Grazie al sito Insegnanti 2.0 anche in Italia inizia ad essere conosciuto e adoperato uno splendido strumento per la didattica digitale e le classi capovolte, ovvero Zaption.
Zaption permette di cercare e adoperare video sui principali portali, nonché caricare proprie creazioni; su questi video l'insegnante potrà aggiungere immagini, testi, questionari a risposta aperta e a risposta chiusa. Questi questionari saranno poi condivisi con le nostre classi, permettendo di avere il feedback delle risposte e lavorare in maniera laboratoriale in classe. Sicuramente uno strumento molto utile per chi si vuole addentrare nella didattica 2.0
lunedì 30 giugno 2014
Zaption
domenica 29 giugno 2014
Robocop
Robocop è un personaggio della fine degli anni '80, anzi, per la precisione, il film Robocop - il futuro della legge uscì nel 1987. Al film fecero seguito due sequel e un reboot del 2014. Il reboot del 2014 è stato duramente criticato, a mio avviso abbastanza ingiustamente: si tratta di un film onesto, certo non paragonabile all'originale, ma sicuramente godibile.
Per quanto riguarda il primo Robocop, questo film è ambientato in un futuro recente, in una Detroit sempre più in mano ai capitalisti e alla criminalità, una città in cui chi non è protetto dalla ricchezza o dalla corruzione fa fatica a vivere. In questo contesto un agente, Alex Murphy, si trova coinvolto, durante il suo servizio, in un grave incidente che deturpa il suo corpo, sfigurandolo e conducendolo ad un passo dalla morte. Murphy verrà salvato da una multinazionale, la OCP, che lo renderà un poliziotto cyborg, innestando nel suo corpo una specie di armatura, un computer e delle armi. Così trasformato e privo della sua memoria, Alex Murphy diventa l'asso nella manica della polizia e della multinazionale, strumento formidabile di propaganda e di giustizia.
Man mano Alex Murphy recupera la sua memoria, decidendo di indagare sul caso che ha portato alla devastazione del suo corpo, finendo per scavare nel sistema di corruzione che coinvolge la polizia, l'amministrazione pubblica, la stessa OCP, fino a recuperare la sua stessa umanità.
Tutto ciò è condito di sarcasmo, satira della società americana degli anni '80, delle paure e delle speranze sull'informatizzazione e la robotizzazione. La storia raccontata si caratterizza per il cinismo dei personaggi che si muovono intorno ad Alex Murphy, il cinismo del capitalismo che si vuole fingere buono, il cinismo della corruzione che vende la vita stessa dei cittadini per il proprio tornaconto, il cinismo della criminalità e della cittadinanza.
Tutto è sopra le righe, tutto è esagerato, come in molto cinema dell'epoca. Degni di nota sono gli effetti speciali, spettacolari per l'epoca in cui uscì il film, e le splendide musiche, suggestive, a tratti epiche, spesso tragiche.
L'autoassoluzione dei docenti italiani
Facciamo le dovute premesse: è tutto vero, siamo bistrattati, sottopagati, sottovalutati, viviamo in un eterno caos normativo. E poi? Ci dovrà pur essere qualcosa che non ci raccontiamo. Questo qualcosa c'è, ed è semplicemente un fatto: ci siamo autoassolti da tutte le lacune della scuola.
Dovremmo dirci con onestà intellettuale che, se la scuola italiana non funziona, la colpa non sta solo a monte, ma anche tra coloro che nella scuola lavorano giorno per giorno. E parlo di cose concrete: se il 70% degli Italiani non è capace di decodificare un testo complesso, la colpa non è del ministero, di questa o quella norma, ma di noi insegnanti che falliamo quotidianamente nell'insegnamento della lingua madre (e qui il mea culpa lo devono fare sia gli insegnanti di italiano che tutti gli altri insegnanti, troppo spesso approssimativi nell'uso della lingua e restii loro stessi all'ammissione delle loro lacune "perché io insegno...- aggiungete voi una qualunque materia che non appartenga al novero delle materie di lettere - ).
Dovremmo dirci che se i nostri studenti ottengono mediamente risultati peggiori rispetto ai coetanei degli altri paesi nelle materie scientifiche, forse è anche colpa nostra, e, soprattutto, se l'intero sistema paese, quindi non solo i ragazzi che frequentano le scuole, ma anche gli adulti formatisi nel corso delle generazioni, è così refrattario nei confronti del metodo scientifico, del vaglio critico delle fonti, dell'uso della logica, qualche colpa ce l'abbiamo anche noi.
Forse noi insegnanti dovremmo anche smettere di assolverci da ogni colpa riguardo all'analfabetismo informatico e, in generale, nell'uso dei media, da parte degli Italiani.
Forse dovremmo dirci che, se delle persone che, mediamente, dai 6 ai 18-19 anni trascorrono 5, 6, ore al giorno a contatto con degli adulti che dovrebbero in primis insegnare la lingua, quindi a leggere e scrivere correttamente, insegnare a far di conto, e quindi nel complesso dovrebbero insegnare a ragionare, se alla fine di più di 10 anni di studi non siamo riusciti in questo intento, e le condizioni dell'Italia, quindi non solo dei ragazzi che OGGI frequentano la scuola, ma anche gli adulti formatisi diciamo negli ultimi 20-30 anni, dimostrano ciò, allora un fallimento della scuola e dei suoi insegnanti esiste.
Questo fallimento della scuola esiste a prescindere da ogni norma. Esiste nelle persone che hanno fatto scuola fino ad oggi, dai ministri agli ultimi assunti fra gli ATA. Tutti ne siamo responsabili e colpevoli. Se la scuola, e ciò accade non da oggi, in Italia non costituisce lo strumento per un miglioramento della condizione sociale, allora possiamo raccontarci tutte le favolette che vogliamo, noi come insegnanti abbiamo fallito.
Cosa intendo dire con tutto ciò? Che gli insegnanti lavorano poco? No, anzi. E allora? Intendo dire che gli insegnanti italiani lavorano male, e spesso con presunzione. La presunzione di essere gli unici depositari della verità sulla scuola (per carità, la colpa di cui mi sto macchiando anche io in questo momento) e di non essere criticabili. La colpa di non accettare il confronto, in primis tra di noi, di non accettare le competenze altrui (quanti fra di noi conoscono colleghi che si rifiutano di adoperare strumenti compensativi per i DSA o i BES perché "è tutto un mercato per mangiarci sopra, quello lì non ha nulla"?), non accettare e non ammettere che qualcuno, una minoranza, fra di noi fa questo mestiere perché ha cercato un rifugio dalla sua incapacità e lavora nel modo peggiore, o spesso non lavora. Dovremmo ammettere che molti fra gli insegnanti rifiutano l'aggiornammento, se vanno ai corsi lo fanno in manierra refrattaria, scaldano una sedia perché devono farlo, ma sono impermeabili a quanto viene suggerito, continuano per tutta la loro carriera ad applicare i metodi che sono stati tramandati loro dai loro insegnanti. E quanti insegnanti nelle nostre scuole, o perché anziani o perché semplicemente egoisti, delegano azioni educative e innovazioni agli ultimi arrivati, sprecando la loro esperienza, perché ci si rifiuta di mettersi in gioco e di apprendere nuove strategie?
