lunedì 30 marzo 2015

Ma il secolo breve è davvero finito?



Il discorso che incomincia con questo post è di certo qualcosa di molto complesso e che mi riprometto di trattare più compiutamente. Tuttavia in questi giorni per diversi motivi mi sono trovato a riflettere su questa questione, ragion per cui provo ad esporre rapidamente quello che mi frulla in mente. La definizione di Secolo breve, data dallo storico inglese Hobsbawm al Novecento è nota ai più. Le considerazioni dello storico, la stessa periodizzazione fornita, 1914 - 1991, mi sembrano sempre più deboli.
Sia chiaro, il mondo è davvero cambiato dal 1991 ad oggi, non si discute. Ma questo cambiamento è così radicale come appariva negli anni novanta del Ventesimo secolo? Direi di no.
Partiamo da un fatto: la globalizzazione, che dagli anni novanta ha avuto largo sviluppo, era già in essere prima. Lo era già da un pezzo, a dire la verità, cosa di cui ci accorgiamo se guardiamo alla storia del Novecento con uno sguardo che abbraccia un panorama più ampio del semplice Occidente. Ci accorgiamo così che dall'epoca delle colonizzazioni e degli imperialismi, i modi di vivere, gli usi, i costumi e i prodotti occidentali trovano una sempre più ampia diffusione su tutto il globo.
Certo, la globalizzazione degli anni novanta si avvantaggia di un medium che prima aveva scarsa diffusione, la rete. Ma la rete è in realtà molto meno diffusa di quanto si crede, se ad essa hanno accesso ancora meno della metà degli abitanti del pianeta, e trova forti limitazioni nella censura che i singoli regimi applicano ai contenuti fruibili nel web. In questo senso, ancora oggi il ruolo più incisivo è giocato da altri media, tv e radio in primis. Mezzi molto, molto novecenteschi.
Parlavamo di ideologie. Ebbene, con la caduta della cortina di ferro, cosa è cambiato da questo punto di vista? Ad un comunismo che di comunismo aveva ben poco se ne è sostituito un altro, che di Marx sa ancora meno. Il capitalismo del libero mercato è ancora lì, immobile, anzi. Addirittura con la presidenza Clinton sono state cancellate le norme che distinguevano le banche volte al credito dei piccoli risparmiatori e le banche rivolte alla finanza, tornando di fatto ad una condizione pre-crisi del 1929. Ancora molto, molto novecentesco.
Sempre rimanendo nell'ambito delle ideologie, questi primi decenni del Ventunesimo secolo hanno visto la diffusione del modello liquido del partito, e la conseguente caduta del partito di massa. In realtà questo nuovo modello di partito è ancora ben lontano dall'affermarsi, sempre che ciò avvenga. Gli esempi tedeschi e italiani del Partito dei pirati e del M5S ci dicono che al consenso sui social network non corrisponde per forza il successo elettorale, soprattutto in un Europa in cui l'età media è molto alta. Non diverso il caso delle primavere arabe, del movimento degli Indignados spagnoli o di Occupy negli USA. I movimenti leaderless si sono fino ad oggi rivelati più che altro dei fuochi di paglia, hanno apportato nella politica una ventata di nuovi contenuti, ma senza riuscire a diventare forza di governo. Lì dove sono arrivati al potere, il caso di Syriza in Grecia, l'hanno fatto scendendo a compromessi e assumendo la struttura tipica del partito di massa guidato da una figura carismatica, un leader.
Del resto, ciò che appare evidente in questa prima fase del Ventunesimo secolo, è come assuma sempre più importanza l'apparente contatto diretto tra il leader e la massa, bypassando gli organi intermedi. Il partito liquido assomiglia sempre di più al partito nazione, il partito in cui il proclama del leader non viene più proposto a reti unificate, o dal balcone del palazzo presidenziale di fronte a folle adoranti, ma di fronte a folle adoranti pronte a distribuire i loro like sui social network. Cambiata la forma della comunicazione, non ne è cambiata la sostanza, un rapporto solo apparentemente alla pari. Tutto molto anni trenta del Novecento, tutto molto novecentesco.
