Mi vergognai di aver dimostrato una viltà del genere, pur indossando una divisa garibaldina.

E questo è solo uno dei tanti! Gli altri temi, dagli anni dieci fino ai settanta, sono tutti più o meno così.
Reazione numero uno: mi è salita la depressione.
Reazione numero due: ancora depressione.
Solo dopo un po’ ho cominciato a riflettere per bene sulla faccenda, e dopo lunga, lunga, lunga riflessione, credo di aver capito di chi sia la colpa, se i nostri studenti delle superiori oggi non sarebbero in grado di scrivere come una bambina di quinta elementare del 1944: è nostra. È solo colpa nostra.
Abbiamo cominciato in buona fede, eh? A un certo punto ci siamo detti: dai, proviamo a semplificare un po’ questi concetti. Rendiamoli più agevoli! E da lì è iniziata una deriva inarrestabile: confrontate un sussidiario delle elementari degli anni 80 e un libro di testo delle medie di oggi. Fatelo, se avete coraggio! Vi renderete conto che il sussidiario è scritto in modo più approfondito, accurato, complesso. E che il testo delle medie è pieno di immagini, schemini, mappe: certo un aiuto, ma è quello il problema, perché a forza di aiutarli hanno smesso di aiutarsi da soli.
Stiamo facendo di tutto per rendere la scuola più semplice ed è lì l’errore: la scuola deve essere difficile! Dobbiamo ricominciare a sfidare queste piccole intelligenze, a smetterla di dare loro cibi preconfezionati e supergustosi e ricominciare a insegnare loro a cucinare. Anzi, a coltivare da sé stessi il grano, a macinare la farina, ad andare a raccogliersi l’acqua.
È colpa nostra se mediamente uno studente delle medie di oggi è meno preparato di uno delle elementari del 1944: colpa di noi insegnanti. Convinti di fare il loro bene, abbiamo pensato che semplificare le cose fosse una buona idea.
E, se una ragazzina di quinta elementare del 1944 scrive molto meglio di un ragazzo di seconda superiore di oggi, direi che non ci sono dubbi: no, non è stata una buona idea”.
Aggiungo di mio una riflessione, breve. A colpire non è solo la ricchezza del lessico. Ma l'organizzazione del discorso, la "dispositio". Questa bambina di Clusone era... competente... Ma per davvero."

A leggere bene il post, e sapendo anche da quale sito è partita la querelle, non ci vuole tanto a capire dove si vuole andare a parare: gli alunni di oggi scrivono da cani per colpa dei loro insegnanti.

Ora, siccome sono un insegnante, e siccome di alunni che scrivono da cani ne ho avuti parecchi, ma anche di alunni che scrivono meglio dei vincitori del Campiello, questo articolo l'ho trovato un tantino, per usare un eufemismo, fastidioso. Non si preoccupino lor signori, ora spiegherò il perché. La prima questione è di metodo. Io nasco archeologo, e agli archeologi la filosofia piace, ma sanno bene che per vivere serve il pane. In questo caso il pane sono i numeri, i dati. In questo caso, di dati ce ne sono pochini, diciamo uno, e neanche indicativo. Perché il dato, per essere indicativo, dovrebbe essere completo: dovremmo conoscere chi sia l'autrice del tema, quale sia il contesto sociale da cui arriva, che studi avevano fatto i genitori. Tutte informazioni che mancano e che non rendono accettabile questo tema come prova di alcunché.
Esistono ricerche accreditate sulla perdita (o sul miglioramento) delle capacità linguistiche, nella fattispecie lessicali e sintattiche, almeno dagli inizi del Novecento ad oggi? Che mi risulti, per la scuola italiana no. Certo, abbiamo i dati dei test INVALSI, che per inciso danno come risultato un progressivo miglioramento, ma comunque sono troppo recenti.
In compenso qualcosa del genere è stato fatto all'estero, e una buona sintesi viene data proprio in questo periodo da  JSTOR Daily. Dalla comparazione di centinaia di testi prodotti dagli studenti dei college anglosassoni dal 1917 ad oggi emerge come il numero di errori non sia aumentato, semmai gli errori sono cambiati, sicché aspetti della lingua che prima risultavano problematici oggi sono facilmente assimilati dagli studenti, mentre altri risultano oggi di difficile apprendimento. Insomma, l'esatto opposto del luogo comune, nonché la conferma che la lingua è, sempre, una questione sociale e ad uso e consumo dei tempi in cui vivono i suoi fruitori.
Possiamo ipotizzare che risultati simili emergerebbero da uno studio omologo sulla scuola italiana? Ni, perché a differenza di quanto parzialmente già avveniva all'estero, da noi per lungo tempo la scuola è stata scuola di classe, cosa che era del resto uno degli obiettivi della riforma di Gentile. In quella scuola solo una piccola élite aveva accesso ad una istruzione alta, mentre il resto della popolazione era rapidamente instradata verso una formazione di tipo professionale; nel frattempo si chiudevano tutti e due gli occhi, e le orecchie, di fronte alla dispersione scolastica di quanti, perché di ceto sociale basso, preferivano il lavoro, in fabbrica o nei campi, alla scuola.

E allora perché cotanto articolo? Perché come dice il professor Vertecchi in un suo recente intervento, in questi anni si parla di scuola senza criterio o metodo, adducendo la propria esperienza personale come paradigma per ogni sorta di giudizio o, peggio, di proposta di riforma.
Insomma, se nel merito l'articolo potrebbe anche avere qualche ragione (ma ad oggi non è dato saperlo), nel metodo l'autore e coloro che si stanno sperticando dietro questo pezzo, lamentando l'incompetenza altrui, mostrano la propria.
Incompetenza che in qualche caso sembra qualcosa in più, la si chiami malizia, se figure autorevoli possono implicitamente celebrare una scuola classista e il sempre più evidente modello aziendalista, contro la scuola democratica e pluralista, accusata (senza prove) di sfornare legioni di ignoranti. Come se tra le generazioni precedenti non ci fossero ignoranza e incompetenza (ma si preferiva tenerle lontane dalla scuola, col  paradosso che le lezioni venivano erogate a chi, in fondo, non ne aveva bisogno), e come se i dati sull'analfabetismo di ritorno tra gli adulti (quegli adulti che sono venuti su con la scuola che ora si brama e si celebra) non stessero lì a ricordarci che tra propaganda del bel tempo che fu e realtà c'è una bella differenza.