Il mondo della didattica in altri paesi è in fermento: dal dibattito sulla valutazione per test, all'uso della didattica digitale, della classe capovolta. Quanto, di tutto ciò, sanno i nostri insegnanti? Il rifiuto delle INVALSI, ancora tanto diffuso, avviene per una seria analisi sui rischi della valutazione che vorrebbe essere oggettiva, o avviene peeché si ha paura di scoperchiare il vaso della autoreferenzialità dell'insegnamento da parte di molti docenti italiani?
Tutto ciò viene detto a fronte di un dato: c'è una maggioranza silenziosa di insegnanti italiani che paga l'autoassoluzione della minoranza refrattaria, autoritaria ed egoista. Perché, come sempre, a farne le spese, sono i più deboli, nel nostro caso non gli insegnanti stessi, ma chi degli insegnanti è vittima, i nostri alunni. Quelli di cui un giorno, noi insegnanti, ci lamenteremo, una volta giunti ai posti di potere totalmente inconsapevoli o privi degli strumenti per i ruoli a cui assurgeranno.
E allora saremo ancora noi a pagarne le conseguenze.
martedì 24 giugno 2014
Michael Moorcock, Elric di Melniboné
Elric di Melniboné, di Michael Moorcock è uno dei classici dell'heroic fantasy, uno di quei pochi libri fantasy che ti colpiscono per l'atmosfera, le spade (la Stormbringher che tanti appassionati ha fatto innamorare di questo libro), ma poi ti costringe a porti delle questioni. Perché Elric, il campione eterno, è l'emblema dell'uomo insoddisfatto alla ricerca di se stesso, alla ricerca di una identità che vada oltre la tradizione, la costrizione.
Ma Elric si trova a lottare contro le catene di un fato già deciso, assurge ad una dimensione tragica che affronta con un sarcasmo che reinventa l'ironia tipica dei personaggi di un simile spessore.
In tutto ciò Moorcock è un maestro nel genere anche nell'uso attento di una prosa che, pur limpida, riesce a a pieno a rendere le barocce concettosità della corte di Melniboné, di questi non uomini lambiccati nella propria defunta grandezza, nella sete di dominio, di potenza, di violenza e di forza.
Elric, il mago che non desidera usare la magia, l'imperatore che non desidera governare, il guerriero che vive della morte altrui ma che preferirebbe morire che uccidere, l'uomo d'ordine al servizio delle divinità del caos. Elric è uno dei pochi personaggi a tutto tondo del genere fantasy, uno specchio in cui chiunque si può ritrovare e, ad un tempo, può scoprire qualcosa di sé che ancora non sa.
lunedì 23 giugno 2014
Voxnews, ovvero cosa non è giornalismo
Ringrazio uno dei miei ex alunni per avermi segnalato, ieri, questo "magistrale" articolo di Voxnews , sedicente quotidiano online. A dire la verità l'alunno ha linkato questo articolo per comprovare le sue idee, avverse all'accoglienza degli immigrati in Italia. Purtroppo per lui, proprio le "qualità" di questo pezzo comprovano le idee opposte, e così, se volete in un gioco letterario, mi do all'analilsi e alla decostruzione di questa colonna portante della pseudo informazione.
Iniziamo dal primo dato. Un articolo come questo, stracolmo di commenti personali del giornalista (?) che l'ha scritto, andrebbe firmato, essendo un editoriale, un pezzo che delinea la linea politica ed ideologica del giornale; invece l'articolo non è firmato, facendo passare l'idea che i fatti che propone siano incontrovertibili e tutt'altro che discutibili.
Continuiamo: già dal titolo il falso ideologico è compiuto. Si parla infatti di "invasione". Ma cos'è un'invasione? Per rispondere usiamo la definizione più nota e più diffusa, anche perché di più facile accesso, quella di Wikipedia. "Per invasione si intende l'occupazione, generalmente violenta, di un certo territorio da parte di un nuovo gruppo di individui (che può essere un gruppo militare o anche un gruppo di civili) già sottoposto alla sovranità di un gruppo umano ivi stanziato. Tale invasione avviene di solito in armi, tanto da essere ricordata, dalle discendenze, sempre con aspetti negativi di morte e distruzione, anche se spesso nell'uso comune con tale termine si identificano anche invasioni "pacifiche", cioè laddove ingenti masse umane (o non umane) si stanzino anche temporaneamente su un determinato territorio.
Altro significato della parola invasione è di stampo più militare. Storicamente l'invasione quindi può, spesso, assumere i connotati di una pura operazione militare, pianificata e condotta, normalmente per ragioni economico-politiche, se non geostrategiche, sostenute da questioni ideologiche."
Stando a questa definizione, l'accezione più diffusa e accettata di invasione, anche se non l'unica, è quella di occupazione violenta, in armi, di un territorio precedentemente abitato. E allora, di che invasione parla Voxnews se le armi in questione, sono in possesso solamente di una parte, quella che, stando all'articolo, subisce l'invasione? Ma forse, più correttamente, il termine invasione dovrebbe essere sostituito con il termine "migrazione": " Per l'essere umano, a differenza degli animali e dei fenomeni naturali, si parla di soggetto di migrazione, in quanto appunto soggetto di un personale e più o meno consapevole progetto migratorio, anche qualora tale progetto sia inserito in un movimento collettivo e magari provocato da cause esterne (pestilenze, guerre, carestie, disoccupazione). Le cause (fatte salve quelle più meramente biologiche come le carestie) sono sostanzialmente differenti da quelle animali, implicando in molti casi una ricerca di ordine più esistenziale e culturale più che semplicemente materiale. Anche nei casi che la sociologia suole spiegare in termini di fattori push, come può essere nel caso della ricerca di lavoro, le ricerche attente ai racconti di vita tendono a evidenziare che a spingere il singolo migrante alla migrazione sono in realtà cause di ordine più complesso e individuale: ricerca di una emancipazione dal contesto familiare, ricerca di libertà di espressione, di crescita culturale, curiosità intellettuale. Va poi evidentemente sottolineato che solo in termini molto riduttivi l'amore quale causa della migrazione accomuna uomo e animali: non di pura riproduzione della specie o di accoppiamento è alla ricerca il migrante quando lascia il proprio paese" (fonte, ancora, Wikipedia).
Continuiamo la nostra analisi: "Baranzate - Sei nati su dieci sono stranieri, gli italiani sono già minoranza. Oltre il 30 per cento dei residenti sono immigrati."