In questo primo scorcio del Ventunesimo secolo abbiamo del resto visto riaffiorare temi e ideologie che pensavamo scomparse. L'europa è stata attraversata da una ventata xenofoba e neofascista, alimentata dalle paure di pseudo-religiosità come quella dell'Is, figlia di una politica occidentale che, come nel Novecento, ha continuato ad armare di volta in volta il signore della guerra più utile ad amministrare il Medio Oriente, per poi denunciarne gli orrori ed invocare contro di esso la crociata civilizzatrice. Non per niente, la parola crociata è tornata nel nostro vocabolario, riportandoci indietro addirittura all'epoca dell'Impero Ottomano.
In Oriente Cina e Giappone, in un'escalation nazionalistica, si contendono il controllo del Pacifico, armeggiando liberamente con la storia, usata a scopo di propaganda: il caso ancora irrisolto del Massacro di Nanchino è l'esempio più evidente di come, dopo settantanni, non si sia capaci, o non si voglia fare luce su eventi traumatici che hanno coinvolto in primo luogo l'idea stessa di cosa è umanità e cosa non lo è. Il negazionismo giapponese, così come quello sempre più diffuso in Europa sul dramma dell'Olocausto, sul genocidio degli Armeni, sui genocidi delle popolazioni slave nell'ex Yugoslavia, sui crimini del Fascismo o della Francia coloniale, dimostrano come in tutti questi frangenti sia ancora endemicamente diffusa l'idea di una superiorità ontologica di una cultura occidentale, e in essa delle singole culture che di volta in volta si fronteggiano. Il nazionalismo russo poi, con le sue mire egemoniche sull'est Europa, richiama nazionalismi già noti nel Novecento.
Rimanendo nell'ambito culturale, al Postmodernidmo imperante nella seconda metà del Novecento, si affianca e si sostituisce una moderna forma di Realismo. Benintesto, se il Postmodernismo è stato per molti aspetti il simbolo del disimpegno dopo il tentativo di riconoscimento da parte degli intellettuali post Seconda Guerra Mondiale, il Realismo, oggi come ieri, si presta ad una facile manipolazione da parte dei potentati. Il descrivere una realtà così come la si pensa può divenire cassa di risonanza per l'idea diffusa di realtà che un partito-nazione, come nel caso del totalitarismo russo novecentesco, vuole propagandare. Se così fosse, il nuovo realismo, più che un ritorno all'impegno, potrebbe coincidere con un ritorno all'ordine.
Tutto ciò già dovrebbe dimostrare come la teoria del Secolo breve sia oggi poco condivisibile, come il Ventunesimo secolo sia, molto di più di quanto si potesse immaginare in passato, ancora una propagine del Ventesimo secolo.
Certo, come dicevamo abbiamo assistito al progresso rapido di alcune realtà, i paesi del BRIC, alla diffusione della scolarizzazione e dei diritti delle donne, degli anziani, dei malati. Ma in questi frangenti, purtroppo, non abbiamo assistito a quelle rivoluzioni che erano immaginabili con la fine dell'URSS. Semmai, in alcuni casi, abbiamo dovuto assistere nostro malgrado persino ad una involuzione. Sono ancora ben presenti in tutto il globo campi di concentramento, la tortura è pratica accettata in molte culture, mentre altre e altri paesi, come l'Italia, non fanno abbastanza per combatterla (il nostro paese è ancora privo di una legge che ne vieti la pratica), in alcune zone dell'Africa, dell'Asia, del'Europa e degli USA i diritti delle donne e degli omosessuali, anziché trovare un largo consenso, come immaginabile, sono sempre più sotto attacco, se non addirittura negati o aboliti.
Sul piano dello sviluppo economico poi, intere aree del globo non hanno raggiunto i livelli di progresso attesi, dilaniati al loro interno da guerre civili e carestie che trovano, anche in questo caso, spiegazione nel retaggio e nel caos etnico, religioso ed economico delle colonizzazioni europee, del resto mai del tutto scomparse, se si pensa che alcune multinazionali occidentali hanno fatturati che superano anche centinaia di volte il prodotto interno lordo di molte nazioni.

