venerdì 31 maggio 2013
Mondo Padano del 31/05/2013 parla della Webzine delle classi del Liceo Artistico di Crema
lunedì 27 maggio 2013
L'imbroglio di chi parla d'imbroglio dei testi digitali. Conclusioni su un anno di Generazione Web
Di preciso, leggendo l'intervento di Davide Rossi, vengono in mente le seguenti obiezioni:
- Si lamenta che dei libri digitali vengono acquistate le licenze d'uso, che possono durare tempi limitati. La domanda è, dov'erano gli insegnanti quando hanno approvato il progetto Generazione Web nelle singole scuole? A che serve, a che pro il lamentare una propria ignoranza? Perché approvare qualcosa che non si conosce approfonditamente e poi lamentarsene è solo simbolo di dabbenaggine.
- Vero è che i libri forniti spesso sono stati dei meri PDF, ma con le opportune applicazioni anch'essi sono comunque editabili. Detto questo, non è che chi condanna l'uso del tablet perché costringerebbe ad essere concentrati sul mezzo più che sul fine, a sua volta non fa altro che concentrarsi sullo strumento didattico, l'unico che conosce, il libro di testo cartaceo, senza alcuna minima voglia di sperimentare o di scoprire che la conoscenza sta fuori da quelle pagine rassicuranti?
- E così giungiamo all'ultimo punto. Ci si lamenta della scarsa multimedialità di questi testi digitali, demandando allora all'uso di risorse come Wikipedia, che si ignora essere non una fonte ma un contenitore di fonti; ci si lamenta poi dell'impossibilità di un mercato di seconda mano di tali testi digitali. Vale qui ricordare che il testo scolastico è coperto da diritti d'autore, che dietro di esso non c'è solamente un lavoro di collazione, ma dovrebbe esserci sempre un approfondito lavoro di ricerca; consigliare quindi un mercato dell'usato per i testi scolastici vuol dire favorire l'evasione del diritto d'autore di chiunque abbia lavorato a questi testi, oltre a favorire pratiche dannose per la didattica (sappiamo tutti che l'alunno che usa un testo già sottolineato avrà la tendenza ad appiattirsi sul lavoro svolto da qualcun altro). Inoltre, vista la duttilità del mezzo informatico, perché i docenti non approntano, come si fa in molte scuole, un loro testo? Le possibilità non mancano, i mezzi pure, le fonti in rete sono moltissime, e di certo un insegnante che sia tale, in team ad esempio nei dipartimenti per materie, dovrebbe avere la capacità e la possibilità di andare a costruire un testo ritagliato sulle esigenze della propria classe.
Ma a questo punto emerge l'arcano: la scarsa volontà di mettersi in gioco dei docenti che lamentano uno strumento che non vogliono imparare a conoscere e ad adoperare. In un anno di sperimentazione con il testo digitale nelle mie classi abbiamo dovuto metterci tutti in gioco, alunni e docente. Abbiamo tentato di approntare strategie diverse, abbiamo usato modalità d'apprendimento tipiche del learning by doing, le webquest, abbiamo vagliato le fonti in rete, realizzazto una webzine, approntato due saggi in formato epub; abbiamo adoperato mezzi sostitutivi del testo digitale, presentazioni, slides, condiviso materiali in rete, realizzato i podcast delle lezioni frontali per renderle fruibili agli alunni assenti o con disturbi dell'apprendimento; senza con questo escludere a priori anche l'uso del testo scolastico tradizionale e di quelli cartacei. I risultati sono stati migliori nelle classi più aperte alla sperimentazione, lì dove il consiglio di classe non si è spaccato in una polemica controproducente fra favorevoli e contrari, ma si è impegnato nel far comprendere ai discenti che queste modalità d'apprendimento, con la giusta motivazione, possono essere proficue quanto, se non di più, modalità d'insegnamento più tradizionali.
domenica 26 maggio 2013
Khan accademy, materiali per il flipped learning
Khan accademy è il portale che racchiude video, prodotti da insegnanti, per la gran parte in lingua inglese, immaginati e realizzati per il flipped learning, quella particolare modalità didattica che prevede un'inversione nelle normali abitudini didattiche scolastiche; nel caso del flipped learning l'insegnante demanda la spiegazione dell'argomento della lezione ad un video introduttivo che viene fruito dagli alunni a casa, e agisce da tutor in classe nell'applicazione di quanto imparato in azioni didattiche mirate, quali giochi di ruolo, attività di collaborazione eccetera.
OVOpedia, enciclopedia video
OVOpedia è una piccola enciclopedia multimediale che permette l'accesso a dei brevi video, di circa tre minuti, su numerosi argomenti culturali che spaziano dalle scienze esatte a le scienze umane. Il sito si rivela utile per rapidi ripassi su argomenti noti o già trattati.
TED, portale di conferenze
Zunal, risorsa per le webquest
venerdì 24 maggio 2013
Joseph Heller, Comma 22
«"Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo".»
Comma 22 è letteralmente un libro paradossale; nel senso che tutta la vicenda narrata magistralmente da Heller si fonda su dei paradossi. Yossarian, il protagonista, partecipa alla Seconda Guerra Mondiale arruolato nell'aviazione americana. Le vicende in cui il protagonista è coinvolto si svolgono in Italia, tra Roma, Parma, Ferrara, Bologna, sino ad Avignore e all'Africa. Yossarian e i suoi compagni si troveranno ad affrontare situazioni sempre più paradossali, in cui la follia e le nevrosi umane si susseguono in un gioco comico e tragico ad un tempo.
Su tutto, dicevamo, regna il paradosso. Yossarian vuole e non vuole scappare dal fronte italiano, può e non può ad un tempo. Yossarian, come il suo compagno Nately, ama e non ama; l'uno prova un sentimento che un altro narratore avrebbe definito come amore nei confronti della Nurse Ducket, l'altro, il giovane Nately, nei confronti di una puttana romana, senza essere ricambiato fin quasi alla conclusione della vicenda. Dunbar, amico di Yossarian, è malato e non lo è; Orr è un pilota talmente incapace da essere sempre abbattuto durante le missioni, ma è talmente capace da essere l'unico in grado di fuggire dal fronte. Milo, il dispensiere, è l'uomo più importante sul fronte di guerra, tanto da gestire l'import-export tra gli USA e il resto del mondo, assoggettando al suo volere colonnelli e generali.
Comma 22 è il romanzo della follia umana: Yossarian è pazzo e non lo è; solo se potrà dimostrare di essere pazzo potrà lasciare il campo di battaglia, ma dimostrando la sua follia mostrerà anche la sua lucidità, impedendo così di essere dispensato dalla guerra.
La follia della guerra, con i suoi generali e colonnelli che pur di guadagnare prestigio e potere aumentano di volta in volta il numero delle missioni necessarie ai propri sottoposti per poter tornare a casa, organizzano marce per vittorie inesistenti, mandano sl macello i propri caccia per poter scattare delle belle foto panoramiche.
Il romanzo del degrado: il degrado di uomini che vinti dalla follia e dalle loro stesse nevrosi sono prigionieri di un carcere che essi stessi non riconoscono, di una legge, il comma 22, che tutto permette al forte perché talmente inconsistente da essere incontestabile. In questo degrado le strade di Roma diventano allegoria del degrado morale dell'uomo che perde la propria capacità di guardare alle cose per quello che sono e non per quello che appaiono, e in questo degrado Yossarian che vuole essere pazzo è l'unico uomo sano, l'uomo che redime il cappellano dalla sua ignavia, l'unico che riconosce le capacità di Orr, l'unico a mantenere l'umanità per vedere il morto che per tutto il romanzo sarà suo compagno di tenda e che l'esercito americano volutamente ignora per non dover dare dispaccio di un fallimento.
Un romanzo geniale, la cui struttura concentrica, labirintica, spiraliforme, in cui tutto si tiene in un caotico avvolgersi porta il lettore prima a ridere crudamente delle miopie umane, sino però a toccare il fondo del senso doloroso del tragico.
giovedì 23 maggio 2013
Considerazioni sul rapporto tra generazioni in Italia
A sentire i quaranta/cinquanta/sessantenni italiani sembra tutto chiaro: la colpa dello sfascio di questo paese è tutto di quelli, di quegli adolescenti venuti su a smartphone e tablet, informatica a gogo, senza saper né leggere né scrivere, senza nozioni di matematica e scienze.
Per carità, sarà anche vero che gli adolescenti sono così, anche se non ci credo; ammettiamo pure abbiano ragione. Ma chi li ha educati così? Si sono autogenerati questi adolescenti e questi trabiccoli elettronici? Sono esseri animati questi strumenti tali da costringere come schiavi i giovani ad una colpevole sudditanza?