Proprio questo cappello introduttivo mette in luce l'illogicità e la malafede dell'articolo. Sei nati su dieci sono stranieri, gli Italiani (perché i nomi di popoli si scrivono in maiuscolo, ignoranti) sono in minoranza. Fermiamoci un attimo. Sei nati su dieci. Quindi parliamo di bambini nati in Italia, che frequentano le scuole italiane, gli oratori italiani, sono curati dall'assistenza sanitaria italiana, hanno amici italiani, parlano italiano. Insomma, non sono bambini italiani (si scrive in minuscolo se è aggettivo, ignoranti) per la burocrazia. Tanti Balotelli, insomma. Quei ragazzi che, quando conviene, sono esempio dell'Italia migliore, sennò, sono immigrati.
Ma continuiamo: oltre il 30 per cento sono immigrati. Peccato che prima si fosse detto che gli stranieri sono più de 50%. Insomma, decidiamoci.
Secondo parragrafo. "Baranzate è una cittadina di 11.538 abitanti in provincia di Milano, letteralmente invasa da un’accozzaglia senza identità. Una babele priva di senso di romeni, moldavi, albanesi, senegalesi, maghrebini, cinesi e filippini. Che non hanno nulla in comune, tranne l’essere in una terra che non è la loro."
A parte i nomi di popoli scritti in minuscolo, sintomo di un giornalista (?) che non conosce la sua lingua e critica gli stranieri (complimenti), dove sono i fatti certificati in questo paragrafo? L'unico dato è il numero di abitanti, poi il nulla. Dove sono le percentuali di presenza delle diverse minoranze?
Il giornalista poi parla d'identità. Peccato viva nella terra di cui si disse, alla sua nascita, "fatta l'Italia, ora occorre fare gli Italiani". Peccato parli di una regione, la Lombardia, che rivendica un'identità diversa rispetto al resto dell'Italia, la mitologica Padania, un altro falso storico di cui, se vorrete, potrete leggere in altri articoli su questo blog. Perché il giornalista non fornisce una definizione di questa fantomatica identità italiana? Perché, ad oggi, sono così vive nel nostro paese le identità regionali se, come si pretende, esiste un'identità italiana che questa "invasione" starebbe distruggendo?
Gli immigrati vivono in una terra che non è la loro. Questo è un tipico errore (voluto) nell'uso della logica, ovvero considerare un accidente, una casualità, come qualcosa di volontario e sacrosanto. Come se il giornalista (?) avesse scelto di nascere in Italia, avesse alla nascita firmato un contratto di proprietà e fosse, per tanto, proprietario di un non meglio precisato appezzamento d terra in quel territorio che oggi viene chiamato Italia. Poco importa che i confini dell'Italia siano mutati, e di molto, nel corso dei millenni; poco importa che l'Italia, in origine, fosse una piccola parte del meridione, che Milano fosse terra straniera, sino alle popolazioni preindoeuropee, se vogliamo. Ad essere precisi siamo tutti figli di migranti, tutti invasori di qualcun altro, ma quando non conviene, questo è un dato che è meglio evitare di ricordare.
" La città è invasa di negozi stranieri, quelli italiani non esistono quasi più." Inutile dire quanto sia campata in aria questa frase: non un dato della camera di commercio, non un numero. Una splendida narrazione, quella di questo articolo. Ma di dati oggettivi neanche l'ombra, solo il gioco, scellerato, sulle paure, i preconcetti, le ignoranze altrui.
" All’istituto comprensivo Rodari, l’unico ente scolastico pubblico del Comune, ci sono in tutto 880 ragazzi delle scuole medie, con una quota di alunni stranieri che supera il 50 per cento. Fra questi sono 540 gli studenti che arrivano da diverse nazionalità iscritti, di cui 70 rom a completare la ‘ricchezza’."
L'italiano, questo sconosciuto. Se analizziamo per bene i primi due periodi di questo paragrafo, noteremo che, nei suoi errori grammaticali, lascia compiutamente adito a molti dubbi. Abbiamo 880 ragazzi delle scuole medie (e le elementari? E la materna? Perché non rendere statisticamente probante il dato allargandolo non solo al triennio delle medie, ma all'intero ciclo tra materna, primaria e secondaria di primo grado, quindi dieci anni, di un istituto comprensivo? Forse perché il dato completo altererebbe i risultati che si vogliono mostrare per sostenere la propria tesi?), fra i quali più del 50% stranieri. E quindi? Può il giornalista dimostrare che questo dato abbassa o innalza in maniera significativa i risultati scolastici complessivi ovvero dei singoli alunni? Con quali strumenti può provarlo?
Ma continuiamo. Fra questi sono 540 che arrrivano da diverse nazionalità. Intanto si chiarisca, in italiano, fra questi chi. Il complesso di tutti gli 880 o solo il totale degli alunni stranieri? E se ci si riferisce a questi, se sono stranieri, come potrebbero non provenire da diverse nazionalità? O ci sono Italiani che sono contemporaneamente anche stranieri? In che modo? Insomma, il giornalista chiarisca in primis al suo cervello cosa diamine voleva dire. E magari chiarisca anche al mondo "l'ironia" della sua frase sui 70 bambini rom: se non frequentassero la scuola li si attaccherebbe perché chiusi nelle loro tradizioni; quando frequentano le scuole, li si attacca perché invadono le tradizioni altrui. Forse sarebbe invece il caso di dirci che del becero razzismo di chi scrive questi articoli non sappiamo più che cosa farcene.
" E una cittadina del genere, non poteva che avere un sindaco poco intelligente:
«L’integrazione è un problema, spesso è una fatica se pensiamo alle poche risorse che abbiamo a disposizione per attuarla — commenta il sindaco Giuseppe Corbari — Ma Baranzate si distingue per il suo animo di accoglienza e andiamo avanti, siamo un passo avanti rispetto al resto del Paese. Solo ieri sera all’oratorio di Sant’Arialdo ho assistito a un musical organizzato dai ragazzi, sul palco c’erano giovani di ogni nazionalità, uno spettacolo bellissimo. Tanti arrivano qui senza lavoro, senza soldi e noi facciamo sforzi quotidiani per affrontare le più disparate situazioni. La rabbia? Le istituzioni sovracomunali di tutto questo non si rendono nemmeno conto»."
Da notare la frase d'apertura di questo paragrafo, esempio di fine giornalismo d'inchiesta, sicuramente garantirà tanti premi a questa testata giornalistica. Il sindaco del comune mostra, con un esempio, i successi dell'integrazione, e il fiero giornalista ne parla come se parlasse di un idiota. Alto giornalismo.
"Si, siete un passo avanti verso il baratro.
E poi cosa significa ‘arrivano senza lavoro’? Semplicemente che non dovrebbero essere lì. E vogliono ‘risorse’ per sostenere l’integrazione, che se fosse una cosa naturale, non avrebbe bisogno di risorse..