Sitografia
http://daily.jstor.org/student-writing-in-the-digital-age/
https://www.academia.edu/29623253/Dieci_livelli_per_la_valutazione_7._Perch%C3%A9_gli_insegnanti_fanno_ci%C3%B2_che_fanno

venerdì 28 ottobre 2016

Goro, Castel D'Azzano e la teoria della giustificazione economica

Di fronte alle proteste e alle barricate anti migranti di questi giorni, da Goro a Castel D'Azzano, è sorto un, a dire il vero limitato, moto d'opinione che ha espresso il suo disagio davanti ad esempi così evidenti di razzismo, non ultima la manifestazione di Lega e Casa Pound a Milano.
A difesa delle proteste però si sono erti alcuni degli ideologi del neorazzismo, i quali non hanno avuto problemi a snocciolare le ragioni economiche dei barricaderi, i quali avrebbero visto stravolto, a Goro, il loro sistema economico con la perquisizione di un edificio pubblico adibito, tra l'altro, a bar, o avrebbero rischiato, a Castel D'Azzano la requisizione, in realtà mai contemplata, delle seconde case.
Fossero anche vere queste ragioni, ci sarebbe comunque da porsi un problema: le ragioni economiche dei benestanti possono stare davanti al diritto inalienabile alla vita di chi fugge da ciò che non può controllare?
Per rispondere a questa domanda, cambiamo un attimo prospettiva: quale sarebbe stata la reazione dell'opinione pubblica se al posto di 12 donne africane fuggite da guerre che non vogliamo conoscere e riconoscere, ci fossero state 12 donne umbre, laziali o marchigiane sfollate dal terremoto? Avrebbe qualcuno avuto il coraggio di addurre l'importanza di un bar per il sistema economico di una comunità come scusa per evitare l'accoglienza? Avrebbe qualcuno avuto il coraggio di non ospitare nelle proprie seconde case degli sfollati, dicendo che in questa maniera quelle case non erano più disponibili ad essere affittate ed essere quindi fonte di reddito?
Le risposte, ne sono certo, sarebbero scontate. C'è in tutta questa discussione un non detto di cui non vogliamo parlare perché comporterebbe una ammissione  dolorosa: ciò che è avvenuto, avviene e continuerà ad avvenire è puro razzismo, l'idea che noi qui non li vogliamo perché noi siamo migliori, chissà come e perché, l'idea che dovremmo aiutarli in casa loro, che tanto poi, quando lo si deve fare davvero, con leggi, investimenti o interventi militari, si vota contro.

Si chiama razzismo, ma voi continuate pure a chiamarlo come volete.


mercoledì 26 ottobre 2016

Semplificazione e analfabetismo sono la vera distopia

Foto: Il signore delle mosche
Ma si ritiene davvero possibile trattare un tema complesso come quello del funzionamento della democrazia, con strumenti grezzi come la falce o l'accetta? Si ritiene davvero che il problema dell'economia come della politica italiana sia il compenso dei parlamentari, e che l'unica soluzione possibile sia ridurre tale compenso dimezzandolo?
Come se il problema fossero le due lire che si risparmierebbero, quando poi, il grosso dei compensi dei parlamentari è dato dai giustissimi rimborsi per le spese di rappresentanza e di trasporto.
Il punto è che se un lavoro, soprattutto un lavoro o un impegno fondamentale, come quello che la politica richiede, è fatto bene, lo si deve retribuire, e retribuire nel miglior modo possibile. Altrimenti il rischio, come ben sapevano già gli antichi, è che chi meglio potrebbe fare, anche in altri settori, scelga di dedicarsi ad altro, non certo ad un impegno massacrante, per lo più odiato dall'opinione pubblica, e per di più malamente remunerato.
Una soluzione sarebbe retribuire in base al reale valore dell'azione politica, ma ciò implicherebbe abbandonare un paradigma semplicistico, andare nel merito delle questioni affrontate, delle leggi proposte, della fattibilità, dell'economicità, della valenza, della validità dell'azione parlamentare. Occorrerebbe per esempio sanzionare ogni uscita pubblica, ogni intervento, ogni proposta di legge o di emendamento che violino, per malizia o ignoranza, leggi e regolamenti o che denotino chiara ignoranza, in primis della carta costituzionale. Tutto ciò però richiederebbe l'avvalersi di persone esperte, competenti e, soprattutto, il rischio di dover riconoscere al nemico politico (guai a parlare di avversari o, sacrilegio, di interlocutori) competenza e buona fede.
Ne emergerebbe per esempio la pratica di presentare norme di legge senza un relatore, cosa che implica ipso facto il ritorno della proposta in commissione e un uso propagandistico del voto parlamentare (è quanto successo ieri sulla proposta del M5S per il dimezzamento degli stipendi) o risulterebbe come il parlamento italiano sia uno dei più produttivi in Europa e come il fantomatico flipper tra Camera e Senato sia più un mito che una realtà (con buona pace di Renzi e del suo governo).
Comunque ne verrebbe fuori un quadro agghiacciante: la semplificazione, di qualsiasi colore sia, non può esistere se non di fronte ad un elettorato che richiede, desidera e capisce solo il semplice. Ecco perché democrazia diretta e analfabetismo di ritorno sono oggi il peggiore dei pericoli, una combinazione letale che può avere come unico esito il totalitarismo.
L'analfabeta almeno aveva un pregio: riconoscendo la sua incompetenza, delegava, a volte anche in maniera eccessiva, alla rappresentanza politica; oggi, l'analfabeta funzionale, pur non essendo in grado di giudicare un testo complesso, non se ne cura o non lo sa, non accetta la rappresentanza, pretende una partecipazione che è in realtà impossibile, essendo lui inconsapevole di quanto ogni sua scelta sia abilmente manipolata dai comunicatori in grado di veicolare in maniera implicita messaggi persuasivi attraverso la distorsione della realtà o la sua omissione.
Il libero che non riconosce di essere schiavo è il proprio peggior nemico.


giovedì 15 settembre 2016

L'impressione di un bel film: Happy family di Gabriele Salvatores

Foto: Wikipedia

Di tanto in tanto mi ritaglio il tempo per scrivere qualcosa sul mio blog, malgrado la vita privata e quella lavorativa lascino sempre meno spazio a queste mie parole. Capita soprattutto che la voglia di scrivere venga dopo qualche fatto, dopo la lettura di qualche buon libro o saggio, o dopo la visione di un buon film. È questo il caso di oggi: perché Happy family, di Gabriele Salvatores, è in primis un buon film. Dettaglio non da poco, sceneggiatura e regia ammiccano a tanta parte del cinema e della letteratura degli ultimi cento anni, con un riferimento d'obbligo, ovvero Pirandello metateatrale.