O forse dobbiamo essere onesti: dobbiamo dirci chiaramente che la generazione dei quaranta/cinquanta/sessantenni italiani è stata essa imbelle, irresponsabile, gaudente, ignorante e supponente. Forse dobbiamo anche dirci che il 40% degli italiani adulti, quelli che i tablet non li vogliono vedere, non sanno che il sole è una stella, non sanno collocare sulla cartina la Basilicata, non leggono più di tre libri all'anno (in questo caso la percentuale aumenta ancora) e le loro competenze linguistiche sono fra le più basse d'Europa, senza che possano nascondersi dietro la scusa dell'emigrazione; forse dobbiamo anche dirci che queste generazioni sono quelle che hanno creato il buco delle finanze dello stato, hanno diffuso il malcostume dell'egocentrismo sfrenato, soffrono di una indomabile incapacità di autovalutazione, hanno problemi francamente sconcertanti con la logica formale, che il più delle volte ignorano. Forse dobbiamo anche dirci che queste generazioni soffrono di un diffuso complesso di Peter Pan, non sono capaci di assumersi le loro responsabilità nel declino di uno stato, il nostro, e cercano un capro espiatorio in ciò che non capiscono e non vogliono capire.
Per carità, parliamo sempre di generalizzazioni. Ma una volta tanto, bisogna onestamente dirlo, avete rotto il cazzo con la retorica del si stava meglio quando si stava peggio.
Distanze, Sebastiano Valentino Cuffari
B. un giorno deve partire, va a trovare un amico che non vede da tempo, un compagno di studi dei tempi dell’università. B. è indeciso, non sa se portare con sé anche A.. In fondo si conoscono da poco, si dice, forse è meglio aspettare.
Quando raggiunge il supermercato, A. si accorge della massa di gente che lo affolla, istantaneamente sospira, smarrito. Si aggira svogliato fra i reparti seguendo un percorso mistico che lo guida dai detersivi ai surgelati passando per il pannolini e i proteggi slip. Quando vede un ragazzino cadere di fronte a sé, si ferma, stupito, ad osservarlo, prima di porgergli una mano per risollevarsi.
mercoledì 22 maggio 2013
I mali della scuola pubblica italiana, guardati dall'estero
Mike Flor scrive
May 13 2013: I'm from Italy. There are a lot of problems concerning education. As far as I can tell, the most compelling ones are:
1)Teachers. Their status is getting lower and lower. They receive one of the lowest salaries among developed countries, and they are often called "slackers" by a big part of the general population (often small entrepreneurs) and sometimes even by members of the governing body. If we want our professors to be motivated, this attitude must change.
-Complete lack of feedback. One of the things that emerged from Bill Gates and Ken Robinson's talk, is the fact that the best students come from countries where a feedback system has been implemented. Teachers watch each other's lessons, and then they suggest their colleagues what they should do to improve their performances with their students. Nothing of that sort exists here.
2)Study programmes. One day a Canadian friend of mine came over to visit me and he was just baffled to the amount of homework I have to endure. Italian school system makes its students spend much more time in school than other OCSE members, and the results are anyway poor, and they have gotten increasingly worse over the years according to PISA tests http://en.wikipedia.org/wiki/Programme_for_International_Student_Assessment. That is also because the students cannot really focus on important things to learn, so the often end up studying bad, or not studying at all.
3)Private schools. This is a real scourge. There are a lot of rich and incredibly lazy students who attend those schools, the only thing they have to do to pass is to pay their dues. This is incredibly unfair. Since you can also catch up with the years you have lost when you fail to pass in public school. In just one year you can catch up 3 years, and then you are back in your old classroom, with your old mates and the teachers who once flunked you.
4)Disastrous cutback. Billion of euros have been cut back in recent years. This has led to make everything even worse
martedì 21 maggio 2013
TED Talks Education
lunedì 20 maggio 2013
Scrivere open, le migliori suite office opensource e gratuite
Prendendo spunto da quanto scritto oggi riguardo alla cronica dipendenza da Microsoft Office nella nostra amministrazione pubblica, scuola compresa, sembra il caso di citare le migliori suite office, opensource o gratuite, che la rete ci mette a disposizione. caratteristica di queste suite, in particolare, dovrà essere l'essere multipiattaforma, ovvero il garantire un supporto su più sistemi operativi desktop, e il poter permettere una compatibilità il più alta possibile fra i formati. Al riguardo le alternative non mancano.
In primis partiremo con LibreOffice, erede della conosciutissima OpenOffice, ne riprende lo stile grafico e la completezza. LibreOffice appare oggi la suite da ufficio più completa, offrendo il supporto ad un amplissimo raggio di formati e la quasi totale compatibilità con tutte le versioni di Microsoft Office. Tutto ciò in salsa opensource e grauita.
Un'altra suite da lavoro molto conosciuta in ambiente linux è senz'altro Calligra, legata al desktop KDE, questa suite è in continua evoluzione e promette di diventare nel prossimo futuro sempre più completa e gradevole da usare.
Un'altra suite da ufficio completa e gratuita è la cinesissima, ma anche in lingua inglese, Kingsoft Office, multipiattaforma, tanto da coprire anche l'ambiente android. L'unico svantaggio attuale, oltre a qualche errore di gioventù di questo prodotto, sta nello scarso supporto ai diversi formati, attenendosi ai semplici formati office 2003.
Quando la scuola lavora per Microsoft, ovvero, se l'INVALSI non è Open
Già più volte ho segnalato su questo blog come la digitalizzazione della scuola pubblica sembri procedere senza un progetto chiaro o delle linee guida semplici e inappuntabili. Ciò malgrado vanno riconosciuti i meriti di alcune iniziative, come la più volte citata Generazione Web, o l'azione degna di lode di tutte quelle scuole che hanno deciso di autoprodurre i propri libri di testo. Ciò malgrado, dicevo, di tanto in tanto giungono chiari segnali, o dalle case editrici o dallo stesso Ministero, di incompetenza, se non di tentantivi di approfittare della situazione.
Non mi scaglierò contro l'INVALSI come molti: certo, l'istituto va rivisto, così com'è è davvero poco utile se non per attacchi ideologici e localistici, ma uno strumento per una valutazione oggettiva degli insegnamenti in Italia è necessario, e al riguardo il nostro ritardo è cronico. Certo, se all'INVALSI, già così contestato, aggiungiamo l'incompetenza informatica di chi lo gestisce...
È o dovrebbe essere risaputo che la pubblica amministrazione, per legge e per richiesta dell'UE, dovrebbe adoperare software aperto e standard aperti per la propria documentazione. Così però non avviene con le griglie di valutazione delle prove INVALSI, spedite dal Ministero alle singole scuole sotto forma di Macro Excel, non funzionanti se non con Microsoft Office. Per inciso, solo con Office 2003 nella mia esperienza, ovvero una versione pure datata, adoperando tra l'altro un protocollo ormai superato dalla stessa casa produttrice e detentrice dei diritti. Insomma, un fallimento su tutta la linea, soprattutto se si pensa alla necessità di trasparenza della Pubblica Amministrazione e alla richiesta sempre più pressante di competenze informatiche da parte dei docenti (si veda al riguardo il regolamento dell'ultimo concorso a cattedra per docenti).
domenica 19 maggio 2013
Il Silmarillion, J. R. R. Tolkien
Il Silmarillion è forse l'opera più complessa fra i testi principali di Tolkien, apparendo quasi come una sorta di canovaccio o di Bibbia del complesso mondo creato dall'autore inglese. Di fatto l'opera nasce dalla collazione di diversi manoscritti da parte del figlio dell'autore, Christopher, il quale con un lungo lavoro filologico ha ricostruito quelle che sono le vicende più importanti della Terra di mezzo a partire dalla Prima era sino alla conclusione della Terza, quella, per intenderci, che si chiude con la partenza delle ultime navi degli elfi assieme a Frodo Baggins e Gandalf. Nel mezzo vediamo un susseguirsi di eroi, vicende epiche e tragiche, spesso a stent sbozzate, in altri casi raccontate con discreta attenzione, tali comunque da lasciare il lettore sempre sorpreso e ammaliato.
Certo il Silmarillion è l'opera più difficile di Tolkien, proprio per la sua stessa genesi: ugualmente le vicende degli elfi, di Feanor e dei suoi Silmaril, di Morgoth e della sua caduta, causa della discesa del male nel mondo, tutto l'insieme di archetipi, simboli e miti che Tolkien con abilità incastona nella sua mitologia, creano un'atmosfera magica tale da costringere alla lettura e a perdersi, non senza acquistare poi come in dono una maggiore consapevolezza.
Lo hobbit, J. R. R. Tolkien
Il signore degli anelli, J. R. R. Tolkien
Il signore degli anelli è l'opera più conosciuta di J. R. R. Tolkien. Il romanzo, diviso per motivi editoriali in tre volumi, narra di Frodo Baggins e della Compagnia dell'anello e della loro missione, distruggere l'anello del potere con cui il terribile Sauron, l'artefice dell'anello, brama di conquistare e sottomottere l'intera Terra di mezzo.
La trama del romanzo parte, certo, da premesse fiabesche, non per niente il Signore degli anelli nasce come seguito di una fiaba, il Lo Hobbit, ma ne prende ben presto le distanze per assurgere a tutti gli effetti alle altezze dell'epica.
Sia chiaro, si tratta, forse al di là di ogni volontà dell'autore, di un'epica moderna; i grandi personaggi, molto più che in ogni altra opera di Tolkien, sono qui votati al fallimento. Nel Signore degli anelli la ribalta è degli umili, di coloro che accettano incondizionatamente il loro destino. Che sia Frodo Baggins, il portatore dell'anello lungo un percorso di perdizione e salvezza, fino al fallimento finale; che si tratti di Samvise Gamgee, il contraltare del suo padroncino Frodo, tanto umile da sapere di non poter essere lui il portatore; che si tratti di Faramir, il condottiero destinato ad un destino di second'ordine e che proprio per questo diviene paladino dei più deboli; che si tratti infine del mago Gandalf, non il più potente dei maghi, semplicemente il più umano nella sua alterigia.