Dato tutto ciò possiamo davvero parlare del Novecento come Secolo breve, e non, piuttosto, di un secolo lungo?

sabato 28 marzo 2015

Peter McPhee, The French Revolution 1789 - 1799

Peter McPhee è uno studioso australiano dell'Università di Melbourne, specializzato sulla storia della Francia moderna e contemporanea. In questo suo lavoro, The French Revolution 1789 - 1799, l'autore studia quella che è la più famosa rivoluzione avvenuta nell'Occidente, la Rivoluzione francese.
Leggendo il libro appare subito chiaro che la Francia rivoluzionaria è un paese preindustriale, in cui solo una piccola parte della popolazione vive nei grossi centri urbani, in particolar modo Parigi, e in cui il livello d'istruzione medio della popolazione è basso e comunque dipendente dall'educazione religiosa di base, fornita dai preti diffusi nelle campagne francesi. In questo contesto agiscono anche intellettuali illuministi che, partendo dagli assunti e dalle conclusioni raggiunte nella di poco precedente Rivoluzione americana, oltre che dai migliori frutti della speculazione illuminista, propagandano una rivoluzione culturale che debba agire assieme al regime consolidato, più che sostituirlo. Va tuttavia specificato come le teorie degli illuministi abbiano una circolazione limitata, mentre nelle campagne saranno diversi i motivi che spingeranno alla rivolta, in primis povertà, superstizione, maldicenze (ampia è ad esempio la diffusione di una narrativa pornografica ambientata a corte e con protagonisti il re e la regina di Francia).
Date queste premesse, risulta comprensibile come la crisi economica seguita alla Guerra dei sette anni costringa Luigi XVI alla convocazione degli Stati Generali, anche se, come viene notato nel volume, la richiesta della convocazione dell'assemblea giunge proprio da quel ceto sociale, quello dei nobili, che, nel tentativo di difendere i propri privilegi fiscali, accusa la monarchia di attentare aii principi stessi del potere e dello stato francese. Ben presto gli Stati Generali diventeranno terreno di scontro tra nobili e terzo stato,  rappresentato per la maggior parte dalla borghesia, strato sociale che riuscirà a prevalere grazie all'insurrezione della città di Parigi e alla presa della Bastiglia, ponendo di fatto fine all'ancien regime.
La storia successiva della Rivoluzione risulta quanto mai controversa, dipanandosi tra diverse correnti, picchi di acume intellettuale, come La dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, e momenti di crudeltà inaudita, come nel caso dei massacri commessi a danno dei nobili e dei preti che tentavano di resistere alla diffusione del nuovo credo repubblicano. Sarà tuttavia con il terrore di Robespierre che il decennio rivoluzionario raggiungerà l'apice della sua violenza, il Terrore, comprensibile solo nell'ottica di una difesa estrema di una Repubblica già in crisi, in primis dal punto di vista finanziario. Dal Terrore la Francia saprà uscire solo con una svolta reazionaria e borghese, che tuttavia non saprà dare una stabilità alle strutture politiche nazionali, tanto da aprire le porte alla dittatura di Napoleone Bonaparte.
Questo volume si caratterizza per la ricchezza dell'analisi, condotta sempre con rigore e corredata da un ricco apparato bibliografico. In conclusione l'analisi conduce alla domanda che dovrebbe essere posta riguardo alla Rivoluzione francese, ovvero che importanza ha avuto questo processo rivoluzionario nella storia dell'Europa che si avviava verso la rivoluzione industriale? E per gli altri continenti? E oggi?


venerdì 20 marzo 2015

Se la scuola diventasse davvero un'azienda - Metronews #laverascuola


Di certo avrete sentito paragonare la scuola ad una azienda. Un paragone forzato, utile solo a puntare sui poteri del nuovo dirigente scolastico. Ragioniamo: un'azienda fattura miliardi di euro e investe, i manager puntano sui ricavi e tagliano i rami morti, i settori o i prodotti non competitivi. Riconvertire solo se conveniente, al massimo si tiene il prodotto scadente a costo zero.
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L'oblio della memoria e la nascita della democrazia

Testo integrale con note

Con il passato, con la Storia con la lettera maiuscola, con la memoria, a volte succedono cose strane. Cose che, a pensare male, potrebbero essere l’indizio di una cattiva coscienza. Cose come il dimenticare, l’oblio voluto, la damnatio memoriae di qualcosa di cui, al contempo, ci si vanta.


Così capita, per esempio, con la democrazia.


Sì, perché a vantarci di essere democratici, della nostra tradizione occidentale di democrazia, siamo bravi tutti. Eppure. Eppure c’è qualcosa che non torna, c’è puzza di marcio.