Senza andare troppo nel dettaglio, la trama si dipana attraverso la scrittura da parte di un autore, Ezio, del suo prossimo film. Vediamo così i personaggi della vicenda prendere vita, comporre il quadro di due famiglie che paiono stare per intrecciarsi a causa di un matrimonio, che fallirà. Scopriamo che ognuno dei personaggi ha i suoi problemi, uno in particolare sta per morire di tumore. Deus ex machina della vicenda sarà il personaggio Ezio, alterego dell'autore, che farà da perno per l'intreccio. Qui arriva il primo colpo di scena, perché l'autore Ezio decide di troncare la vicenda, lasciarla con un finale aperto. Tuttavia la sua casa verrà invasa dai personaggi che imporranno, per rispetto del pubblico e di loro stessi, ad Ezio di portare a compimento l'opera. Ezio così dipana la storia, che porterà alla morte per tumore di Vincenzo e al matrimonio, anche se non quello programmato all'inizio della vicenda, bensì quello di Ezio personaggio e Caterina. Tutto finisce bene? Insomma, perché nelle ultime scene torniamo da Ezio autore, molto meno fortunato e brillante del suo personaggio, e soprattutto, solo. Ma il destino pare in procinto di cambiare, dato che, uscito di casa, finalmente Ezio autore trova il coraggio di parlare con la vicina di casa Caterina.

Come detto, il film si sviluppa in maniera piacevole, coerente e con un ottima regia. Le luci valorizzano l'espressività degli attori, un cast di tutto rispetto per la commedia italiana, mentre i riferimenti colti che costellano la trama fanno felice anche lo spettatore, o il lettore, in cerca di un prodotto commerciale ma di buon livello.

venerdì 26 agosto 2016

Giulio Cesare, William Shakespeare



Quando il personaggio che dà il titolo ad un'opera teatrale scompare dalla scena alla metà dell'opera, o si tratta di un fiasco o si tratta di un capolavoro dalle profondità mai raggiunte. Questo è il caso del Giulio Cesare di Shakespeare, tragedia in cui i tempi della storia si comprimono in un climax che accompagna il dissidio interiore dei protagonisti del dramma. In primis Bruto, che ama come un figlio Giulio Cesare ma che, costretto dalla sua ferrea etica, non potrà esimersi dall'agire contro il dittatore per salvare la Repubblica. Poi Cassio, che nel nome dei valori della Repubblica (o meglio, dei privilegi dell'oligarchia) teme e odia Giulio Cesare, in cui vede l'uomo che vuole farsi re contro le istituzioni repubblicane. Ed ecco il personaggio da cui il dramma trae il suo titolo, Giulio Cesare, fiero della sua grandezza, stoico nella volontà di seguire in tutto e per tutto il fato che gli è stato assegnato, che vive un momento di crisi solo di fronte al presagio di Calpurnia che sembra predirne la morte. Eppure Cesare non può non tentare di essere fino all'ultimo artefice del proprio destino, e così affronterà la sorte e la congiura che lo attende.
Con la morte di Cesare, quella che è la tragedia dello stoicismo, degli uomini che, in nome della libertà, repubblicana o individuale, si fronteggiano, diviene la tragedia della politica e della passione. Da un lato i congiurati, Bruto e Cassio in primis, con le loro posizioni tanto diverse tra di loro; dall'altro lato Marcantonio e Ottaviano, fedele e passionale soldato l'uno, inesperto ma con l'animo del politico fiero l'altro. La tragedia si fa così tragedia di discorsi, in cui i confronti pubblici si fanno memorabili, a partire da quello tra Bruto e Marcantonio. Bruto è l'uomo che si fa portavoce della logica ferrea, dell'etica della filosofia, del rigore della prosa: per lui l'amato Cesare ha però peccato volendosi fare più grande di tutti gli altri uomini, attentando a qualcosa di superiore, la Repubbica. Per questo lui, che pure l'amava, l'ha dovuto uccidere, assumendosi tutto il peso della sua azione. Dall'altro lato Marcantonio che, con abile retorica, smonta con le armi del pathos e della poesia i ragionamenti dell'avversario e, con l'ironia, svela l'inconsistenza delle sue accuse, finanche del suo essere uomo onorevole.
BRUTUS. Be patient till the last. Romans, countrymen, and lovers! Hear me for my cause; and be silent, that you may hear: believe me for mine honour, and have respect to mine honor, that you may believe: censure me in your wisdom; and awake your senses, that you may the better judge. If there be any in this assembly, any dear friend of Caesar's, to him I say that Brutus' love to Caesar was no less than his. If then that friend demand why Brutus rose against Caesar, this is my answer,—Not that I loved Caesar less, but that I loved Rome more. Had you rather Caesar were living, and die all slaves, than that Caesar were dead, to live all freemen? As Caesar loved me, I weep for him; as he was fortunate, I rejoice at it; as he was valiant, I honour him; but, as he was ambitious, I slew him. There is tears for his love; joy for his fortune; honour for his valour; and death for his ambition. Who is here so base that would be a bondman? If any, speak; for him have I offended. Who is here so rude that would not be a Roman? If any, speak; for him have I offended. Who is here so vile that will not love his country? If any, speak; for him have I offended. I pause for a reply. [...] BRUTUS. Then none have I offended. I have done no more to Caesar than you shall do to Brutus. The question of his death is enroll'd in the Capitol, his glory not extenuated, wherein he was worthy;, nor his offenses enforced, for which he suffered death.
BRUTO –
Romani, miei compatrioti, amici, io vi chiedo pazienza; ascoltatemi bene fino in fondo, e restate in silenzio, e vi esporrò la causa del mio agire. Sul mio onore, credetemi, ed abbiate rispetto del mio onore; giudicatemi nella saggezza vostra, e a meglio farlo aguzzate l'ingegno. Se c'è alcuno fra voi ch'abbia voluto molto bene a Cesare, io dico a lui che l'amore di Bruto per Cesare non fu meno del suo. Se poi egli chiedesse perché Bruto s'è levato con l'armi contro Cesare, la mia risposta è questa: non è che Bruto amasse meno Cesare, ma più di Cesare amava Roma. Preferireste voi Cesare vivo e noi tutti morire come schiavi, oppur Cesare morto, e tutti liberi? Cesare m'ebbe caro, ed io lo piango; la fortuna gli arrise, ed io ne godo; fu uomo valoroso, ed io l'onoro. Ma fu troppo ambizioso, ed io l'ho ucciso. Lacrime pel suo amore, compiacimento per la sua fortuna, onore al suo valore, ma morte alla sua sete di potere! C'è alcuno tra voi che sia sì abietto da bramare di viver come servo? Se c'è, che parli, perché è lui che ho offeso! Se alcuno c'è tra voi che sia sì barbaro da rinnegare d'essere un Romano, che parli, perché è a lui che ho fatto torto! E chi c'è qui tra voi di tanto ignobile da non amar la patria? Se c'è, parli:perché è a lui ch'io ho recato offesa. [...] Vuol dire allora che nessuno ho offeso. Ho fatto a Cesare non più di quello che ciascuno di voi farebbe a Bruto. Le ragioni per cui Cesare è morto son tutte registrate in Campidoglio; la sua gloria, dov'egli ne fu degno, non è stata offuscata, né i suoi torti per i quali ebbe morte, esagerati.