Certo non mancano i campioni da poema epico: Aragorn e Boromir su tutti, speculari nel loro percorso; ma essi sono qui personaggi secondari, le ultime memorie di un epos che non può più esistere.
Su tutto campeggia una provvidenza che non è mai del tutto conoscibile nel suo agire: una provvidenza, certo, di origine cristiana, ma che del paganesimo ha una sorta di malinconia sfuggente, malinconia che si palesa nell'impossibilità per il portatore di tollerare a lungo la memoria del suo percorso, tanto da partire, in conclusione, assieme agli ultimi elfi verso terre ignote al resto della Terra di mezzo.
Dell'epica non rimarrà che il ricordo nelle cronache del buon Samvise, seduto, ormai maturo, nella dimora presso cui avrà fatto ritorno.
venerdì 17 maggio 2013
Joseph Heller, Comma 22, la cantina
Capitolo 36.
LA CANTINA.
La morte di Nately fu un colpo mortale per il cappellano. Il cappellano Shipman era seduto nella sua tenda, leggendo certe sue carte, con gli occhiali sul naso, quando suonò il telefono e gli fu data la notizia dall'aeroporto della collisione fra i due aerei. Le budella gli diventarono in un attimo di argilla secca. La mano con cui posò la cornetta del telefono tremava. Anche l'altra mano cominciò a tremargli. Il disastro era troppo immenso per considerarlo con calma. Dodici uomini morti... una cosa spaventosa, orrenda, semplicemente orrenda! Sentì crescere in sé un sentimento di terrore. Istintivamente pregò che Yossarian, Nately, Hungry Joe e gli altri suoi amici non si trovassero nella lista delle vittime, poi si rimproverò pentito, perché pregare per la loro salvezza equivaleva a pregare per la morte di altri giovani, che non conosceva nemmeno. Era troppo tardi per pregare; eppure non c'era altro ch'egli sapesse fare. Il cuore gli picchiava con un tonfo che sembrava rimbombasse da qualche luogo fuori dal suo corpo, ed egli si rese conto che non si sarebbe mai più seduto nella poltrona di un dentista, non avrebbe mai più guardato un coltello di chirurgo, mai più assistito a un incidente automobilistico o udito una voce gridare nella notte, senza sentire di nuovo quel tonfo violento nel petto, senza provare lo stesso timore della morte vicina. Non avrebbe mai più osservato una battaglia a pugni senza temere di perdere i sensi e di spaccarsi il cranio nel cadere sul selciato, o soffrire un fatale attacco di cuore o una emorragia cerebrale. Si chiese se avrebbe mai più visto sua moglie o i suoi tre figlioletti. Si chiese se avrebbe mai "dovuto" rivedere sua moglie ora che il capitano Black aveva radicato nella sua mente forti dubbi sulla fedeltà e la forza di carattere delle donne. C'erano così tanti altri uomini, pensò, che potevano soddisfare molto più pienamente sua moglie, dal punto di vista sessuale. Ora, quando pensava alla morte, pensava sempre a sua moglie, e quando pensava a sua moglie pensava sempre che l'avrebbe persa.
Dopo un minuto o due il cappellano si sentì abbastanza in forze per alzarsi e recarsi, con cupa riluttanza, nella tenda vicina a chiamare il sergente Whitcomb. Il cappellano chiuse le mani a pugno per evitare che tremassero, mentre le teneva appoggiate in grembo. Strinse i denti e cercò di non ascoltare i commenti soddisfatti ed esultanti del sergente Whitcomb sul tragico incidente. Dodici morti significavano dodici lettere di condoglianze in più, da spedire con la firma del colonnello Cathcart, tutte insieme, ai parenti più prossimi dei deceduti. Il sergente Whitcomb poteva sperare di far uscire un articolo sul colonnello Cathcart nella "Saturday Evening Post" prima di Pasqua.
All'aeroporto c'era un pesante silenzio, che soffocava ogni movimento, come se un incantesimo crudele e insensato si fosse impossessato dei soli esseri che avrebbero potuto interromperlo. Il cappellano era in preda a un timore reverenziale. Non aveva mai contemplato prima una immobilità così grande, così spaventosa. Quasi duecento uomini stanchi, sparuti, abbattuti erano affollati all'entrata della sala istruzioni, con in mano il rotolo del paracadute, tetri, immobili, con i visi girati vuotamente, secondo angoli diversi di attonito stupore. Sembrava non avessero la volontà di allontanarsi, che fossero incapaci di muoversi. Mentre si avvicinava, il cappellano era acutamente conscio del rumore che facevano i suoi passi. Con gli occhi cercò velocemente, freneticamente, in mezzo alla massa confusa delle figure piegate. Finalmente scorse Yossarian e provò un sentimento di gioia immensa, ma poi la bocca gli si aprì lentamente in una smorfia di orrore insopportabile quando osservò il viso di Yossarian, vividamente, tormentosamente segnato da una disperazione profonda e stupefatta. Capì subito, indietreggiando per il dolore e scuotendo il capo con un gesto assurdo di protesta e implorazione, che Nately era morto. E ogni speranza di essersi sbagliato fu annullata quando udì il suono del nome di Nately che emergeva con ripetuta chiarezza al di sopra del balbettio confuso delle voci, del mormorio di cui prima non si era per niente accorto. La consapevolezza lo lasciò paralizzato per il terrore. Non riuscì a reprimere un singhiozzo. Nately era morto. Il sangue cessò di circolargli nelle gambe, e temette di cadere. Nately era morto: il ragazzo era stato ucciso. Un gemito confuso si formò nella gola del cappellano, cominciarono a tremargli le mascelle. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, stava piangendo. Cominciò a dirigersi verso Yossarian, in punta di piedi, per piangere al suo fianco e partecipare al suo muto dolore. In quel momento una mano l'afferrò ruvidamente attorno a un braccio e una voce brusca gli domandò:
«Il cappellano Shipman?»
Si volse sorpreso e si trovò di fronte un colonnello robusto e pugnace con la testa larga, dei gran baffi e una pelle liscia e florida. Non aveva mai visto quell'uomo prima di allora. «Sì. Cosa c'è?» Le dita che gli stringevano il braccio gli facevano male, ed egli cercò invano di liberarsene con uno strattone.
«Venga con noi.»
Il cappellano indietreggiò confuso e spaventato. «Dove? Perché? E lei chi è, di grazia?»
«E' meglio che ci segua, Padre,» sull'altro fianco gli comparve un maggiore magro, dal naso aquilino, che intonò con reverente dolore: «Siamo inviati del governo. Vogliamo farle delle domande»
«Che specie di domande? Cosa è successo?»
«Lei non è il cappellano Shipman?» domandò l'obeso colonnello. «Sì, è lui,» rispose il sergente Whitcomb.
«Vada con loro,» gli gridò il capitano Black con un sogghigno ostile e sprezzante. «Salga sull'automobile se non vuoi finire male.»
Delle mani stavano trascinando via irresistibilmente il cappellano. Egli avrebbe voluto invocare a gran voce l'aiuto di Yossarian, ma questi sembrava troppo lontano perché lo potesse sentire. Alcuni degli uomini ch'erano lì vicino già cominciavano guardare verso di lui con crescente curiosità. Il cappellano chinò il capo, rosso per la vergogna, e si lasciò spingere sul sedile di dietro di una macchina del comando, seduto in mezzo al colonnello grasso con la faccia larga e rosea e il maggiore sparuto, untuoso, malinconico. Automaticamente offerse un polso a ciascuno per un momento, nel caso volessero mettergli le manette. Un altro ufficiale si era già sistemato sul sedile davanti. Un alto agente della M.P., con un fischietto e un elmetto bianco, si mise al volante. Il cappellano non osò alzare gli occhi finché l'automobile chiusa non si fu allontanata velocemente dall'aeroporto, e le ruote cominciarono a fischiare sulla strada ricoperta di catrame e piena di buche.
«Dove mi state conducendo?» chiese con una voce resa sommessa dalla timidezza e dal senso di colpa, gli occhi tuttora abbassati. Gli passò per il cervello l'idea che lo ritenessero colpevole dell'incidente aereo e della morte di Nately. «Cosa ho fatto?»
«Perché non tieni la botola chiusa e le domande le lasci fare a noi?» disse il colonnello.
«Non parlargli in quel tono,» disse il maggiore. «Non è necessario trattarlo con irriverenza.»
«E allora digli di tenere la botola chiusa e le domande lasciarle fare a noi.»
«Padre, per favore tenga la botola chiusa e le domande le lasci fare a noi,» gli raccomandò il maggiore con molta comprensione. «Sarà meglio per lei.»
«Non c'è bisogno di chiamarmi Padre,» disse il cappellano. «Non sono cattolico.»
«Neppure io lo sono, Padre,» disse il maggiore. «E' che io sono una persona molto devota, e mi piace chiamare 'Padre' tutti gli uomini di Dio.»