Basti pensare al fatto che in pochissimi sanno chi l’ha inventata questa benedetta democrazia. Men che meno poi sapere quando, dove, perché, per quanto tempo è esistita.


Per carità, nei salotti bene, tra persone di media cultura vi risponderanno pure la più classica delle risposte: l’hanno inventata i Greci questa benedetta democrazia. Bene. Mica tanto. Alessandro era greco, e sulla democrazia ha camminato con gli stivali chiodati. Come suo padre. Vi diranno che per la democrazia i Greci hanno combattuto, vi citeranno Leonida, i Trecento delle Termopili. Che erano Spartani, oligarchi: la democrazia la odiavano, non ne volevano sapere. Vivevano massacrando i loro schiavi come rito di iniziazione.


Qualcuno finalmente vi citerà Atene, il Partenone, Pericle. Atene, sì, ma quale Atene? Perché Atene è stata anche la città della tirannide di Pisistrato, l’uomo che fece mettere su carta Iliade e Odissea, ma che comandava da solo, era un tiranno, nel senso letterale. Pericle poi, si vantava della democrazia mentre la ammazzava; la sua democrazia era una dittatura mascherata, deteneva il potere dall’alto delle sue competenze militari. No, Pericle, il più bel cantore della democrazia ateniese, non ne era il padre, forse uno dei carnefici.


E quindi? Qualche studente del liceo classico si ricorderà di Solone, della liberazione degli schiavi ateniesi, della redistribuzione delle terre. Ma non era ancora la democrazia: l’Atene di Solone fu forse il primo luogo al mondo in cui finalmente si potesse realizzare la scalata sociale, diventare un ricco partendo dal nulla. L’Atene di Solone è il sogno americano, ma il sogno americano senza il Congresso e le elezioni presidenziali, perché il potere nella città di Solone è sempre detenuto da pochi.


Lo ripeto, è fortemente indicativo che il nome del padre della democrazia, le modalità stesse con cui la democrazia è nata, siano parte dell’oblio della storia occidentale. Non fanno parte della nostra narrazione quotidiana, preferiamo raccontare le gesta dei grandi uomini soli, le ernomi individualità che giganteggiano sulle folle anonime e schiave. Alessandro, Cesare, Ottaviano, Carlo, Napoleone, Mussolini, Stalin, Hitler. Preferiamo raccontare la storia economica dell’Occidente, le sue scoperte nell’agricoltura, la sua rivoluzione industriale, la deindustrializzazione. Esportiamo la democrazia senza neanche sapere di cosa si tratta.


Quando nell’anno 511 - 510 a. C. i cittadini ateniesi cacciarono Ippia, il figlio di Pisistrato, la città si trovò in preda al caos. I clan si contendevano il potere, Clistene, uno dei capi più in vista, fu costretto all’esilio dal rivale Isagora. Lo stesso Isagora tentò di imporsi come signore della città, richiedendo l’aiuto del re di Sparta Cleomene, che già aveva aiutato gli Ateniesi a cacciare il tiranno. Ma a questo punto accadde qualcosa di inatteso, qualcosa di imprevedibile, mai del tutto chiarito e ancora discusso tra gli studiosi. La vulgata scolastica vi avrà forse parlato (ma è più probabile che tutto ciò sia stato omesso) di un Clistene che convince gli Spartani a tornare a casa, fa passare con il filo della spada Isagora e i suoi iniziando la transizione di Atene. Eppure Clistene non c’era, stava in esilio. Il rischio della tirannia non è stato sventato da un uomo, ma da una comunità. Una comunità non eterodiretta, una comunità senza leader (per quello che ne possiamo sapere noi oggi). Un’enormità. Un fatto di una portata straordinaria. Ma non lo sapevate. Una comunità che si sente tale senza bisogno di qualcuno che le dica di esserlo, non vuole correre il rischio che qualcuno decida per lei, questo qualcuno, gli Spartani, lo caccia. Ed elimina chi ha pensato di poter decidere ancora per lei, Isagora.


Questa è una rivoluzione, ma non ve lo dicono che la democrazia è nata con una rivoluzione.