ANTONY.
Friends, Romans, countrymen, lend me your ears;
I come to bury Caesar, not to praise him.
The evil that men do lives after them;
The good is oft interred with their bones;
So let it be with Caesar. The noble Brutus
Hath told you Caesar was ambitious:
If it were so, it was a grievous fault,
And grievously hath Caesar answer'd it.
Here, under leave of Brutus and the rest--
For Brutus is an honourable man;
So are they all, all honourable men--
Come I to speak in Caesar's funeral.
He was my friend, faithful and just to me:
But Brutus says he was ambitious;
And Brutus is an honourable man.
He hath brought many captives home to Rome
Whose ransoms did the general coffers fill:
Did this in Caesar seem ambitious?
When that the poor have cried, Caesar hath wept:
Ambition should be made of sterner stuff:
Yet Brutus says he was ambitious;
And Brutus is an honourable man.
You all did see that on the Lupercal
I thrice presented him a kingly crown,
Which he did thrice refuse: was this ambition?
Yet Brutus says he was ambitious;
And, sure, he is an honourable man.
I speak not to disprove what Brutus spoke,
But here I am to speak what I do know.
You all did love him once, not without cause:
What cause withholds you then, to mourn for him?
O judgment! thou art fled to brutish beasts,
And men have lost their reason. Bear with me;
My heart is in the coffin there with Caesar,
And I must pause till it come back to me. 
ANTONIO –
Romani, amici, miei compatrioti,
vogliate darmi orecchio.
Io sono qui per dare sepoltura
a Cesare, non già a farne le lodi.
Il male fatto sopravvive agli uomini,
il bene è spesso con le loro ossa
sepolto; e così sia anche di Cesare.
V'ha detto il nobile Bruto che Cesare
era uomo ambizioso di potere:
ed egli gravemente l'ha scontata.
Qui, col consenso di Bruto e degli altri
– ché Bruto è uom d'onore,
come lo sono con lui gli altri –
io vengo innanzi a voi a celebrare
di Cesare le esequie. Ei mi fu amico,
sempre stato con me giusto e leale;
ma Bruto dice ch'egli era ambizioso,
e Bruto è certamente uom d'onore.
Ha addotto a Roma molti prigionieri,
Cesare, e il lor riscatto ha rimpinzato
le casse dell'erario: sembrò questo
in Cesare ambizione di potere?
Quando i poveri han pianto,
Cesare ha lacrimato: l'ambizione
è fatta, credo, di più dura stoffa;
ma Bruto dice ch'egli fu ambizioso,
e Bruto è uom d'onore.
Al Lupercale tutti avete visto –
per tre volte gli offersi la corona
e per tre volte lui la rifiutò.
Era ambizione di potere, questa?
Ma Bruto dice ch'egli fu ambizioso,
e, certamente, Bruto è uom d'onore.
Non sto parlando, no,
per contraddire a ciò che ha detto Bruto:
son qui per dire quel che so di Cesare.
Tutti lo amaste, e non senza cagione,
un tempo... Qual cagione vi trattiene
allora dal compiangerlo? O senno,
ti sei andato dunque a rifugiare
nel cervello degli animali bruti,
e gli uomini han perduto la ragione?
Scusatemi... il mio cuore giace là
nella bara con Cesare,
e mi debbo interromper di parlare
fin quando non mi sia tornato in petto
Il duello retorico tra Marcantonio e Bruto è indubbiamente il più noto, tuttavia non è l'unico. Altri due diverbi metteranno in luce gli animi dei protagonisti: quello tra un Cassio sempre più miserabile e corrotto e Bruto, ancora e sempre più da solo emblema dell'etica e della coerenza; quello tra Ottavio e Marcantonio, spartita l'eredità di Cesare, sul modo di condurre la battaglia contro i congiurati. Ottavio è ancora un ragazzo, eppure già si intravede la grandezza del politico che non ha da lottare contro Antonio, tanto gli è superiore.
ANTONY.
Octavius, lead your battle softly on,
Upon the left hand of the even field.
OCTAVIUS.
Upon the right hand I; keep thou the left.
ANTONY.
Why do you cross me in this exigent?
OCTAVIUS.
I do not cross you; but I will do so 
ANTONIO –
Ottavio, fa' avanzare senza fretta
i tuoi dalla sinistra della piana.
OTTAVIO –
Io dirigo alla destra.
La sinistra la tieni tu, Antonio.
ANTONIO –
Perché vuoi contrastarmi, Ottavio Cesare,
proprio in questo frangente?
OTTAVIO –
Non ti contrasto: faccio quel che dico
Giunge la battaglia, e se la sorte e l'apparizione del fantasma di Cesare conducono all'errore Cassio che. non ancora sconfitto, si suicida, Bruto giganteggia su tutti: lui che, sconfitto Ottavio in battaglia, anziché cercare un compromesso, porta alle estreme conseguenze le sue azioni, sfidando da solo in campo aperto le forze nemiche: è la sconfitta a cui, assieme all'amico Catone, segue uno stoico suicidio.
L'onore di Bruto non è compromesso, egli ha lottato per un ideale. Eppure è uscito sconfitto, è morto, i vincitori sono altri. Nelle lodi che Ottavio e Marcantonio cantano per l'avversario sconfitto si intravede, in controluce, la loro guerra e la fine, ormai imminente della Repubblica.
Chi è il vincitore e chi lo sconfitto? Se dalla tragedia appare come vincitore Marcantonio, tuttavia lo spettatore non può non sapere che il generale sarà il grande sconfitto delle guerre civili; nondimeno Bruto e Cassio, coloro che vogliono essere gli onesti, i puri ad ogni costo, saranno coloro che innescheranno il meccanismo che condurrà allo sfacelo della Repubblica; vincitore non è Cicerone, dipinto con poche pennellate come un pavido retore, vincitore non è Cesare, che non ha saputo e voluto capire quale fosse il momento di recedere dalla propria tracotanza; vincitore non è, ancora, Ottavio, sconfitto in battaglia (eppure capace di allontanarsi dallo scontro assieme a Marcantonio con la salma del nemico).
Come spesso accade in Shakespeare, il dramma della psiche dell'uomo conduce alla catastrofe, una catastrofe che muterà per sempre l'orizzonte dei personaggi, sia degli sconfitti che dei vincitori.