«Non crede nemmeno che ci siano degli atei in trincea,» scherzò il colonnello, con una gomitata familiare nelle costole del cappellano. «Su, cappellano, diglielo. Ci sono degli atei in trincea?»
«Non lo so, signore,» rispose il cappellano. «Non sono mai stato in trincea.»
L'ufficiale seduto davanti girò il capo di colpo con un'espressione provocatoria. «Tu non sei mai stato neppure in cielo, non è vero? Ma lo sai che c'è il Paradiso, non è vero?»
«Oppure non lo sai?» disse il colonnello.
«E' una colpa molto grave quella che ha commesso, Padre,» disse il maggiore.
«Quale colpa?»
«Non lo sappiamo ancora,» disse il colonnello. «Ma lo scopriremo presto. E non c'è dubbio che sia molto grave.»
L'automobile prese una strada laterale che conduceva al Quartier Generale di gruppo, con uno stridore di ruote in curva, diminuendo l'andatura solo di poco, poi oltrepassò il parcheggio e si fermò sul retro dell'edificio. I tre ufficiali e il cappellano scesero dall'automobile. In fila indiana, fecero scendere il cappellano per una rampa dondolante di scalini di legno e lo fecero entrare in una stanza umida e tetra dello scantinato, con un soffitto di cemento e dei muri di pietra nuda. In ogni angolo c'erano delle ragnatele. Un enorme centopiedi attraversò di corsa la stanza e andò a rifugiarsi dietro un tubo dell'acqua. Fecero sedere il cappellano su una sedia dura, dallo schienale rigido, che stava accanto a un piccolo tavolo di legno ruvido.
«Prego, accomodati, cappellano,» gli disse il colonnello con un invito cordiale, e accese una lampada accecante dirigendone il raggio dritto negli occhi del cappellano. Posò sul tavolo un paio di pugni di ferro e una scatola di fiammiferi di legno. «Vogliamo che ti senta a tuo agio.»
Il cappellano spalancò gli occhi, incredulo. I denti gli battevano e gli sembrava che le sue membra si fossero completamente svuotate di ogni energia. Non aveva più forza. Avrebbero potuto fargli qualsiasi cosa, pensò; questi uomini brutali avrebbero potuto picchiarlo a morte lì in quella cantina, e nessuno sarebbe intervenuto a salvarlo, nessuno forse, a eccezione del maggiore devoto e comprensivo dal viso affilato, che aperse un rubinetto e lo fece sgocciolare con un suono monotono e forte dentro il lavandino, e poi tornò verso il tavolo, su cui posò, accanto ai pugni di ferro, dei pesanti manicotti di gomma.
«Andrà tutto bene, cappellano,» disse il maggiore facendogli coraggio. «Non c'è nulla che lei debba temere se non è colpevole. Perché ha tanta paura? Non sarà per caso colpevole, eh?»
«Certo che è colpevole,» disse il colonnello. «Sicuro come esiste l'inferno.»
«Colpevole di che cosa?» implorò il cappellano, che si sentiva sempre più confuso e non sapeva a quale dei tre uomini rivolgersi per implorare pietà. Il terzo ufficiale non portava alcun grado e stava da un lato, in agguato. «Cosa ho fatto?»
«E' proprio quello che vogliamo sapere,» rispose il colonnello, e spinse un notes e una matita attraverso il tavolo fin davanti al cappellano. «Scrivi il tuo nome su lì, per favore. Con la tua calligrafia.»
«La mia calligrafia?»
«Proprio così. Su questa pagina, dove preferisci.» Quando il cappellano ebbe finito, il colonnello prese il notes e lo osservò, mettendolo accanto a un foglio di carta che estrasse da una cartella. «Visto?» disse al maggiore, che gli si era messo al fianco e stava guardando gravemente il notes da dietro le sue spalle.
«Non è la stessa calligrafia, non è vero?» azzardò il maggiore.
«Te l'avevo detto che era stato lui.»
«A far che cosa?» chiese il cappellano.
«Cappellano, questa è una brutta sorpresa per me,» lo rimproverò il maggiore con un'aria di profondo dolore.
«Che cosa?»
«Non posso dirle quanto io sia deluso.»
«Per che cosa?» insistette il cappellano ancora più agitato. «Cosa ho fatto?»
«Ecco,» rispose il maggiore e, con un'espressione di delusione e di disgusto, fece cadere sul tavolo il notes su cui il cappellano aveva scritto il suo nome. «Questa non è la sua calligrafia.»
Il cappellano sbatté gli occhi più volte per lo sbalordimento. «Ma certo che è la mia calligrafia.»
«No, che non lo è, cappellano. Lei sta mentendo di nuovo.»
«Ma se l'ho appena scritto io stesso!» gridò il cappellano esasperato. «M'avete visto tutti mentre l'ho scritto.»
«Appunto,» rispose il maggiore amareggiato. «Ho visto io stesso mentre lo scriveva. Non può negare di averlo scritto. Una persona che è disposta a mentire quando si tratta della sua calligrafia è disposta a mentire in qualsiasi circostanza.»
«Ma chi ha mentito riguardo alla mia calligrafia?» domandò il cappellano, dimenticando il suo timore nell'ondata di rabbia e indignazione che salì improvvisamente dentro di lui. «Siete matti o che cosa? Di cosa state parlando voi due?»
«Le abbiamo chiesto di scrivere il suo nome colla sua calligrafia. E lei non l'ha fatto.»
«Ma certo che l'ho fatto. E di chi sarebbe quella calligrafia se non è la mia?»
«Di qualcun altro.»
«Ma chi?»
«Questo lo stabiliremo immediatamente,» minacciò il colonnello.
«Parli, cappellano.»
Il cappellano guardava ora l'uno ora l'altro ufficiale con crescente dubbio e irritazione. «Questa calligrafia è la mia,» sostenne con passione. «E dove mai sarebbe la mia calligrafia, se non è questa?»
«Qui,» rispose il colonnello. E con un'aria di grande superiorità, buttò sul tavolo una copia fotostatica di un pezzo di carta da lettera militare sulla quale era stato cancellato tutto eccetto l'inizio «Cara Maria», e sulla quale l'ufficiale addetto alla censura aveva scritto: «Ti bramo tragicamente. R. O. Shipman, cappellano, esercito degli Stati Uniti». Il colonnello fece un sorriso di scherno quando vide che il cappellano arrossiva nel leggerla. «Bene, cappellano? Sai chi ha scritto questa lettera?»
Il cappellano indugiò a lungo prima di rispondere; aveva riconosciuto la calligrafia di Yossarian. «No.»
«Ma puoi leggere, non è vero?» insistette il colonnello sarcasticamente. «L'autore ha apposto la propria firma.»
«C'è il mio nome in calce.»
«E allora l'hai scritta tu. C.V.D.»
«Ma non l'ho scritta io. E questa non è la mia calligrafia.»
«Quindi anche allora hai firmato il tuo nome colla calligrafia di qualcun altro,» ribatté il colonnello con un'alzata di spalle. «Ecco tutto.»
«Oh, ma questo è ridicolo!» gridò il cappellano, perdendo improvvisamente la pazienza. Saltò in piedi con una vampata di furia, i pugni chiusi. «Non ho nessuna intenzione di sopportare questa commedia più a lungo! Avete capito? Dodici uomini sono appena stati uccisi, e io non ho tempo per queste stupide domande. Non avete alcun I diritto di tenermi qui, e non lo sopporterò più a lungo.»
Senza dire una parola, il colonnello diede uno spintone nel petto al cappellano e lo fece cadere di nuovo sulla sedia. D'improvviso il cappellano si sentì di nuovo debole, di nuovo molto impaurito. Il maggiore prese in mano il lungo manicotto di gomma e cominciò a batterlo minacciosamente sulla palma aperta di una mano. Il colonnello raccolse la scatola di fiammiferi, ne prese uno e lo appoggiò contro il pezzetto di carta vetrata, in attesa del primo segno di sfida che venisse dal cappellano. Questi era pallido e quasi paralizzato, incapace di muoversi. Dopo un po' fu incapace di sostenere più a lungo la luce abbagliante della lampadina e si volse da una parte; il rubinetto d'acqua sgocciolante era sempre più forte, e lo irritava in modo quasi intollerabile. Desiderò che gli dicessero almeno cosa volevano ch'egli confessasse. Rimase teso nell'attesa mentre il terzo ufficiale, obbedendo a un segnale del colonnello, si avvicinò lentamente e si sedette sul tavolo a pochi centimetri di distanza dal cappellano. Il suo viso non aveva espressione, i suoi occhi erano freddi e penetranti.
«Spegni la luce,» disse con un cenno del capo all'indietro, con una voce bassa e calma. «Dà molto fastidio.»
Il cappellano gli offerse un leggero sorriso di gratitudine. «Grazie, signore. E anche il rubinetto, per favore.»
«Lascia stare il rubinetto,» disse l'ufficiale. «Quello non mi dà fastidio.» Tirò su un poco i pantaloni, per preservarne la piega impeccabile. «Cappellano,» chiese casualmente, «lei a che fede religiosa appartiene?»
«Sono anabattista, signore.»
«E' una religione molto sospetta, non è vero?»
«Sospetta?» chiese il cappellano con una specie di innocente stupore. «Perché mai, signore?»