Continua la sagra della stupidaggine con l'assurdo ragionamento sull'essere senza lavoro. Per dimostrare quanto sia assurdo, applichiamolo in altra maniera. Stando al giornalista, chiunque si sposti in cerca di lavoro, compie qualcoosa di sbagliato, un danno, e andrebbe trattato come tale. Quindi quando un cittadino di Crema, per esempio, cerca lavoro a Milano, compie un danno, andrebbe trattato come un delinquente. Se un cittadino di Bergamo trova lavoro a Cremona, figuriamoci, eresia. Per non parlare del Mantovano che ruba il lavoro a Sondrio, un criminale da galera.
Forse poi il giornalista dimentica che lo stato sociale, i diritti, sempre e comunque, richiedono risorse. O pensa che i disoccupati italiani ricevano i sussidi di disoccupazione dalla cicogna e trovino il cibo sotto i cavoli?
" La cosa atroce è che le istituzioni e i media di distrazione di massa osservano e descrivono un genocidio in corso – il nostro – come un qualcosa di positivo.
E qui arriviamo a chi governa la Lombardia, Maroni. Che da ministro degli Interni ha interpretato l’invasione come ‘questione di ordine pubblico’, e non come sostituzione etnica."
Continuiamo la sagra del giornalismo peracottaio con un parolone sparato lì a caso, "genocidio", perché fa tanto scena. Ma cos'è un genocidio? Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
"Costituiscono genocidio, secondo la definizione adottata dall'ONU, «gli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Anche la sottomissione intenzionale di un gruppo a condizioni di esistenza che ne comportino la scomparsa sia fisica sia culturale, totale o parziale, è di solito inclusa nella definizione di genocidio.
Il termine, derivante dalla greco γένος (ghénos razza, stirpe) e dal latino caedo (uccidere), è entrato nell'uso comune ed ha iniziato ad essere considerato come un crimine specifico, recepito nel diritto internazionale e nel diritto interno di molti Paesi. Il genocidio è uno dei peggiori crimini che l'uomo possa commettere perché comporta la morte di migliaia, a volte milioni, di persone e la perdita di patrimoni culturali immensi. È pertanto definito dalla giurisprudenza un crimine contro l'umanità."
Sembra evidente che di genocidio qui non ci sia neanche l'ombra, ma l'unica vera arma di distrazione di massa, ovvero questo articolo, non fa che alimentare paure e sospetti per nascondere le colpe e gli errori italiani nella gestione dell'economia e della cultura della nostra terra; tanto ci sono sempre gli stranieri a cui dare la colpa, tra un lavoro in nero e l'altro, tra un diritto negato e l'altro.
" Avallare l’arrivo di regolari equivale a raccattare clandestini nel Canale di Sicilia. Non ci sono differenze nel risultato finale. Essere sostituiti da clandestini o sedicenti regolari non cambia nulla.
Proteggere l’identità significa impedire l’ingresso in Italia di immigrati, regolari compresi. Perché oggi è Baranzate, domani la Lombardia, e dopo domani tutta l’Italia. E’ tempo di svegliarsi e di bloccare la fonte primaria degli arrivi: i famigerati ricongiungimenti familiari."
Ed arriviamo al dunque, alla tesi di questo editoriale spacciato per articolo di cronaca: occorre chiudere le frontiere, a tutti. A prescindere. E non importa che il saldo tra nati e morti in Italia sarebbe passivo, che mancherebbe la manodopera, che calerebbero, e di parecchio, gli introiti dovuti alle tasse, che la parte culturalmente più accesa fra la nostra gioventù scomparirebbe (perché andateci nelle scuole, al di là dei luoghi comuni vi troverete piccoli Cinesi che disquisiscono con voi di Heidegger mentre la presunta crema italica non conosce la grammatica della sua lingua ed è intenta a sfornare selfie), che l'agricoltura morirebbe, che le fabbriche chiuderebbero. Tutto questo non importa, se si può cavalcare la vostra paura.
Viva l'Italia
domenica 8 giugno 2014
Non è un paese per
L'Italia non è un paese per, aggiungete voi cosa. L'Italia non è un paese per imprenditori, ma neanche per dipendenti. L'Italia non è un paese per giovani, ma neanche per anziani. L'italia non è un paese per chi studia, ma neanche per chi lavora, figuriamoci per chi non fa né l'uno né l'altro. L'Italia non è un paese per donne, ma anche un maschietto ha difficoltà a sapere cosa fare di se stesso; figuriamoci chi non si sente né uomo né donna.
L'Italia non è un paese per. Forse anche perché c'è chi specula su questo paese, sulla distruzione, non di una sua fantomatica identità, ma sulla distruzione di ogni possibilità.
L'Italia è il paese in cui tanto tutto è già deciso, in cui gli imputati non si fidano dei loro giudici, i magistrati non danno fiducia a chi scriverà le leggi, i legislatori non danno credito a chi quelle leggi dovrà farle rispettare; in Italia gli alunni e i genitori non credono agli insegnanti, gli insegnanti non credono a chi dovrà formarli e giudicarli, chi giudica e forma gli insegnanti non crede di avere davanti gente realmente interessata al suo mestiere.
In Italia il paziente pretende di conoscere le sue malattie meglio del medico, i media speculano sulla salute pubblica maneggiando la sanità come carne da macello.
In Italia la Storia con la lettera maiuscola non esiste, non è un patrimonio condiviso di idee, non è neanche argomento di riflessione o dolore nazionale. Semplicemente non è, e chi pensa di fare storia, non fa che parlare del nulla.
In Italia guardare oltre il proprio orto è peccato, perché ancora oggi peccato e reato sono sinonimi.
In Italia la Rivoluzione Francese non c'è mai stata.
In Italia non esiste una cultura umanista che sia in grado di mettere in crisi l'opinione comune. In Italia la cultura umanista è morta, gli intellettuali sono delle controfigure di straccioni al soldo del politicante di turno, per cui si prostituiscono cavalcandone con entusiasmo motti, slogan e sfottò. In Italia l'intellettuale rifugge la cultura critica, molto meglio vendere una copia in più o rubare uno spettatore al prossimo spettacolo teatrale.
Ma tanto in Italia libri e teatro non sono che ricordi, perché la cultura si fa sulla TV e in Rete.
In Italia TV e Rete hanno deciso di fagocitare la cultura, tra tette e culi di stelle e stelline di turno e la ggente che deve assolutamente fare sapere e condividere. Cosa non si sa, perché non importa che l'informazione sia vera o falsa, l'importante è che sia condivisa.
L'Italia non è un paese per.
Sebastiano Cuffari, L'ombra del caffè
L'ombra del caffè
"Un cappuccino, grazie".