Mettiamo i puntini sulle i: i Greci, molti almeno fra di loro, già da un po’ volevano decidere le loro vicende politiche; almeno da quando avevano iniziato a combattere tutti assieme nella nuova falange oplitica. Facciamo centocinquant’anni circa, alla buona. Io muoio in guerra con te. Certo, tu sei ricco e io di meno, o sono proprio povero: ma in guerra tu muori come muoio io. Non sei Achille, non sei Odisseo, mio caro, non ci credo più a questa assurdità che se sei nobile, di buona famiglia, ricco, sei legittimato a comandare. Io muoio con te, io decido con te.


E giù di legnate, tante, che quando non se ne poteva più si chiamava un tiranno. Uno che facesse da pacere, qualche regalino di qua, qualche regalino di là, ci calmiamo tutti, ecco. Qualche città si è pure fermata lì, ma Atene no, almeno, per qualche decennio no.


Perché la democrazia, quella vera, non resiste ad Atene più di qualche decennio. Poi diventa governo autoritario. La democrazia è stancante, sempre. È un bel balocco di cui ci si fregia, lo si vanta con gli amici, ma giocarci davvero, no, richiede impegno.


Clistene torna, il suo rivale non c’è più. Ma che fare, tentare di prendere il potere? Per fare la fine di Isagora? No, non conviene. Qui occorre fare qualcosa di diverso, rompere gli schemi, pacificare, unire una comunità che in nuce già c’è.


Il genio di Clistene, il padre della democrazia, sta qui.




foto: Wikipedia


Clistene si inventa un sistema, una macchina complessa. Talmente complessa che ha dei punti deboli, senza dubbio. Eppure è ammirevole ancora oggi. Un sistema in cui nessuno fra quelli che allora si consideravano degni di essere chiamati cittadini era escluso. Un’assemblea a cui tutti i cittadini partecipano, tutti. Tutti, certo, i maschi adulti e liberi. No donne, no bambini. Non è ancora il tempo delle suffragette, certo, ma siamo anni luce avanti rispetto alle trenta persone che comandano tutta Sparta. Figuriamoci poi la futura Macedonia, una monarchia, uno solo al comando. Qui ad Atene abbiamo in potenza un’assemblea di trentamila cittadini. Cittadini che vengono da ogni parte del territorio, città, costa, campagna, in un sistema che scardina i vecchi clan; le nuove tribù sono formate da trittie, in ogni trittia c’è un po’ di città, un po’ di costa, un po’ di campagna, in modo che i rappresentanti di ogni tribù non finiscano solo per pensare al proprio meschino interesse.


Certo, trentamila persone assieme, è un po’ ingestibile. Per fare le leggi forse è meglio qualcosa di più ristretto. Altro colpo di genio. Sorteggiamo. Una seconda assemblea, più piccola, che proponga le leggi. Cinquecento uomini, a turno, da ogni trittia, divisi in dieci commissioni da cinquanta, una per ogni mese del calendario ateniese.


E poi le magistrature, per cui si viene eletti o sorteggiati, a seconda del livello di competenza richiesto. Sei arconte? Sorteggiato. Giudice? Sorteggiato. Vuoi fare lo stratega, il generale? No, mio caro, per questo abbiamo bisogno di uno bravo, lo eleggiamo.


Perché ad Atene nessuno può esimersi dal bene comune. Come Tucidide mette in bocca a Pericle, il cittadino ateniese disinteressato alla cosa pubblica, non è innocuo, è inutile. Nell’Atene che ha in mente Clistene l’ignoranza non è un diritto, è una colpa.


Trami contro la democrazia? Vorrà dire che stai tramando contro di me, di me, di me, di me, di me, di me, così per trentamila. E noi non te lo permettiamo: no, non ti uccidiamo, non siamo barbari; ma la democrazia non è compatibile con la tirannia, è un aut aut. Facciamo che scriviamo un nome su un pezzetto di ceramica, il coccio di un vaso, e ogni anno chi è il più votato vince una vacanza premio per tipo tutta la vita lontano da Atene. Welcome ostracismo.


Un’utopia, forse, quella di Clistene. Una città in cui il cittadino è parte davvero di una comunità, è chiamato ad assumersene la responsabilità, a farne parte. La città per cui davvero Aristotele potrà dire che nessun uomo è un’isola. Quale delle democrazie di cui ci fregiamo oggi tenta davvero di raggiungere queste vette? Quale si può vantare di questi natali?