«Be', io non ne so niente degli anabattisti. Questo dovrà ammetterlo. E non le sembra una cosa molto sospetta?»
«Non so, signore,» rispose diplomaticamente il cappellano, balbettando per la confusione. La mancanza di gradi sul colletto di quell'ufficiale lo metteva a disagio. Non sapeva se doveva veramente dargli del «signore». Chi era costui in fondo? E che autorità aveva per interrogarlo?
«Cappellano, ai miei tempi io ho studiato latino. Credo che sia giusto che io lo avverta di ciò prima di porle la mia prossima domanda. La parola anabattista non significa semplicemente che lei non è un battista?»
«Oh, no, signore. La cosa è molto più complessa.»
«Lei è un battista?»
«No, signore.»
«E allora non è un battista, non è così?»
«Signore?»
«Non capisco perché vuoi disputare con me su questo punto. Lo ha già ammesso anche lei. Ora, cappellano, il dire che lei non è un battista non ci rivela nulla su quello che lei è veramente, o mi sbaglio? Lei potrebbe essere una cosa o una persona qualsiasi.» Si chinò in avanti un poco e assunse un'aria astuta e conoscitrice. «Lei potrebbe perfino essere,» aggiunse, «Washington Irving, non le pare?»
«Washington Irving?» ripeté sorpreso il cappellano.
«Andiamo, Washington,» intervenne molto irritato il colonnello. «Perché non ci spiattelli tutto? Lo sappiamo che sei stato tu a rubare quel pomodoro.»
Dopo un momento di shock, il cappellano fece un sorriso nervoso di sollievo. «Ah, è tutto qui!» esclamò. «Ora comincio a capire. Non ho rubato quel pomodoro, signore. Me lo ha dato il colonnello Cathcart. Potete chiederlo a lui, se non mi credete.»
Dall'altro lato della stanza si aperse una porta e il colonnello Cathcart entrò, come se uscisse da un armadio a muro.
«Salve, colonnello. Colonnello, il cappellano qui sostiene che glielo ha dato lei il pomodoro. E' vero?»
«E perché mai dovrei dargli un pomodoro?» rispose il colonnello Cathcart.
«Grazie, colonnello. Questo è tutto.»
«Ma s'immagini, colonnello,» rispose il colonnello Cathcart, e uscì dalla cantina, chiudendo la porta dietro di sé.
«Bene, cappellano. E ora cos'hai da dirci?»
«Me lo ha dato lui!» disse il cappellano, con un sussurro ch'era al tempo stesso fiero e fremente. «Me lo ha dato lui!»
«Non vorrà accusare un ufficiale superiore d'essere un bugiardo, ora, cappellano?»
«Perché un ufficiale superiore dovrebbe darle un pomodoro, cappellano?»
«E' per questo che hai cercato di liberartene e darlo al sergente Whitcomb, cappellano? Perché era un pomodoro rubato?»
«No, no, no,» protestò il cappellano, chiedendosi dentro di sé disperatamente perché non erano capaci di capire. «L'ho offerto al sergente Whitcomb perché non sapevo cosa farmene.»
«Perché l'hai rubato al colonnello Cathcart se non sapevi cosa fartene?»
«Non l'ho rubato al colonnello Cathcart!»
«E allora perché sei così colpevole, se non l'hai rubato?»
«Non sono colpevole!»
«E allora perché saremmo qui a interrogarti se non sei colpevole?»
«Oh, non so,» gemette il cappellano, intrecciandosi le dita in grembo e crollando il capo chino e angosciato. «Non so.»
«Crede che noi abbiamo tempo da perdere,» disse il maggiore spazientito.
«Cappellano,» riprese l'ufficiale senza gradi con un ritmo più tranquillo, estraendo un foglio dattiloscritto dalla cartella aperta. «Qui c'è una dichiarazione firmata del colonnello Cathcart in cui lei è accusato di avergli rubato un pomodoro.» Posò il foglio a faccia in giù sull'altro lato della cartella e prese un secondo foglio. «E qui c'è un "affidavit" autenticato del sergente Whitcomb in cui egli asserisce di aver capito che il pomodoro era rubato dal modo con cui lei ha cercato di disfarsene, regalandoglielo.»
«Giuro sul nome di Dio che non l'ho rubato, signore,» protestò il cappellano angosciato, quasi sul punto di piangere. «Le do la mia sacra parola che non era un pomodoro rubato.»
«Cappellano, lei crede in Dio?»
«Signorsì. Certo che ci credo.»
«Questo è molto strano, cappellano,» disse l'ufficiale, estraendo dalla cartella un altro foglio giallo dattiloscritto, «perché ho qui in mano un'altra dichiarazione del colonnello Cathcart in cui giura che lei ha rifiutato di cooperare con lui in un progetto di far recitare delle preghiere agli uomini prima di ogni missione.»
Dopo uno sguardo vuoto in avanti, il cappellano annuì più volte, ricordandosi di cosa si trattava. «Oh, ma questo non è vero, signore,» spiegò appassionatamente. «E' stato il colonnello Cathcart in persona a rinunciare all'idea, dopo essersi reso conto che i soldati semplici pregano lo stesso Dio degli ufficiali.»
«Dopo essersi reso conto "di che cosa"?» esclamò l'ufficiale, senza crederci.
«Che stupidaggini!» dichiarò il colonnello dal viso rosso, e si allontanò dal cappellano, mostrandosi offeso e irritato.
«Non si aspetterà che noi si creda a cose del genere?» gridò il maggiore, confermando la propria sfiducia.
L'ufficiale senza gradi fece un sogghigno acidulo. «Cappellano, non sta esagerando un poco?» gli domandò, e gli sorrise in modo che era al tempo stesso comprensivo e ostile.
«Ma signore, questa è la verità, signore! Giuro che è la verità.»
«Non vedo che importanza abbia se sia vero o no,» l'ufficiale rispose con noncuranza e si girò su se stesso per prendere un altro foglio dalla cartella aperta e piena di carte. «Cappellano, ha detto che lei crede in Dio, quando gliel'ho chiesto? Non ricordo bene.»
«Signorsì. Ho detto così. Io credo in Dio.»
«E allora è molto strano, cappellano, perché qui c'è un altro "affidavit" del colonnello Cathcart in cui si dichiara che lei una volta ha detto che l'ateismo non è contro la legge. Si ricorda di aver mai detto una cosa del genere a qualcuno?»
Il cappellano annuì senza esitazione, sentendosi su un terreno molto solido. «Signorsì, io ho fatto quella dichiarazione. L'ho fatta perché è vero. L'ateismo non è contro la legge.»
«Ma questa non è una buona ragione per dirlo, cappellano, non le pare?» lo rimproverò aspramente l'ufficiale, aggrottando la fronte, e prese un altro foglio dattiloscritto e autenticato dalla cartella. «E qui c'è un'altra dichiarazione giurata del sergente Whitcomb che dice che lei si è opposto al suo progetto di mandare lettere di condoglianze firmate dal colonnello Cathcart ai parenti più prossimi degli uomini uccisi o feriti in combattimento. E' vero, questo?»
«Signorsì, mi sono opposto,» rispose il cappellano. «E sono fiero di averlo fatto. Quelle lettere non sono né oneste né sincere. Il loro solo scopo è di dare prestigio al colonnello Cathcart.»
«Ma questo che differenza fa?» rispose l'ufficiale. «Esse portano ugualmente sollievo e conforto alle famiglie che le ricevono, non le pare? Cappellano, io non posso proprio capire il suo modo di pensare.»
Il cappellano rimase imbarazzato e del tutto incapace di rispondere. Chinò il capo, sentendosi ingenuo e muto.
Il grosso colonnello dal viso rosso gli si avvicinò sveltamente, preso da un'idea improvvisa. «Perché non gli spacchiamo quella testa maledetta?» suggerì agli altri con vigoroso entusiasmo.
«Sì, potremmo anche spaccargli quella testa maledetta,» il maggiore dal naso aquilino fu d'accordo. «In fondo è soltanto un anabattista.»
«No, prima dobbiamo decidere se è colpevole,» avvertì l'ufficiale senza gradi con un languido gesto per trattenerli. Si lasciò scivolare leggermente dal tavolo e gli girò intorno, mettendosi di fronte al cappellano con tutt'e due le mani appoggiate sul piano di legno, a palme in giù. La sua espressione era cupa e molto severa, diretta e minacciosa. «Cappellano,» annunciò con la rigidità di un magistrato, «l'accusiamo formalmente di essere Washington Irving e di essersi preso libertà capricciose e non autorizzate nello svolgere l'incarico di censurare le lettere degli ufficiali e dei soldati semplici. E' colpevole o innocente?»
«Innocente, signore.» Il cappellano si passò la lingua secca sulle labbra secche e si piegò in avanti, sedendo sull'orlo della sedia.
«Colpevole,» disse il colonnello.
«Colpevole,» disse il maggiore.
«E allora è colpevole,» osservò l'ufficiale senza gradi, e scrisse una parola su una pagina che era nella cartella. «Cappellano,» continuò, guardandolo negli occhi, «l'accusiamo inoltre di avere commesso reati e infrazioni di cui non siamo ancora a conoscenza. Colpevole o innocente?»
«Non so, signore. Come posso dirlo, se lei non mi spiega di che reati si tratta?»