Testo in lingua originale: http://www.gutenberg.org/ebooks/1522?msg=welcome_stranger
Traduzione in italiano (traduzione del prof. Goffredo Raponi): http://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/william-shakespeare/giulio-cesare/

martedì 16 agosto 2016

Che cosa chiedere alla storia, Marc Bloch

Foto: Castelvecchi editore

Se si vuole capire cosa sia il mestiere dello storico, non si può prescindere da alcune letture e da alcuni studiosi, e fra questi c'è senza dubbio Bloch. Se poi si vuole capire cosa sia davvero la Storia, in maiuscolo, uno strumento d'eccezione sono le vive parole dell'autore, così come le ebbe a pronunciare nel 1937 al Centre polytechnicien d’études économiques e racchiuse in Che cosa chiedere alla storia. Con questo discorso lo studioso spiega bene quale sia la sua idea degli studi storici: la Storia come interessamento al presente e alla vita che non può fare a meno del passato, la Storia come scienza del cambiamento, misurabile solo smettendo di adoperare categorie che l'autore trova infondate, quali quelle di passato "prossimo" e "remoto" e che tutt'ora sono invece invalse, soprattutto quando a studiare la storia sono persone prive di metodo e di una visione ampia. La storia così, per Bloch, non può non essere storia "lunga", perché solo nel lungo periodo è misurabile un reale cambiamento, quanto esso sia profondo, e quali siano i fattori che l'abbiano prodotto.
Ma a quale scopo fare storia?
Per Bloch lo studio della storia è uno studio disinteressato, umanistico, anche quando si occupa di argomenti tecnici, come nel caso dell'autore, quali la storia economica e monetaria. Soprattutto, per Bloch, occorre che sia chiaro un concetto: lungi dal poter possedere un metodo sperimentale come le scienze dette esatte, ancor di più lo storico deve essere attento nello studio dei fattori che comportano il verificarsi di un evento; solo l'attento studio di questi fattori potrà permettere una certa approssimazione nella previsione degli eventi futuri. Infatti, come più volte precisato da Bloch, gli eventi non si ripetono mai del tutto uguali proprio perché mai sono uguali i fattori che ne influenzano lo svolgimento, e solo l'analisi delle diversità potrà permettere, in anticipo, di prevedere se e come un certo evento sarà ripetibile o se, invece, ci si potrà attendere qualcosa di diverso. La Storia di Bloch è quindi una storia, fondata su un metodo rigoroso, che vuole giungere a fondare leggi evoluzionistiche nello svolgimento dei fatti umani, nella misura, a punto, in cui i fattori evolutivi sono o no similari. La Storia è quindi la scienza del cambiamento, non per niente Bloch giunse a dire che la maggior parte dei "progressi" a cui abbiamo assistito negli ultimi duemila anni nascono da dei fallimenti.

Per quanto sia oggi difficile credere nella possibilità di leggi evoluzionistiche delle vicende umane, uno schema positivista che non appartiene, forse a torto, ad una concezione del mondo sincronica e schiacciata sul presente apparentemente immobile, tuttavia la lezione di Bloch rimane fondamentale: da un lato per la sua capacità di smontare i facili entusiasmi di chi crede in una banale ciclicità e immobilità della storia (come i recenti fatti in Turchia, per esempio, hanno mostrato accadere tra la maggior parte dei commentatori), e dall'altro lato per la sua capacità di confutare la visione storica di una larga parte degli economisti prestati alla storia, convinti dell'assoluta unicità dell'epoca presente e incapaci di osservare i fatti nella prospettiva più ampia della storia lunga.

lunedì 15 agosto 2016

La fine del mondo Capitalismo e mutazione, Daniele Balicco

Foto:danielebalicco.it


Con "La fine del mondo. Capitalismo e mutazione", pubblicato da Daniele Balicco sulla rivista Between e ripreso da leparoleelecose.it, ci addentriamo all'interno delle implicazioni che il cambiamento della percezione della realtà ha per l'immaginario contemporaneo. A sua volta l'autore mette in risalto come, a partire dal diciassettesimo secolo e con lo sviluppo del capitalismo, un cosciente lavoro sull'immaginario abbia portato all'imposizione del sistema capitalistico e, al contempo, alla sensazione che un mondo plurimillenario, quello basato su simboli ricorrenti già dal paleolitico, sia giunto alla sua conclusione.  Il presupposto è che la società precapitalista e premoderna viva secondo una percezione storica di lunga durata, mentre caratteristica del capitalismo sia  la sincronicità. La sensazione di "fine della storia" e il suo ritornare così frequentemente nell'immaginario collettivo, per esempio al cinema, nelle serie tv o nella narrativa, si spiegano quindi con questo processo di mutazione antropologica spiegabile esclusivamente in un contesto di storia lunga, secondo il modello degli Annales e degli insegnamenti di Bloch.
Partendo dagli studi dell'antropologo De Martino e di Pasolini, Balicco propone un'analisi che si basa su tre concetti: la verosimiglianza, l'intensificazione e la mutazione.
La verosimiglianza è intesa come quella serie di leggi e norme, poste socialmente, che per millenni hanno connotato l'interpretazione ingenua della realtà; questa idea di verosimiglianza si intensifica con il capitalismo, divenendo però implicita anziché esplicita (in un certo senso quindi impedendo ogni forma di controllo e di difesa da questa idea), a causa dello sviluppo tecnologico e della massificazione della cultura. L'interazione tra verosimiglianza e intensificazione produce la mutazione antropologica a cui oggi assistiamo, per cui i criteri estetici ed etici che avevano caratterizzato le avanguardie novecentesche divengono ora tipici dell'immaginario collettivo, causando un appiattimento sul presente dal punto di vista storico, la sensazione perenne di vivere una possibile fine del mondo e la conseguente paura della catastrofe causata dall'uomo stesso (e a cui solo la tecnica stessa può porre rimedio), nonché il bisogno inconscio di riti di passaggio, bisogno tuttavia frantumato tanto da causare la persistenza, anche in età adulta, di elementi che caratterizzano l'infanzia e l'adolescenza (abuso della pornografia, dei videogiochi, etc.).
A corredo delle tesi dell'autore viene riportata una discreta mole di materiali, a partire dalle citazioni di serie tv, di film e di libri. In ogni caso l'analisi resta uno strumento interessante per cercare di capire come la percezione della realtà sia cambiata anche a causa del capitalismo, come forma di organizzazione che permea non soltanto la vita economica ma anche la vita sociale, culturale e spirituale dell'Occidente.