Il tizio al bancone fece una faccia tra lo sconvolto e il terrorizzato mentre, candidamente, il commissario Bosé sollevava la sua pistola roteandola ora in un verso, ora nell'altro e, nel frattempo, con l'altra mano componeva quadri, radunava indizi, prove, persone. Lo stupore, forse paura, del banconista, tuttavia non lo distolse dal servire quel vecchio astante, fosse per timidezza o per la consegna ricevuta dal suo titolare; fece finta di non vedere quell'aggeggio infernale nella mano destra del commissario e gli preparò quanto ordinato. Ne venne fuori un buon cappuccino, gli riuscì pure di tracciare un disegno con la schiuma, cremosa e soffice: una specie di palloncino che si gonfiava al centro per poi protendersi. Avvicinò a Bosé qualche bustina di zucchero di canna, come ogni volta, e poi si allontanò, non prima in realtà di avergli indicato, con un rapido cenno degli occhi, di mettere via quella pistola, giusto per non fare scappare via tutti gli altri clienti.
Perché poi tutti sapevano in paese che Bosé non era cosa con le armi. Sì, di farcela a colpire qualcuno da non troppo lontano, sì, ce la faceva. Ma non era quello il suo forte, anzi, se avesse dovuto vivere della sola sua mira, avrebbe fatto la fame già da un pezzo. Semplicemente il commissario Bosé era bravo nel risolvere i casi, nel trovare il bandolo.
O per tutti era così, perché lui in realtà aveva la sensazione di non trovare nulla, che i casi si risolvessero da sé, che lui non facesse altro che lasciare che gli eventi scorressero. La logica, che nel suo mestiere era fondamentale, lui aveva smesso da un pezzo di considerarla il suo dogma. Ma questo era meglio non dirlo in giro.
Stava tracciando un grosso cerchio con la pistola quando si avvide del cenno del banconista. Fu quasi un'epifania, capì di averla fatta grossa e posò l'arma davanti a sé. Non che così la situazione fosse realmente molto migliore, ma almeno non sembrava volesse sparare al cielo o al primo passante, e ciò poteva servire a tranquillizzare il povero dipendente di un bar di una piccola città di provincia come Cremignola.
Bosé sorseggiò il suo caffè voracemente, in maniera violenta, sempre senza attenzione e senza un perché. Il piede sinistro, lievemente discosto dall'altro, puntellava l'uomo contro una piccola seggiola di fronte al bancone; l'altro tamburellava contro il pavimento, c'era da chiedersi come rimanesse in piedi. Di tanto in tanto la mano sinistra accarezzava i baffi, i radi capelli, folti sulla nuca, di un marroncino, ma lui avrebbe detto castani, che dicevano di rara attenzione verso quel dettaglio e di un colore che avrebbe dovuto essere rinfrescato da un buon barbiere, o da un pittore, già da un po'.
Bosé aveva la mania della cravatta, non esisteva possibilità alcuna che uscisse da casa senza la sua cravatta, la sua giacca, una camicia sotto, magari bianca o azzurrina. Sembrava più un bancario che un commissario, m lui non ci faceva caso: gli importavano solo le cose importanti, e la cravatta era una di esse.
Una donna, alta, bella, formosa, dagli occhi neri, i capelli mori e la pelle abbronzata, gli passò davanti, sorridendo, ma Bosé ricambiò il gesto per educazione, più che per interesse. Anche perché quella donna gli ricordava troppo la vittima del caso a cui stava lavorando, pensava, e cosi, più che l'interesse sessusle, prevalse la voglia di levarsi di dosso questo peso. Così la donna, dopo essere rimasta per qualche tempo in attesa di un suo gesto, delusa prese una sciarpa color ocra, il suo giaccone, la sua dignità e usci, salutando il barista.
La vittima era una donna proveniente da una delle finte repubbliche del Caucaso, una di quelle nate e sparite nell'arco di pochissimi anni allo sgretolarsi di quel colosso di argilla che era stato l'Unione Sovietica. Bosé guardava la sua foto rigirandosela nella mano destra, cercando di scorgere qualcosa di nuovo in nuove angolature. Niente, non ne cavava nulla. Di quella donna poteva dire solamente che era morta dissanguata a causa di una coltellata, una sola, che le aveva reciso la carotide. Era stata una morte violenta, probabilmente dolorosa. Il suo corpo era stato ritrovato disteso per terra in una pozza di sangue, intrisi i vestiti, una bella sottoveste beige che lasciava immaginare ben poco delle su fattezze.
Sin dal ritrovamento del cadavere Bosé si era chiesto cosa avesse potuto portare a quella morte: aveva mandato alcuni fra i suoi uomini ad indagare nel passato della donna. Era arrivata in Italia otto anni prima, fuggendo dalla guerra civile che aveva infiammato la sua città. Non fu un problema ottenere l'asilo politico. A Cremignola s'era trasferita solo due anni dopo, cercando un posto tranquillo dove vivere e, da quel che diceva in giro, sperare un giorno di poter tornare nella sua terra. Bruna, i tratti orientali in viso, non spiccava per la sua altezza ma, da quel che dicevano gli abitanti della cittadina, così minuta si distingueva per la sua grazia e per la sua dolcezza. Di cosa vivesse in Italia, non si sapeva, o i più non volevano dirlo: qualcuno malignamente adombrava un giro di uomini a casa sua, ma dai controlli fiscali e dalle poche informazioni raccolte, tutto sembrava nella norma.
Bosé non riusciva a trovare macchie, buchi nel telo, varchi nell'ombra che lo potessero portare alla verità.
La donna non aveva una relazione stabile. Negli anni aveva provato ad incontrare degli uomini, aveva cercato qualcuno con cui condividere qualcosa, ma senza risultato. In molti a Cremignola pensavano che, se il problema non era il suo aspetto, e per quello che potevano vedere i concittadini, la bellezza di certo non mancava a quel fiore dell'est nella sua età migliore, allora il misfatto doveva stare altrove. Un caratteraccio? Eppure per il mondo al di qua delle pareti domestiche era la dolcezza reincarnata. Qualche vizietto? Forse, ma non ce n'erano tracce.
A Bosé era venuto un gran mal di testa al pensare e ripensare a quel caso, tanto da non accorgersi che l'ora di pranzo era già passata. Fu l'ingresso di un suo appuntato a riportare il commissario nel mondo dei vivi.
"E che è, non si bussa più?"
"Veramente, signor commissario, ho bussato più volte, ma voi non rispondevate. Sono entrato pensando che si fosse sentito male, come l'altra volta"
"Sì, vabbè, ora perché una volta mi capita di svenire in ufficio, deve capitare sempre!"
"Veramente una volta al mese, signor commissario. Comunque le ho portato il referto che mi aveva richiesto. Commissario, prenda aria che è più bianco del solito"
"Micheli! Oh! E da quand'è che gli appuntati danno ordini ai commissari? E insomma? Vada fuori, và!
L'appuntato uscì guardando di sbieco il superiore e, se non fosse stato che si conoscevano da quasi vent'anni e che ogni anno a Natale si ritrovavano insieme a giocare a tombola e sette e mezzo veneziano, Micheli avrebbe mandato con gioia il commissario Bosé a cagare, così su due piedi. Ma per sua fortuna, neanche quella volta lo fece.