«Come possiamo spiegarglielo se non lo sappiamo ancora?»
«Colpevole,» decise il colonnello.
«Certo che è colpevole,» fu d'accordo il maggiore. «Se sono i suoi reati e le sue infrazioni, deve essere stato lui a commetterli.»
«E allora colpevole,» proclamò l'ufficiale senza gradi, e si ritirò in un angolo della stanza. «Adesso è tutto per lei, colonnello.»
«Grazie,» lo encomiò il colonnello. «Ha fatto un lavoro magnifico.» Si rivolse al cappellano. «Okay, cappellano, siamo allo scotto. Va' a fare un giretto.»
Il cappellano non capì. «Cosa volete che faccia?»
«Via, battitela, t'ho detto!» ruggì il colonnello, agitando il pollice dietro le spalle, molto irritato. «Fuori di qui, al diavolo!»
Il cappellano rimase sbalordito per quelle parole e quel tono bellicoso, e, con sua sorpresa e perplessità, si sentì profondamente contrariato perché lo lasciavano andare. «Non avete intenzione di punirmi?» domandò in un tono di querula sorpresa.
«Non aver dubbio, mio caro, che ti puniremo. Ma non ti lasceremo stare qui in giro mentre decidiamo come e quando farlo. Perciò vattene. Gambe in spalla.»
Il cappellano si alzò incerto e fece qualche passo. «Sono libero di andare?»
«Per adesso sì. Ma non cercare di lasciare l'isola. Abbiamo il tuo numero, cappellano. E ricordati che ti teniamo d'occhio ventiquattro ore su ventiquattro.»
Non era concepibile che lo lasciassero andare. Il cappellano si diresse guardingo verso la porta, aspettandosi a ogni istante che lo richiamassero con un ordine perentorio o lo bloccassero con un colpo pesante sulle spalle o sul capo. Non fecero nulla per fermarlo. Attraversò i corridoi foschi, umidi, fradici e riuscì a trovare la rampa di scale. Era ansimante e barcollava quando uscì finalmente all'aria fresca. Non appena uscì da quell'incubo, un sentimento invincibile di dignità offesa gli riempì l'animo. Era infuriato, infuriato per le atrocità commesse contro di lui, infuriato come non lo era mai stato in vita sua. Attraversò a passi rapidi l'atrio spazioso e pieno di echi dell'edificio del Quartier Generale di gruppo, in preda a un risentimento bruciante e a un forte desiderio di vendetta. Non avrebbe tollerato oltre una cosa del genere, disse a se stesso, non lo avrebbe più tollerato. Ecco tutto. Quando raggiunse l'entrata, scorse, e fu felice della combinazione, il colonnello Korn che saliva trotterellando, da solo l'ampia scalinata. Armatosi di coraggio ed emettendo un lungo sospiro, il cappellano si avanzò intrepidamente per incontrarlo.
«Colonnello, non ho nessuna intenzione di tollerarlo ulteriormente,» dichiarò con veemente determinazione, e rimase costernato a guardare il colonnello Korn che continuava a salire le scale senza averlo neppure notato. «Colonnello Korn!»
La figura rotonda e alloffiata del suo ufficiale superiore si fermò, si girò indietro e tornò giù trotterellando. «Cosa c'è, cappellano?»
«Colonnello Korn, desidero parlarle a proposito dell'incidente di stamane. E' stata una cosa terribile, veramente terribile!»
Il colonnello Korn rimase silenzioso per un momento, osservando il cappellano con un breve lampo di cinico divertimento. «Sì, cappellano, è stato certamente terribile,» disse finalmente. «Non so come possiamo farne rapporto al comando senza farci una brutta figura.»
«Non è questo che voglio dire,» rimproverò il cappellano fermamente, senza una traccia di paura. «Alcuni di quei dodici ragazzi avevano già finito le loro settanta missioni.»
Il colonnello Korn rise. «Sarebbe stato meno terribile se fossero stati dei ragazzi appena arrivati?» domandò maliziosamente.
Una volta ancora il cappellano si sentì imbarazzato. Una logica immorale sembrava stesse lì pronta per confondergli le idee a ogni occasione. Quando riprese a parlare, era già meno sicuro di sé, e la voce gli tremava. «Signore, non è affatto giusto costringere gli uomini di questo gruppo a compiere ottanta missioni di volo quando quelli degli altri gruppi vengono mandati a casa dopo averne fatte cinquanta o cinquantacinque. «
«Prenderemo la sua osservazione in considerazione,» disse il colonnello Korn con annoiato disinteresse, e cominciò a salire di nuovo. «"Adios, Padre".»
«Questo cosa significa, signore?» insistette il cappellano con una voce che si faceva sempre più acuta.
Il colonnello Korn si fermò con un'espressione dispiaciuta e tornò giù d'uno scalino. «Significa che ci penseremo su, "Padre",» rispose con sarcasmo e disprezzo. «Non vorrà che prendiamo delle iniziative senza pensarci su, non le pare?»
«No, signore, credo di no. Ma lei ci ha pensato su veramente, non è vero?»
«Sì, "Padre", ci abbiamo pensato. Ma per farla felice, ci penseremo su ancora un po', e lei sarà la prima persona che informeremo quando prenderemo una decisione. E ora, "adios".» Il colonnello Korn si girò nuovamente sui tacchi e si avviò di corsa per le scale.
«Colonnello Korn!» Il grido del cappellano fermò di nuovo il colonnello Korn. Il suo capo si girò lentamente verso il cappellano con un'espressione di cupa impazienza. Le parole sgorgarono dalla bocca del cappellano come un nervoso torrente. «Signore, vorrei che lei mi permettesse di parlare della faccenda con il generale Dreedle. Desidero presentare le mie rimostranze al Quartier Generale della compagnia.»
Le guance spesse e scure del colonnello Korn si gonfiarono inaspettatamente, sopprimendo uno sbuffo, e tardò un momento a rispondere. «Faccia pure, "Padre",» rispose con allegria maliziosa, sforzandosi di mostrarsi impassibile in viso. «Ha il mio permesso di parlare col generale Dreedle.»
«Grazie, signore. Credo sia bene che le ricordi che ho qualche influenza sul generale Dreedle.»
«Ha fatto bene ad avvertirmi, "Padre". E credo sia bene che la avverta a mia volta che non troverà il generale Dreedle al Quartier Generale della compagnia.» Il colonnello Korn sogghignò malignamente e poi scoppiò a ridere trionfante. «Il generale Dreedle è stato estromesso, "Padre". E il generale Peckem intromesso. Abbiamo un nuovo comandante di compagnia.»
Il cappellano era sbalordito. «Il generale Peckem!»
«Proprio così, cappellano. Ha qualche influenza su di lui?»
«Perdinci, non conosco nemmeno il generale Peckem,» protestò il cappellano disperato.
Il colonnello Korn rise di nuovo. «E' proprio un peccato, cappellano, perché il colonnello Cathcart lo conosce molto bene.» Il colonnello Korn ridacchiò a lungo assaporando il delizioso trionfo, poi si fermò di colpo. «Tra l'altro, "Padre",» lo minacciò freddamente, puntando un dito contro il petto del cappellano, «sappiamo tutti del trucco combinato da lei e dal dottor Stubbs. Lo sappiamo fin troppo bene che è stato lui a mandarla qui a protestare.»
«Il dottor Stubbs?» il cappellano scosse il capo in allibita protesta. «Io non ho visto il dottor Stubbs, colonnello. Sono stato portato qui da tre strani ufficiali che m'hanno trascinato giù in cantina senza nessuna autorizzazione e mi hanno insultato.»
Il colonnello puntò di nuovo un dito nel petto del cappellano. «Lei sa fin troppo bene che il dottor Stubbs ha messo in giro la voce fra gli uomini della squadriglia che non sono tenuti a compiere più di settanta missioni di volo.» Rise aspramente. «Ebbene, "Padre", essi dovranno compiere più di settanta missioni di volo, poiché stiamo trasferendo il dottor Stubbs nel Pacifico. Così "adios, Padre. Adios".»
giovedì 16 maggio 2013
Il portatore sano di normalità
Il portatore sano di normalità vive in mezzo a noi, e non avrai grossi problemi a riconoscerlo. Egli vive come un re nella sua reggia, circondato dalle sue donne e dai suoi figli. Novello eroe d'indomita stirpe, il normo sapiens si occupa di procacciare il cibo alla sua familia, di proteggerla dalle aggressioni esterne e dai contatti inopportuni. La sua donna è dedita alla celebrazione della sua grandezza nelle sue umili occupazioni femminili, nel curare la casa e ammaestrare i figli e il cane. Quando egli torna dal lavoro, gli porge il pasto caldo e il pigiama ben stirato; non si azzarda a disturbarne il sacro riposo così come le veglie, allorché si dedica anima e corpo alle sue sempre degne occupazioni. I figli splendono della sua luce riflessa, ne calcheranno le orme e, un giorno, forse, potranno dirsi pari a lui. Fino a quell'ora saranno comunque celebri nel camminare nella sua ombra, nel seguirne usi e costumi, indiscutibili perché vengono da così alta fonte.