Balicco, Daniele, “La fine del mondo. Capitalismo e mutazione”, L'immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/

Cuore cavo, Viola Di Grado

Foto: foggiacittaaperta.it

È davvero difficile recensire un romanzo come Cuore cavo di Viola Di Grado. Si potrebbe lodare la bravura tecnica della scrittrice, davvero dotata di una notevole padronanza della lingua, anche quando si spinge verso settori apparentemente poco appetibili per il pubblico, come quelli dei linguaggi settoriali; oppure si potrebbe criticare l'apparente presunzione della scrittrice, che in certi momenti sembra voler strafare, pretendere troppo da se stessa e dal lettore, costretto a rincorrere la protagonista nei suoi lunghi monologhi; si potrebbe apprezzare l'intelligenza con cui l'autrice sfrutta un genere mainstream, l'horror dei non morti, dei fantasmi, finanche accennando alla moda degli zombie, senza tuttavia scadere nella pura e semplice volontà di generare paura o terrore; si potrebbe ugualmente criticare l'inesperienza di alcune trovate o la debolezza della trama, dal colpo di scena finale alla contraddizione di fantasmi che, di volta in volta, si dice possano e poi non possano interagire con la realtà dei vivi. Cuore cavo è tante cose insomma: un romanzo di un'autrice ancora molto giovane ma già sicuramente esperta della letteratura, sia di quella più alta che di quella più modaiola. Un'autrice che, forse a sua insaputa, riesce a resuscitare dei modi di scrivere, il pulp e l'orrore, che in Italia non hanno avuto mai una vera e propria tradizione, se non con i cosiddetti Cannibali. Proprio di questa libertà si avvale Viola Di Grado, che tuttavia fallisce nella costruzione di una trama corposa (e forse, in ossequio alla migliore letteratura postmoderna, neanche la vuole una trama). In ogni caso si tratta di un romanzo a cui vale la pena di dare una chance, senza pretendere di aver trovato un capolavoro, ma con la consapevolezza di star leggendo l'opera di qualcuno che, almeno, sa scrivere bene.

sabato 6 agosto 2016

Mobilità, deportazioni e altre cose che avrei preferito non vedere

Scriverò solo questo post sulla mobilità e su quello che sta accadendo nel mondo della scuola anche in questa estate. Le modalità scelte per questa procedura di mobilità straordinaria sono indegne di un paese civile: non è possibile pensare che il trasferimento di migliaia di persone (a occhio alla fine della fiera più di cinquantamila famiglie sarà sballottata per l'Italia) venga gestito in maniera così poco trasparente e, soprattutto, improvvisata. Detto questo, cari colleghi, come al solito state facendo tutto, ma proprio tutto, per sembrare degli stupidi. Leggo e ascolto accorate proteste scritte o pronunciate in un italiano stentato, tra errori grammaticali e dialettalismi; avete rispolverato il paragone con le deportazioni, facendo sembrare persino Rondolino uno storico di razza; parlate di trasferimenti del tutto inaspettati quando era ben chiaro nel testo della legge che all'adesione al piano d'assunzione straordinario corrispondeva la presa in carico di questo rischio, facendo in questo modo il gioco di chi vi dice e vi dirà che, se non volete trasferirvi, non dovevate aderire al piano oppure ora vi dovete dimettere. Sono cose che dico da un anno e più, ma sigle e siglette, associazioncine e gruppetti Facebook autoreferenziali si ostinano a praticare queste tattiche suicide, leccando il culo del Movimento Cinque Stelle, pensando a chissà quali stravolgimenti della scuola dopo le elezioni. Intanto il MIUR e il corpo docenti, tutti, fanno una pessima figura, mostrando un mondo in cui incompetenza, irresponsabilità, regressione infantile e approssimazione la fanno da padroni e in cui i vertici ignoranti sono lo specchio di lavoratori rinchiusi in una guerra tra bande. Se questa è la scuola pubblica, se questi sono i suoi dipendenti, per favore licenziateci tutti, dal ministro all'ultimo degli insegnanti, e ripartite da zero.

sabato 23 luglio 2016

Quelle due o tre cosette che ho imparato sul grillismo



Foto: Repubblica.it

Allora, partiamo dal fatto che non ho la pretesa di parlare di tutto un complesso movimento come quello di Beppe Grillo, questo post è invece dedicato alla mia personale esperienza con uomini e organizzazioni che, nelle modalità adoperate, si richiamano al grillismo.

Cosa intendiamo con grillismo? Con questo termine mi riferisco all'atteggiamento tenuto nei confronti dell'opinione pubblica, alle modalità di relazione all'interno di organizzazioni complesse, ai comportamenti tenuti verso le istituzioni e i media che trovano come ispirazione il M5S e Beppe Grillo.

E allora, cosa abbiamo imparato?
In primis, il grillismo è un modo di essere tutt'altro che spontaneo o avventuristico, semmai lungamente studiato, artificioso e pericoloso. Volendo semplificare al massimo, si tratta di una forma di populismo che trova le sue basi in un miscuglio di riferimenti culturali più o meno semplificati, dalla critica culturale di Noah Chomsky alla destra sociale di tradizione europea. Il fondamento di questo modo di essere sta nell'idea che la volontà della maggioranza della popolazione è sempre e inderogabilmente giusta. La democrazia si risolve quindi nella mera esecuzione della volontà popolare così come si mostra attraverso la continua consultazione del popolo; consultazione che non potrà non avvenire attraverso strumenti semplificatori del reale, a partire quindi dal referendum popolare, sempre più trasformato in strumento plebiscitario.
Chi conosce la storia della democrazia, sia quelle dirette che quelle indirette o parlamentari, avrà qui già riconosciuto un primo pericolo, ovvero il rischio di trasformare, con gli antichi Greci, la democrazia in demagogia: democrazia è infatti un sistema in cui la maggioranza governa, ma senza mettere in discussione i diritti o l'esistenza stessa delle minoranze e delle opposizioni; nella demagogia invece non esiste possibilità di opposizione, perché l'opposizione, così come la differenza rispetto alla volontà della maggioranza, è sintomo di malafede, malattia, distorsione, malaffare. Pertanto minoranze, correnti, opposizioni interne ed esterne non sono gradite ai movimenti populisti, come infatti accade nel M5S.