Chiusasi la porta, Bosé scrutò attentamente il referto portatogli dal sottoposto. Voleva sapere se quel colpo che aveva troncato la vita di quella donna poteva essere stato inferto da qualche altra persona presente in casa, e, se sì, da chi. Ma intanto, qual era l'arma del delitto? Con cosa era stato tranciato quel collo? Tutto su quel pavimento era una pozza di sangue: accanto alla donna, stesa nella sua sottoveste, c'era un vetro spezzato, forse un tavolino che era andato in mille pezzi mentre la vittima cadeva. Poco discoste c'erano delle posate, come se tutto fosse accaduto mentre la donna consumava il suo ultimo pasto. Una candela si trovava su una mensola poco più in là, sembrava fosse stata accesa a lungo. Il referto della Polizia scientifica diceva che la donna era morta tra le dodici e le quattordici ore prima dell'arrivo sul posto dei carabinieri. I vicini, insospettiti da delle macchie rosse di sangue che serpeggiavano sotto la porta dell'ingresso, avevano telefonato al commissariato, una chiamata anonima, tanto per non prendersi responsabilità - o per depistare? - denunciando qualcosa di strano. da lì erano iniziate le indagini.
La donna era stata colpita da un'arma da taglio al collo, era morta a causa dell'emorraggia, ma non presentava altri segni, lividi, ematomi sul corpo. Non c'era stata violenza. L'autopsia diceva anche che la vittima non aveva avuto rapporti sessuali nelgli ultimi periodi. Insomma, non c'era nulla che facesse pensare ad un delitto passionale. Il referto diceva anche che sia la lama del vetro che il coltello accanto avrebbero potuto essere l'arma del delitto.
Bosé si mise nuovamente a riflettere, sollevandosi dalla sua sedia. Si avvicinò alla finestra che dava direttamente sulla campagna padana. Di fronte a lui campi coltivati a perdita d'occhio. Se l'ufficio avesse dato verso il nord nelle giornate di bel tempo avrebbe avuto la possibilità di mirare le guglie delle vette alpine, ma da lì, solo campi. Teneva la finestra aperta perché non riusciva proprio ad abituarsi all'odore dei concimi chimici usati in quelle campagne e, quando l'ambiente si impestava di quell'olezzo pervasivo, se lo sentiva addosso per giorni, come se ormai il suo sudore e il suo fiatone non fossero che parte stessa della terra. Eppure quella campagna, con il tempo, era diventata parte del suo essere.
E se questa donna non fosse stata vittima, ma fosse stata essa stessa carnefice? Se mancasse ancora qualche tassello?
Micheli lo interruppe di nuovo, questa volta bussando. Bosé di soprassalto stirò un "avanti" come un lamento proveniente da un altro universo.
"Signor capitano, c'è stata una segnalazione. C'è un corpo che galleggia sul canale."
Bosé rimase un attimo fermo, come stordito. Poi, mentre qualcosa iniziava a formarsi nella sua mente, rispose.
"Andiamo. Micheli, se oggi mi vedi fumare, non t'azzardare a dire qualcosa a mia moglie".
Il commissario Bosé aveva ufficialmente smesso di fumare ormai da anni. Ufficialmente, perché ogni tanto cacciava fuori chissà da quale altra dimensione un sigaro o una pipa. E fumava, tutto lì, ma lo faceva con la sensazione di colpa addosso che trasudava dal viso come avesse falciato una famiglia per strada con la sua auto. Forse tutto ciò accadeva perché la moglie odiava l'odore del tabacco, le sue labbra che sapevano di quel fumo; o forse perché era stato educato a sentirsi in colpa verso la società per il suo vizietto. Cosa che del resto forniva anche il piacere nascosto in quella cattiva abitudine, anche se non l'avrebbe mai ammesso, Bosé, né e a se stesso ne ad altra anima viva.
Micheli guuidava la volante mentre giungevano al canale, un rigagnolo che attraversava Cremignola. Alcune nutrie grosse come gatti, dal pelo grigio da sembrare argento spietato e dagli occhi taglienti circondavano da ogni parte il cadavere, riverso verso il fondo, mentre si arenava contro il basso argine destro; sul cadavere facevano ombra alcuni arbusti cresciuiti alti dalle acque dolci che servivano ad irrigare i campi circostanti Cremignola, questo piccolo mondo antico in cui Bosé era giunto, anni addietro, quasi per caso. C'era una folla di curiosi che alcuni carabinieri tentavano di tenere lontana, a parole e con qualche spintone qua e là, all'occorrenza, quando la premura di scoprire chi fosse stato il morto pareva farsi eccessiva.
Bosé scese dell'auto, si affacciò sul canale, scrutò l'orizzonte. Arrivava il tramonto, probabilmente non avrebbe saputo nulla di quel morto fino all'indomani.
Quelli della scientifica si calarono fra le acque tutti avvolti in tutine che li facevano assieme allevatori di api ed astronauti anni sessanta. Quando portarono su il cadavere, dalle sue tasche tirarono fuori un documento zuppo d'acqua, a stento leggibile. Non era un documento italiano, ma si riconosceva un cognome slavo. Bosé non potè fare a meno di fare due più due e collegare questa morte alla donna su cui già stava indagando.
Il commissario Bosé credeva fermamente in un solo pilastro incrollabile: la vita non segue una logica e ciò che a noi appare intimamente legato, stretto dai lacci dei rapporti causali, nel mondo non è altro che caos. Ed ecco che il suo tirare le somme, il suo accostare due morti, così tante in così poco tempo a Cremignola, lo mise sul chi va là. Non credeva e non credeva a se stesso, e nel non credersi sospettava di se stesso e delle sue teorie. Nel dopocena, mentre Roberta, sua moglie, cercava in ognimodo di allontanare il suo interesse discutendo amabilmente di ricette di dolci, lui, Aldo Bosé, si rinchiudeva in quel suo mondo confuso in cui, non come ci si attenderebbe, la casualità era tutto e non c'era spazio per l'intuito. Non che non ne avesse, anzi, Bosé già sentiva il dolore di quella donna, la sua solitudine, la mancanza di una famiglia, di un'identità. Già sospettava quale sarebbe stata la conclusione della sua indagine, eppure diffidava. Ed in questo sentire e sentirsi solo, la sua notte volò via sulle ali di perla di un lenzuolo sdrucito e un cuscino sudato.
Al mattino ebbe conferma di quanto sospettava. L'anatomopatologo sentenziò che l'uomo di cui avevano trovato il cadavere era morto per annegamento. Sul suo corpo non c'erano segni di violenza: con ogni probabilità si era trattato di suicidio.