Il normo sapiens è portatore di cultura, unica, indiscutibile. I suoi discepoli non necessitano di conoscere voce che non sia la sua, perché la sua è già la più alta, la più forte, la più giusta. Di fronte alla critica ghigna con dispetto, di fronte alla discussione risponde con il sarcasmo e il vilipendio; non necessita di argomentazione, la verità non si declina, non si prova, non si sperimenta; si accetta. Il normo sapiens è comunemente terrorizzato da qualsiasi cosa possa mettere in crisi le sue certezze, fino ad arrivare a negare l'esistenza. Il normo sapiens rifiuta categoricamente ogni sforzo che possa incrinare i punti saldi della sua vita, l'idea che possa esistere qualcosa oltre il suo orizzonte. Ciò che non conosce, semplicemente, o non esiste, o è sbagliato. Quindi non vale la pena dello sforzo di comprenderlo o conoscerlo.
Il normo sapiens è quello che ai suoi tempi era tutto meglio. Le porte erano sempre aperte, gli zingari e i neri erano lontani, i disabili erano handicappati da tenere nascosti e i ragazzi down erano mongoloidi, non scherziamo. I ragazzi non avevano i computer, non avevano i tablet, non avevano i giochi, non leggevano cose strane, non bevevano, non fumavano, non si informavano e non contestavano. Insomma, non si prendevano il lusso di ragionare. Di fronte a chi gli fa notare che i ragazzi di oggi hanno letto molto più di lui alla loro età, sibila, balbetta e cambia strada.
Le ragazze ai suoi tempi non la davano via, i ragazzi non erano debosciati e, per cortesia, gli omosessuali non erano omosessuali, erano froci. Il normo sapiens è quello che le donne sono tutte puttane, ma se lui è andato con quante più ha potuto quand'era già sposato, stava cercando quello che la moglie non poteva più dargli. Per il normo sapiens le cose si chiamavano con il loro nome, e il razzismo non esisteva perché esistevano una sola razza, un solo sesso, una sola specie, le sue.
La famiglia del normo sapiens è una, Santa, cattolica e apostolica. Tutto il resto non è pensabile, o se è pensabile comunque non è lecito, o se è lecito comunque non esiste, o se esiste comunque non è provato. Lo scarto dalla sua norma è degenerazione, perversione, peccato mortale prima ancora di ogni possibile assoluzione, o, peggio, prima ancora di ogni possibile ragionamento.
Il normo sapiens paga sempre troppe tasse, anche quando non le paga. Il normo sapiens è ligio al dovere anche quando non fa un cazzo. Il normo sapiens è riformista anche quando spala merda sui terroni e su quelle merde umane dei clandestini. Il normo sapiens è un rivoluzionario, ma 'sti cazzi che sciopera. Il normo sapiens è un filantropo, ma difende i suoi interessi, mica quelli del debole.
Il normo sapiens purtroppo si aggira ancora tra di noi: ha la faccia pulita dell'uomo perbene, della buona famiglia, dei valori della tradizione, delle cose sane di una volta, dell'istruzione che funzionava. Ciò che è diverso non lo riguarda, lo annoia, lo disgusta.
Generazione Web, la webzine degli alunni
Ecco il link alla webzine dei miei alunni, una delle soddisfazioni di quest'anno scolastico.
mercoledì 15 maggio 2013
Berlusconi, Tortora e l'analogia
analogia,
s. f. ‘somiglianza’ (1558, A. Caro),
analogico,
agg. ‘che riguarda l'analogia’ (1550, B. Segni, L'ethica d'Aristotile, Firenze, p. 404).
Vc. dotta, lat. analogu(m), analogia(m) – che “si diffuse in epoca medievale attraverso la filosofia scolastica” (LEI II 1048) – analogicu(m) dal gr. análogos ‘proporzionato, che è in rapporto con’ (da lógos ‘proporzione, corrispondenza’), coi der. analogía, analogikós: EGSR Alpha 493.
(Dizionario etimologico Zanichelli)
analogia
[vc. dotta, lat. analogia(m), dal gr. analogía ‘proporzione’. V. analogo; 1363]
s. f.
1 Relazione di affinità e somiglianza tra due o più cose: analogia di gusti; le lingue neolatine presentano fra loro numerose analogie; l'analogia fra le due opere è evidente.
2 (ling.) Influenza assimilatrice che una forma esercita su un'altra | Nella grammatica antica, principio di regolarità nella flessione e nella formazione delle parole; CONTR. Anomalia.
3 (filos.) In logica, tipo di argomentazione in base alla quale dalla somiglianza di due o più cose per uno o più aspetti si inferisce la loro somiglianza anche per altri aspetti.
4 (fis.) Corrispondenza che esiste fra due fenomeni fisici di natura diversa quando le grandezze relative all'uno e le grandezze relative all'altro sono legate da equazioni identiche; permette di studiare fenomeni complessi su modelli costituiti da fenomeni più semplici.
5 (biol.) Relazione esistente tra parti anatomiche di categorie tassonomiche diverse che svolgono la stessa funzione ma differiscono per il piano organizzativo complessivo e le modalità di sviluppo (per es. ali di uccelli e di insetti).
(Dizionario Zingarelli Zanichelli)
Ecco, stando alle definizioni lette sopra, quando Berlusconi dice di non essersi paragonato ad Enzo Tortora, mente. Perché, vedete, Silvio Berlusconi è un uomo di fine cultura, molto abile nel manipolare la parola. Così, quando dice di non essersi paragonato ad Enzo Tortora, dice il vero, se intendiamo che il suo paragone non è stato attuato tramite il più comune strumento per realizzarne uno, ovvero la similitudine.
similitudine
[dal lat. similitudine(m), da similis ‘simile’; 1261 ca.]
s. f.
1 (raro, lett.) Somiglianza, conformità: a similitudine di; Le biade… dal principio hanno quasi una similitudine ne l'erba (DANTE).
2 (ling.) Figura retorica che consiste nel paragonare tra loro concetti, immagini o cose, sulla base della somiglianza di alcuni caratteri comuni; ad es. in: La memoria, / amica come l'edera alle tombe (SABA).
3 (mat.) Affinità tale che il rapporto di segmenti corrispondenti sia costante.
(Dizionario Zingarelli Zanichelli)
Infatti il nostro buon ex presidente ha fatto qualcosa di diverso, più colto e, nel suo caso, più subdolo, ovvero si è paragonato a Tortora non con un paragone espresso ma con una analogia. Il paragone così non è svelato, sta nei fatti. Per Silvio Berlusconi lui sarebbe un novello Enzo Tortora, in un certo senso, per usare categorie care agli studiosi di Dante, Tortora e il suo caso giudiziario sarebbero stati figura di Berlusconi.
È questo uso della parola, questo riuso delle informazioni a suo piacimento (ricordiamo ancora la sua prefazione al Principe di Machiavelli), questo potere quasi illimitato nel manipolare le informazioni, è tutto ciò assieme che ci deve spingere a diffidare di Silvio Berlusconi, delle sue verità che sono sempre altre rispetto all'evidenza; in lui si incarna la peggior incertezza postmoderna, il poter sempre sostenere il fraintendimento delle sue tesi e dei suoi atti, sempre a suo vantaggio. Per tutto questo il nostro paese deve finalmente inmapare a fare a meno di Silvio Berlusconi
martedì 14 maggio 2013
domenica 12 maggio 2013
Il Sole24ore, Casati e lo pseudo umanesimo conservatore e alogico
Leggo oggi sul Sole24ore un interessante articolo di Roberto Casati sui pregi e le funzioni della digitalizzazione, in particolare sulla digitalizzazione nella scuola pubblica. L'assunto dell'articolo sarebbe che la semplice possibilità della digitalizzazione non sarebbe motivo valido per attuarla, senza quanto meno dei dati oggettivi che ne vadano a corroborare l'efficacia. Assunto di per sé convincente, se non fosse, ad un'attenta analisi, alogico. Come avere dati oggettivi senza una sperimentazione? Come avrebbe potuto Colombo provare (o tentare di provare) la sfericità della terra senza il suo viaggio? Sarebbe stata la mera teoria il dato oggettivo valido oppure, come sosterrebbe l'assunto dell'articolo, non sarebbe stato in sé sufficiente per sperimentare?
Ma tralasciando la debolezza dell'assunto iniziale, andiamo nello specifico a leggere le parole tendenziose e fuorvianti sulla scuola pubblica.
Non basta quindi lavorare caso per caso, ma su ogni caso si devono soppesare questi molti e diversi argomenti. Prendiamo, tanto per fare un esempio, la scuola, e mettiamo da parte il «si può, quindi devi». Quali ragioni ci sono per introdurre le nuove tecnologie nella scuola? Non certo e non più il bisogno di colmare il digital divide: i ragazzi hanno più tecnologia a casa di quanta la scuola possa mai averne. Ma quale ragione, allora? La ridda riparte: «Ci sono delle attività educative incredibili che puoi fare con il computer; i ragazzi d'oggi sono così e bisogna adattarsi alla loro forma mentis; dobbiamo dare un accesso totale all'informazione totale; ha funzionato benissimo nel settore bancario, perché non deve funzionare nella scuola?». Ma sono argomenti ideologici. Bisognerebbe chiedere se esistono dei dati per giustificare gli investimenti in tecnologia. Per esempio dei dati sul rendimento scolastico. Certamente questi dati non c'erano (per definizione!) nel momento in cui le tecnologie sono state introdotte: la loro introduzione era un esperimento alla cieca, che la dice lunga sulla qualità delle decisioni pubbliche.