Se però ci fermassimo qui, potremmo dire che il grillismo è semplicemente un atteggiamento tipicamente populista; tuttavia, c'è dell'altro.
Nel grillismo infatti è presente un forte radicamento nelle idee di una certa destra, quella destra sociale, tipica della tradizione europea, che in qualche maniera ha tentato di recuperare gli aspetti ritenuti salvabili della tradizione fascista, per riproporli come una forma di socialismo di destra. A questa destra sociale fanno capo alcune idee, apparentemente simili alle idee di sinistra, come l'attacco al sistema bancario e alle multinazionali, specie se agiscono nella finanza (a cui fa da contraltare un fantomatico ritorno alla terra e al verde), e, allo stesso tempo, la contestazione verso i sindacati e i corpi intermedi, avvertiti come interferenza rispetto al governo del popolo. Perché non si tratta di idee di sinistra? Perché in realtà, sebbene si parli genericamente di redistribuzione del reddito, non è presente tra le idee del grillismo l'abolizione della proprietà privata, semmai invece si propone come panacea per ogni male la piccola e media azienda, magari a conduzione familiare, lì dove le idee di un certo tradizionale paternalismo possono trovare più facilmente applicazione in una sorta di corporativismo dei nostri tempi.
Insieme a queste idee di carattere economico, il grillismo si connota come un modo di essere antiglobalizzazione, antieuropeista se non xenofobo, lì dove avverte nell'azione di entità esterne un possibile pericolo per la volontà popolare ed il popolo stesso: pericolo che non viene solamente dall'interferenza politica, ma dal mescolarsi delle idee e dal sopraggiungere di nuove visioni politiche all'interno del popolo. L'idea stessa di popolo, su cui si fonda il populismo, è poi particolarmente vaga e mai del tutto esplicitata. Cosa infatti sia questo popolo, chi lo componga, quali idee lo caratterizzino, quali valori, quali programmi, tutto ciò non è ben definito, semmai si rimanda ad un sentire comune che di volta in volta potrà cambiare e potrò essere reindirizzato da chi manipola l'opinione pubblica.

Il grillismo è quindi un'ideologia, malgrado il dichiararsi post ideologico. Il pretendere di essere l'unica verità possibile è tipico delle ideologie, il non volersi confrontare o compromettere con le idee altrui non ha nulla di diverso dalle metodologie usate dal fascismo dal comunismo, fino all'esclusione di ogni forma di dissidenza. Di preciso poi, il grillismo, nel suo richiamarsi a Rousseau, più che post ideologico è preideologico, una forma di estremo conservatorismo che  è paragonabile alle varie forme di esaltazione del primitivismo antiscientifico, che vede anzi nella cultura, nella scienza e nello sviluppo strumenti con cui il potere avviluppa e allontana dalla pura vita primitiva.

Ancora, e qui arriviamo al dunque, questo atteggiamento trova spesso realizzazioni pratiche pericolose, allorché, alle idee precedentemente elencate, formulate in maniera più o meno esplicita, si associa la presenza di entità complesse e poco trasparenti, volte ad indirizzare l'atteggiamento dell'opinione pubblica. Nell'azione pubblica dei movimenti che si richiamano al grillismo troviamo spesso, a scaturigine del movimento, la presenza di associazioni a scopo di lucro (più o meno dichiarato) o società private, guidate da uomini e dotate di strumenti capaci di manipolare l'opinione pubblica, facendo leva sulle paure più basilari e sulla distorsione dell'informazione. A corredo di queste associazioni sorgono infatti in maniera molto rapida una serie di canali di informazione (che spesso si trincerano dietro il diritto di satira o pongono la loro sede legale all'estero) che sfruttano abilmente la comunicazione gratuita sul web: vengono qui applicate metodologie di distorsione dell'informazione che nulla hanno a che fare con il giornalismo (presentare una notizia da cui sono state espunte informazioni che potrebbero essere contraddittorie, collocare i fatti nello spazio e nel tempo in modo che risultino favorevoli a chi scrive, evitare la ritrattazione, manipolare i dati, utilizzare titoli emozionali). In genere questi siti adoperano la pratica del clickbaiting, letteralmente "Esca da click", guadagnando in base agli accessi al sito e ai click sulle pagine, condivise a dismisura da troll professionisti sui social. Attraverso gli stessi canali poi vengono venduti, quindi con uno scopo di lucro che quasi mai viene manifestato, ma che anzi viene giustificato con la sopravvivenza stessa del movimento, libri, biglietti per la presenza a manifestazioni, corsi.

Un'altra caratteristica del grillismo è la manipolazione della lingua: il grillismo aborre il ragionamento complesso, sintomo di intellettualismo e di malafede (non per niente è spesso associato alle opposizioni, all'inciuciare, al lobbysmo): le verità sono tali perché immediatamente intellegibili tramite l'uso del buon senso, senza dover ricorrere al principio di falsificabilità. Il linguaggio del grillismo è volutamente contraddittorio, secondo i più noti principi del postmodernismo per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, tanto che si può parlare di nonstatuto, utilizzare termini per poi ritrattarli senza colpo ferire, etc. A questo atteggiamento si accompagna la costante tendenza verso il complottismo, come mistificazione della realtà indiscutibilmente più semplice, ad opera di poteri forti e occulti più o meno intercambiabili. Tra i movimenti che si richiamano al grillismo emergono così una o più figure carismatiche, capaci di strappare il telo di menzogne che comporrebbe la realtà, con la complicità di praticamente ogni autorità costituita, sociale, politica, morale, religiosa, scientifica, per dichiarare la nuova verità, immediatamente conoscibile da chiunque (lì dove qualcuno non dovesse riconoscerla, sarebbe, nuovamente, perché in malafede). Caratteristiche di questi leader però sono la loro comparsa dal nulla, spesso imposti dai suddetti organi di informazione, di cui sono a capo o di cui sono affiliati, tanto da poter presupporre una loro collusione (lì dove questa non sia dichiarata in maniera manifesta e provocatoria).