Bosé venne a sapere che l'uomo era appena arrivato a Cremagnola dall'Europa dell'est. Senza lavoro, aveva vissuto di espedienti per un po'. Aveva una laurea in filosofia, inutile nel suo paese, figuriamoci in Italia. Con quel pezzo di carta era partito sperando di poter dare un senso a quanto aveva studiato per anni, ed invece s'era trovato armato di cazzuola e cemento. Per un poco aveva tenuto contatti con la donna. Venne fuori che i due s'erano frequentati, forse reciprocamente attratti dalle loro sensibilità, dal sentirsi senza patria. Non erano persone che amassero particolarmente la compagnia, anzi, vivevano appartati. Forse erano scoraggiati, forse si erano semplicemente chiusi in un mondo che non era pronto a conoscerli e a riconoscerne l'umanità. Bosé li vedeva, vedeva il loro reciproco non riconoscersi, vedeva la loro incapacità di sciogliere il loro dolore in qualcosa di nuovo.
Mentre sorseggiava un caffè ricostruiva tutta questa storia, annodando fili, metteva assiene i pezzi di un mosaico. Quelle vite gli apparivano come un quadro la cui trama si stendeva scomposta, lontana, comprensibile solamente immaginando, ricostruendo, inventando. Gli mancavano dettagli, sapeva che avrebbero potuto essere imprescindibili, ma anche che quei dettagli se li erano portati i cocci di un vetro e l'acqua di un canale.
Leggeva Petronio, il Satyricon, ogni sera prima di dormire. Ogni sera sempre lo stesso volume, le stesse storie, perché dentro trovava tutto. Non gli interessava altro. In quel romanzo di cui mancava tutto lui era l'unico possibile inventore di un finale, un finale che solo lui conosceva. Dove s'erano arresi i filologi, giungeva la sua stanca fantasia.
Nella casa dell'uomo venne ritrovata una lettera, era della donna; aveva deciso di interrompere la loro frequentazione, di qualsiasi cosa si trattasse, comunicava la sua decisione. La perizia richiesta sulla calligrafia di quel testo confermò che era stata scritta di suo pugno da quella disgraziata. Era datata ad un giorno prima rispetto alla data della presunta morte. L'uomo l'aveva ricevuta, stando al timbro postale, solo successivamente; agli occhi di Bosé, questo dettaglio toglieva ogni dubbio sull'accaduto. Si fumò un sigaro e chiamò Micheli, comunicandogli la fine delle indagini. Non c'era altro da cercare, non avrebbero trovato altro che domande per cui non ci sarebbero state risposte, e la loro logica, tutti i loro strumenti, tutto non avrebbe fatto altro che frugare come un ladro tra i lacerti di vite ormai morte e sepolte.
Nell'edizione della mattina comparve la notizia: la procura, nella persona del commissario Bosé, chiudeva i due casi. Stando alle indagini si trattava di due suicidi, due vittime della disperazione, della solitudine, o di qualcosa che non stava a Bosé poter aspirare a capire.
lunedì 2 giugno 2014
Guerra giusta e guerra sacra
Per come la vedo io, da insegnante e da divulgatore, oltre che da educatore, certe volte, nell'insegnare storia, soprattutto storia antica, ci troviamo a banalizzare e ad appiattire alcuni temi che, invece, si presterebbero bene all'attualizzazione. Ci sono alcuni concetti che, inconsapevolmente, ci troviamo ad applicare tutt'oggi nell'analisi politica e che trovano origine in epoca antica.
Due concetti molto interessanti, oltre che molto utili, sono quelli di Guerra giusta e di Guerra sacra.
In storiografia, così come nell'analisi politologica, si parla di guerra sacra e di guerra giusta per intendere due modi diversi di sentire e di propagandare una guerra. Entrambe le categorie non fanno però riferimento a categorie morali che, in questa trattazione, saranno quindi tenute da parte.
Per intenderci, in soldoni, parliamo di guerra giusta per intendere una guerra giustificata da principi di diritto; al contrario parliamo di guerra sacra quando il conflitto è giustificato o causato da ragioni ideologiche o religiose.
Date queste premesse, è facile notare come, consapevolmente o no, nello studio della storia possiamo discriminare fra questi tipi di conflitti.
E' per esempio interessante notare come alcuni fra i più noti conflitti dell'antichità sono guerre sacre perché le parti coinvolte nello scontro non sono pronte a riconoscere ragioni al campo avverso o, addirittura, si autocaratterizzano per una presunta superiorità morale, culturale, solo raramente etnica. Pensiamo alle Guerre persiane: vero è che Erodoto cerca di trovare, fino addirittura a cercarle nel mito, delle ragioni di diritto in questo conflitto, ma esso viene sentito in realtà come uno scontro tra cultura, la libera e indipendente Grecia contro la ricca, corrotta e serva Persia. Dimostrazione di questo assunto è poi la volontà di vendetta capeggiata da Filippo II e da suo figlio Alessandro nell'organizzare la spedizione che porterà alla nascita dell'impero del macedone e all'Ellenismo. Ancor più interessante è notare come Alessandro modifichi, nel corso della sua spedizione, la concezione della guerra e di conseguenza la propaganda volta a giustificarla, fino a propugnare la mistione dei popoli, dei Greci vincitori e degli Orientali sconfitti, in un unico grande popolo di cultura greca ma pronto a sottomettersi al nuovo Grande Re.
Guerre sacre si sono succedute nel corso dei secoli: pensiamo alle cosiddette Crociate, guerre religiose per eccellenza, alla Jihad islamica. Ma guerra sacra fu la Seconda Guerra Mondiale, con il suo confrontarsi fra due fronti ben distinti, assolutamente convinti di rappresentare le forze del bene contro le forze del male, da sconfiggere fino all'annullamento. Guerra sacra fu la Guerra fredda per gli stessi motivi.
Ma questo concetto giunge fino a noi: guerra sacra fu la guerra al terrorismo di Bush, dato ben chiaro se pensiamo alle parole con cui questo scontro è stato dichiarato, scontro di civiltà, nuova crociata, guerra al male. Guerra sacra è poi la lotta del fronte islamico capeggiato dall'Iran contro l'esistenza di Israele, e guerra sacra è quella propugnata da larga parte della comunità ebraica contro la nascita di uno stato palestinese.
Diverso il caso della guerra giusta, ovvero di quella legittimata dal diritto. Guerre giuste sono quelle mosse da Roma nell'arco della sua vita repubblicana e che determineranno la sua espansione: le Guerre sannitiche che vengono giustificate dall'intervento in guerra in difesa delle città alleate Capua e Teano, le Guerre puniche con l'intervento in favore degli alleati Mamertini o di Sagunto. Roma è tanto attenta nel giustificare le sue guerre tramite il diritto (un diritto, certo, usato a suo uso e consumo) da scatenare le sue stesse Guerre civili su questa base. Osserviamo così il Senato romano dichiarare guerra a Cesare a causa del suo attraversare armato il Rubicone, o il nipote e figlio adottivo del Dittatore, Ottaviano, scatenare la furia di Roma contro Marco Antonio dichiarando ufficialmente guerra non al suo rivale, bensì alla regina d'Egitto, Cleopatra, rea d'essersi appropriata di terre appartenenti all'Urbe.