Uno studio recente di Marco Gui del l'Università di Milano Bicocca fa il punto su un esempio tra i tanti, il rapporto tra la frequenza d'uso dei media digitali e i livelli di apprendimento, andando a scavare nei dati del sesto volume del rapporto Pisa Ocse 2011, che coprono una popolazione di 450mila studenti quindicenni da 65 Paesi. L'analisi di Gui è quantomai interessante: le nuove tecnologie si associano positivamente all'apprendimento fintantoché se ne fa un uso modico. Non appena le tecnologie diventano invasive e colonizzano il tempo, il rendimento scende, a livelli inferiori a quelli che si hanno senza tecnologie. Vale la pena di fare un'osservazione metodologica: si tratta di associazioni e non di rapporti direttamente causali, per il momento, dato che l'identificazione di questi ultimi necessiterebbe di studi sperimentali. Tuttavia è più che abbastanza per farci venire il sospetto (il rapporto Pisa vede gli stessi dati, ma è più elusivo sulle conclusioni). Gli unici vantaggi (minimi) si hanno per quella che il rapporto Pisa chiama subdolamente «lettura digitale», un altro dei termini dalla semantica dubbia che fanno la gioia dei colonialisti, e che io renderei piuttosto con «spippolamento». A guardare da vicino, la «lettura digitale» è l'abilità di andare in giro per ipertesti, fare copia e incolla, cliccare per dire «mi piace» e cose simili. Ci sarebbe da stupirsi se almeno queste "competenze" non migliorassero almeno un po' con un uso accanito del computer, e comunque a usarlo troppo anche queste regrediscono! Ma il punto principale è che le altre competenze, ben più serie: lettura, matematica e scienze, ne soffrono.
Partiamo dalla prima stupidaggine: la scuola non avrebbe il dovere di colmare il digital divide perché i ragazzi sarebbero circondati dalla tecnologia. Stupidaggine perché il semplice essere circondati non indica anche la competenza nell'uso critico degli strumenti. Esempio ne sono tanti anni di uso acritico della televisione, il turpiloquio e il cattivo uso delle fonti in rete, la cronica incapacità italiana anche solo di scrivere correttamente e-mail o documenti di testo, a partire da quegli insegnanti che dovrebbero assumersi la responsabilità di insegnare e la svicolano con le scuse più banali pur di non mettersi in gioco o di non ammettere le proprie lacune. Viene poi confuso cosa si intende con digital divide, ovvero la differenza di diffusione delle tecnologie tra le diverse aree del paese e a seconda dei ceti sociali, e qui evidentemente il giornalista ignora che il 40% degli Italiani è ancora sprovvisto di una connessione internet veloce.
Per quanto riguarda i dati che il giornalista definisce ideologici, è proprio la sua di visione che nasce da un'ideologia pseudo-umanista e chiusa di fronte alla sperimentazione. Come provare che certe attività didattiche non presentino giovamenti per l'apprendimento senza la sperimentazione? Come fa il giornalista a provare che le nuove tecnologie non permettano di cogliere l'attenzione di quegli alunni che per decenni abbiamo ignorato, tra l'altro citando un solo testo a fronte delle centinaia, si guardi la semplice bibliografia della Pearson a riguardo, che dicono il contrario?
I dati OCSE PISA possono essere letti in molte maniere, tanto che lo stesso giornalista premette che si tratta di dati ancora poco esaustivi e suscettibili di ulteriori approfondimenti. Del resto, come già viene detto, entro certi limiti è provato un miglioramento dell'apprendimento. Dato che viene però opportunamente ignorato per citare solo l'eccesso di esposizione ai media. Ma se è questo il modello di ragionamento, allora possiamo anche dire che un qualsiasi eccesso nell'istruzione si è mostrato negli anni controproducente: troppe ore a scuola eseguendo le stesse attività, troppi compiti per casa o, viceversa, un'eccessiva riduzione dell'orario scolastico, la sua frammentazione in troppe attività, la negazione del lavoro domestico.
Studi americani condotti sugli iscritti ai college hanno dimostrato che non c'è legame tra l'esposizione alla rete, i livelli di concentrazione raggiunti e mantenuti, e i risultati ottenuti. Il modificarsi dei modelli cognitivi fra gli studenti dei college non porta sostanziali cambiamenti nei risultati, né positivi, né negativi. Quello che cambia è il linguaggio che viene adoperato, il linguaggio che, voglia o non voglia il giornalista, viene comunemente adoperato dai ragazzi nel loro rapportarsi con la rete.
Senza considerare che l'educazione ai media presenta vantaggi nell'istruzione per coloro che la scuola italiana volutamente dimentica, ovvero i disabili, gli alunni con disturbi dell'apprendimento, gli alunni con problematiche sociali. Il sospetto è che l'autore parli di una scuola d'élite, per coloro che i media già li sanno usare e devono allora raggiungere l'eccellenza altrove. Peccato che la scuola debba insegnare anche a coloro che, privi di qualsiasi formazione critica, sono le vittime più facili per i tranelli della rete: non basterà ignorare il problema per risolverlo. Così audiolibri, lavagne interattive, slides, ricostruzioni in tre dimensioni, mappe concettuali, testi interattivi e multimediali, ipertesti, linee del tempo, tutti questi strumenti possono facilitare il raggiungimento di livelli di apprendimento più alti per coloro i quali non riusciamo a raggiungere con la semplice lezione frontale e la lettura del libro cartaceo, strumenti utilissimi e da integrare con le nuove tecnologie, ma che, ne abbiamo ogni giorno testimonianza, hanno reso la scuola italiana semplicemente lo strumento per mantenere i ricchi e i colti sempre più ricchi e sempre più colti, i poveri e gli ignoranti sempre più poveri e sempre più ignoranti.
Concludiamo sulla nebulosa, per il giornalista, definizione di lettura digitale. L'articolo la sminuisce semplicemente ad un "mi piace" su un social network. Certo una maniera efficace per nascondere una visione, questa sì ideologica ed elitaria, di chi non si macchia e non si sporca nel confronto pubblico di un'arena virtuale come possono essere i social network, di chi pensa che una lettura che intreccia testi, delinea inferenze, insomma propone un tracciato critico e di confronto come un pericolo, di chi pensa ad una società e ad una cultura orizzontale anziché verticale come un rischio per le gerarchie costituite, una cultura costruita dal basso anziché imposta dall'alto come una pericolosa utopia. Insomma, una visione che nasce da una ideologia ben precisa, conservatrice e mascherata dal perbenismo. Un formidabile strumento per chi non vuole cambiare le cose, non sente il bisogno di mostrare i limiti della propria cultura per superarli, di chi insomma con questa Italia senza una scala mobile sociale ci è andato, ci va e ci andrà a nozze.
sabato 11 maggio 2013
Mr. Gwyn, Alessandro Baricco
Queste le premesse di questo romanzo, e della ricerca di Mr. Gwyn di un nuovo senso per il suo vivere artistico e per il suo bisogno di adoperare la parola come uno strumento, come un pennello.
Un romanzo autobiografico, almeno in apparenza, e metanarrativo, almeno in apparenza, in cui Baricco sembra parlare di sé, della sua conclamata crisi autoriale e di un bisogno di reinventarsi.
Peccato che il tutto sia condito dalla inossidabile presunzione di Baricco, sempre più abituato a considerarsi vate dei nostri tempi. Il romanzo che ne esce fuori è inutilmente verboso, condito di riflessioni banali e sviluppate a malapena, narrativamente debole; la prima metà del romanzo si trascina stancamente senza alcun perché, con un espediente narrativo, quello della donna con il foulard, indispensabile per condurre la trama ad un porto sicuro, visto che la trama stessa si è dispersa in rigagnoli mai sbocciati davvero. Un prendere in giro il lettore, da parte dell'autore, francamente insopportabile.
Il tutto poi è reso ancora più fastidioso, come dicevo, dalla presunzione di Baricco, dal suo ergersi a guida morale e intellettuale verso verità nascoste ai più. Così Baricco condisce il romanzo di corsivi inutili, fuorvianti e privi di un perché, si autocita, lanciando quel contenitore di racconti brevi, tutto sommato mediocri, che è Tre volte l'alba, già incensato nel mezzo della narrazione come bella prova di Mr. Gwynn.
Baricco, in linea con le posizioni ideologiche e politiche espresse negli ultimi anni, ha semplicemente smesso di essere un romanziere, un narratore, per essere altro. Un vate, forse, alla D'Annunzio, con tutti i limiti, sociali, psicologici e politici di questo tipo di figura.
giovedì 9 maggio 2013
La costituzine, articolo 33
The Pitt, R. Scott Gemmill
The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....
-
Quella che leggete è la mia risposta alla lettera del collega Matteo Radaelli , pubblicata sul Corriere della sera giorno 2 settembre e onl...
-
Per chi si chiedesse come fare ad allontanarsi dai social network dei broligarchi di Trump, un po' di alternative: 1. Friendica , la cos...
-
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/7f/Tomba_Della_Fustigazione.jpg La sessualità nell’antichità viene spesso considerata ...