Per tutti questi motivi, il ricorso senza filtri all'opinione pubblica opportunamente manipolata, lo scopo di lucro esplicito o implicito, le pratiche distorsive della realtà, il manifesto odio verso le opposizioni e le minoranze, il grillismo è oggi uno dei fenomeni politici e sociali più complessi, preoccupanti e in ultima analisi pericolosi, per le possibili derive totalitarie.


domenica 10 luglio 2016

Mono No Aware e altre storie, Ken Liu



Mono No Aware e altre storie, di Ken Liu, edizioni Future Fiction, è una piccola antologia, si tratta infatti di cinque racconti, di genere fantascientifico. In particolare l'autore, cinese d'origine ma residente in California dall'età di undici anni, affermatosi come autore di racconti e romanzi fantascientifici, ha con il racconto Mono No Aware conseguito il prestigioso premio Hugo.
Infatti l'antologia non tradisce le attese, soprattutto con l'ultimo dei suoi racconti, intitolato L'uomo che mise fine alla storia, dedicato alla memoria della ricercatrice e storica Iris Chang, nota per aver reso noti al grande pubblico, attraverso i suoi lavori, gli orrori commessi dai Giapponesi durante l'occupazione di Nanchino nel 1937, comunemente noti come "lo stupro di Nanchino".
In questo racconto Ken Liu disquisisce di storia, di metodo storico, attingendo alle vette della letteratura. Cos'è la Storia? Cos'è la verità? Che valore ha la testimonianza dei reduci? E che valore ha la ricostruzione dei ricercatori e degli storici? Queste sono le domande dietro cui si arrovellano i protagonisti della vicenda, l'inventore di una macchina del tempo e la sua compagna, dediti allo smascheramento dei crimini contro l'umanità compiuti, ancora una volta, dai Giapponesi con la loro Unità 731, in Manciuria, allora etnicamente a prevalenza cinese. Ovviamente il plot narrativo serve qui all'autore per dibattere di questioni fondanti la civiltà contemporanea, come la necessità e la possibilità di fare storia, la possibilità di una storia condivisa, il valore e l'uso delle fonti.
Una lettura consiglitata, soprattutto per coloro che volessero avere idee più chiare su quanto una cosa che hanno sempre considerato semplice, la storia, sia tutt'altro, e viva oggi, nell'epoca dell'informazione diffusa, il suo più grave momento di crisi dal Medioevo ad oggi.

venerdì 24 giugno 2016

Flipped Classroom: un caso di studio

ABSTRACT


Per rispondere alla domanda fatidica, se la Flipped Classroom possa davvero conseguire risultati migliori rispetto ad una didattica tradizionale, occorre avere chiare le idee: qual è l'obiettivo della Flipped Classroom? Si potrebbe essere tutti d'accordo sul fatto che l'obiettivo di questa pratica non possa essere la semplice sostituzione tout court di tecniche ormai avvertite obsolete; semmai, la Flipped Classroom trova un suo perché nel tentativo di recuperare allo studio quegli alunni che nel lavoro d'aula appaiono più in difficoltà e che necessitano maggiormente di una didattica laboratoriale, permettendo inoltre ai discenti di raggiungere un grado di acquisizione delle competenze programmate quanto meno paritetico rispetto alla didattica tradizionale, se non superiore. Se questa strategia sia utile alla concettualizzazione è tuttavia la questione a cui si cercherà qui, non di dare risposta, ma di dare un contributo attraverso un caso di studio: l'esperienza di Flipped Classroom su una prima superiore, scuola secondaria di secondo grado, di un istituto tecnico, esperienza realizzata nell'arco di un quadrimestre: un'esperienza, nel complesso, contraddittoria, almeno nei suoi esiti.

mercoledì 22 giugno 2016

Hugh Liebert, Alexander the Great and the History of Globalization

Con il saggio Alexander the Great and the History of Globalization, pubblicato su The Review of Politics, Vol. 73, No. 4 (FALL 2011), pp. 533-560, Cambridge University Press,  Hugh Liebert conduce il lettore attraverso un'attenta disamina dei diversi possibili concetti di globalizzazione, non per forza in contrasto gli uni con gli altri, mettendo in relazione la globalizzazione moderna con quella di epoca ellenistica e con la figura di Alessandro Magno.
In particolare nel saggio viene messo in luce come l'aspetto economico, oggi come ieri, sia solo uno dei parametri attraverso cui possiamo giudicare i fenomeni complessi che riduciamo al nome di globalizzazione; oltre a questa accezione abbiamo la globalizzazione dei valori (si pensi alla diffusione dei diritti umani) e la globalizzazione fondata sull'orgoglio umano, ovvero il desiderio di autoaffermazione e di diffusione della propria identità. In particolare, quest'ultima accezione è quella che spiega, in seno alla globalizzazione, il riaffiorare di forme di nazionalismo o integralismo.
Secondo Liebert tuttavia, accanto a queste accezioni più note e diffuse, dovremmo contemplarne un'altra, quella per cui la globalizzazione si legherebbe ad un'identità personale (e collettiva), intermedia e indeterminata. A sostegno di questa tesi l'autore cita la Vita di Alessandro scritta da Plutarco. Dalla lettura dell'opera emerge il ritratto di un personaggio, Alessandro, fiero della propria origine macedone e regale fino al momento della conoscenza con Aristotele. La conoscenza con il filosofo di Stagira mette in discussione le certezze di Alessandro, che sembra, da questo momento, agire per accreditarsi come degno dei Greci, per cui prova profonda ammirazione. L'azione globalizzante di Alessandro partirebbe quindi da un'identità indeterminata in cerca di determinazione.
Qualcosa di simile accade, nuovamente ad Alessandro, dopo la conquista della Persia, quando nuovamente, giunto alla conoscenza di una civiltà molto diversa dalla sua e da ogni suo sospetto, Alessandro cerca di accreditarsi come degno di questa nuova cultura, assumendone caratteristiche, modi, temi, in un processo sincretistico che troverà un esito solo nella morte del re.
Quello che rimane dell'opera di Alessandro, più che la memoria delle sue battaglie, sono le conseguenze della sua opera globalizzante: lo sviluppo tecnologico d'epoca ellenistica, la nascita di nuovi mercati e di nuove tratte commerciali lungo il Mediterraneo e non solo, la diffusione della lingua e della cultura greca fino ai confini della Cina. Esiti, tutti, ancora oggi alla base della moderna cultura europea.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....