Inutile dire come anche il concetto di guerra giusta giunga praticamente immutato fino a noi. Pensiamo solamente alla Prima Guerra Mondiale, in cui le diverse potenze entrano nella mischia non per altre ragioni se non per le politiche di alleanza. Una guerra di posizione che trova una sua soluzione quando, molto di più rispetto al secondo conflitto mondiale, nei diversi fronti serpeggerà il malcontento contro una guerra fratricida e per i più incomprensibile. Non per niente durante la Seconda Guerra Mondiale vedremo azioni, come quelle dei kamikaze giapponesi, soldati che giungono al loro sacrificio perché assolutamente convinti di essere l'incarnazione della giustizia, del tutto inimmagginabili nel primo conflitto mondiale.
Ovviamente incontriamo guerre cosiddette giuste anche nella storia contemporanea: per rimanere alla famiglia Bush, come non citare il caso del primo intervento in Iraq, lì dove il conflitto venne scatenato in ragione della giustezza dell'intervento militare congiunto di più paesi in favore di uno stato sovrano arbitrariamente conquistato da un altro stato. Ovviamente sono guerre sacre anche i vari interventi delle forze congiunte ONU o NATO definite di Peace keeping.
Come si diceva all'inizio dobbiamo avere chiaro che queste definizioni servono spesso più in funzione della propaganda antecedente alla guerra o della sua giustificazione postuma. Sia chiaro che ad un'analisi attenta sarà realmente difficile stabilire di chi siano realmente le ragioni, se le azioni di una o più delle forze in campo siano o no giustificate dalla giustizia o dalla morale. Spesso la guerra nasconde ragioni di natura economica o politica, finanche la semplice politica di potenza. Due casi celebri: la distruzione di Melo da parte degli Ateniesi e la guerra del Vietnam. In entrambi casi ci si potrebbe chiedere perché, in un conflitto di scala ben più larga, si debba giungere allo scontro proprio lì e proprio in quel momento. E la ragione, a duemilacinquecento anni di distanza, sarà purtroppo sempre la stessa. Perché quando un imperialismo vede sgretolarsi il suo potere è costretto a rimarcarlo con la forza. Perché l'indipendenza dei Meli, così come quella del Vietnam, avrebbe rappresentato un precedente. Ecco che se qualcuno potrà decidere da solo il suo destino, allora tutti potranno pretendere di farlo. Qualcosa di inconcepibile per un'esperienza imperialistica tinta di democrazia, sia che sia la democrazia diretta ateniese o la progredita democrazia novecentesca degli USA di Kennedy.
Cambiare per partorire o partorire per cambiare
La Paleoantropologia è una scienza dall'interesse unico, sia per il suo argomento di studio, l'origine dell'uomo, sia per l'evoluzione, è il caso di adoperare questo termine, della disciplina stessa. Ci sono alcune teorie sull'evoluzione della nostra specie che sono in continuo mutamento, soprattutto grazie alle nuove e sempre più sensazionali scoperte archeologiche e all'uso delle nuove tecnologie nell'interpretazione dei fossili umani.
Un punto da sempre molto controverso è il ruolo e l'evoluzione del parto nello sviluppo della nostra specie. Per lungo tempo la teoria comune è stata che, insieme al processo che ha reso l'uomo bipede, l'accrescersi delle dimensioni del cranio umano abbiano portato al modificarsi della regione pelvica dell'Homo rispetto agli animali più vicini o ai nostri stessi antenati. Quindi, stando a questa teoria, il partorire bimbi dai cervelli sempre più grandi avrebbe modificato il corpo dell'uomo.
Oggi questa teoria scricchiola a causa delle più recenti scoperte fra i fossili dei nostri antenati. Si è infatti notato come il modificarsi della forma e della posizione delle ossa pelviche dell'uomo preceda lo sviluppo del cranio. Questo modificarsi delle ossa pelviche, come detto in precedenza, appare collegabile alla necessità di assumere una postura bipede. A questa postura si associa un maggior sviluppo, per esempio, dei glutei anziché dei muscoli dell'interno coscia, con il relativo modificarsi della posizione delle ossa per permettere un posizionamento più funzionale della muscolatura.
Secondo questa teoria quindi solo successivamente il cranio umano avrebbe iniziato a crescere di dimensione, anche grazie al riposizionarsi delle ossa pelviche.
Ma c'è di più. Si è notato come l'uomo sia l'unico o comunque uno dei pochi animali a correre una certa quota di rischio nell'atto del partorire. Se guardiamo ad esempio agli scimpanzè, notiamo come le dimensioni del feto non dovrebbero mettere a rishcio la vita della partoriente, tranne che nel caso di malformazioni, e questo dato è riscontrabile comunemente in natura. A riprova di quanto detto, comunemente in natura la femmina partoriente si allontana dal branco o dagli esemplari della sua specie per partorire da sola, in modo tale da poterli difendere sin da subito da altri predatori o da suoi simili. Questo mostra come sin da subito l'animale possa riprendere le sue normali attività. Non così nell'uomo, dove invece l'atto del partorire può arrivare ad essere molto pericoloso per la partoriente in caso di posizionamento differente dalla normalità da parte del feto. Inoltre l'uomo è forse l'unico caso conosciuto in natura di animale che vive il parto come un momento sociale: la femmina umana ha statisticamente più possibilità di un esito favorevole del parto se è accompagnata in questo momento da altri esemplari della sua specie che la aiutino e la incoraggino. Si è del resto notato come l'uomo partorisca in posizioni che non hanno in genere nulla a che fare con quella che dovrebbe essere la posizione biologicamente più indicata per questo atto, posizioni che permettono invece il rapporto sociale e la comunicazione con altri esemplari della specie. Insomma, il divenire bipedi avrebbe modificato il nostro modo di partorire, permettendo anche la nascita di individui dal cranio più sviluppato, e rendendo questo momento un momento di condivisione sociale.
Assistiamo quindi forse a qualcosa di straordinario: un cambiamento che ha essenzialmente natura biologica che accompagna anche l'evoluzione culturale della specie Homo, una specie in cui ad un certo momento evoluzione culturale e biologica vanno di pari passo e iniziano a sovrapporsi, in cui la stessa capacità di produrre oggetti, non solamente di adoperarli, cambia il rapporto con la natura circostante che, da elemento che causa l'evoluzione biologica, diviene strumento dell'evoluzione culturale della specie.
The Pitt, R. Scott Gemmill
The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....
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Quella che leggete è la mia risposta alla lettera del collega Matteo Radaelli , pubblicata sul Corriere della sera giorno 2 settembre e onl...
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Per chi si chiedesse come fare ad allontanarsi dai social network dei broligarchi di Trump, un po' di alternative: 1. Friendica , la cos...
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http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/7f/Tomba_Della_Fustigazione.jpg La sessualità nell’antichità viene spesso considerata ...