Eppure di Atene voi conoscete altro, il Partenone, Fidia, Pericle, Socrate...Ma la storia non è fatta di bianchi e neri, quella è la memoria, che ben si presta a rimuovere, cancellare, nobilitare o infangare.


Perché la democrazia di Clistene, così nobile, rende forte e unita una città, una comunità. Comunità che, democratica al suo interno, diventa schiavile, imperialista verso chi le gravità attorno. Occorrerà prima rendersi conto della propria forza, le Guerre persiane e la vittoria insperata. Ma poi sarà la città della guerra a Sparta, della peste, dell’assedio a Siracusa, dei Melii, di Pericle, di Cleone, Alcibiade...


Mentre a Sparta, la città dei trenta al comando, dei due re, quelli della guerra come modello di vita, dalla guerra stavano lontani se non strettamente necessaria. Loro la democrazia non la volevano esportare. Per loro ogni uomo perso in battaglia era uno schiavo che rischiava di rialzare la testa in città. Un rischio troppo grande. Il paradosso della democrazia che si vuole esportare come imperialismo e dei guerrafondai che si tengono alla larga dalla guerra.


La storia greca è così, voi non la conoscete, non lo sapete, ma tutte le contraddizioni dell’Occidente del terzo millennio stavano già lì


BIBLIOGRAFIA

Aristotele, Costituzione degli Ateniesi
Diodoro Siculo, Bibliotheca historica.
Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi.
Erodoto, Storie
Josiah Ober, The Athenian Revolution: Essays on Ancient Greek Democracy and Political Theory, Princeton University Press, 1996
Plutarco, Vite parallele
Senofonte, Costituzione dei Lacedemoni
Tucidide, Storie

lunedì 16 marzo 2015

Ogni tanto una soddisfazione

Condivido con voi una e-mail di un mio ex alunno.
Prof, ho scoperto che mi piace Calvino
Ho riletto Il visconte dimezzato, Il cavaliere inesistente, Il barone rampante e adesso sto leggendo le Cosmicomiche.
Prima li guardavo e basta e mi sembravano pesanti ma adesso a leggerli mi sono piaciuti molto, aveva ragione ahahaha
Che dire, ogni tanto una soddisfazione, per fortuna. Una boccata d'aria fresca, in questi giorni di riforme apocalittiche, ansia pre-esami e polemiche varie ed eventuali.


martedì 3 marzo 2015

Saggio breve: D'Annunzio, una vita per la bellezza


D’Annunzio, la vita per la bellezza



Sin dalla pubblicazione delle sue prime opere, Gabriele D’Annunzio è sempre stato capace di destare meraviglia, stupore e scandalo, tanto da crearsi addosso una patina di invidia e di rancori dura a sparire. Questi sentimenti di malcelato disprezzo nei confronti di questo autore trovano spesso una ragione ancora più forte di esistere nella scelta di aderire alle idee del Fascismo. Nondimeno Gabriele D’Annunzio è uomo del suo tempo: vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’autore è attore e artefice di quelle che sono le idee diffuse tra gli intellettuali del suo tempo, quel variegato sistema di idee e paure che viene chiamato Decadentismo.


Per i motivi sopra elencati, riguardo all'opera di Gabriele Rapagnetta, in arte D'Annunzio, è da tempo aperto un controverso dibattito. In sostanza, la questione che si pone è la seguente: quello dannunziano è reale Estetismo?

Al riguardo, con questo saggio verrà sostenunta una tesi ben precisa, ovvero che in D’Annunzio la scelta vitalistica o superomistica, finanche quella divistica, sono forme di espressione di un bisogno: la difesa della bellezza nella sua purezza, messa in pericolo dalla moderna società di massa.


Una prima chiara dimostrazione di questa tesi viene fornita da D’Annunzio in un suo romanzo, Il piacere, pubblicato nel 1889 e sin da subito considerato uno dei manifesti dell’Estetismo europeo. Protagonista del romanzo è Andrea Sperelli, un dandy che rinfranca il proprio spirito nella ricerca della bellezza della forma, applicata ad ogni campo della vita sociale. Per Sperelli forma più alta della bellezza è quella della parola, tanto che per il personaggio (come per l’autore) “Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella conscienza degli uomini. [...] Quando il poeta è prossimo alla scoperta d'uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d'improvviso tutto l'essere.” Insomma la bellezza è piacere, non solo nell’atto del suo conseguimento, ma nella pratica stessa della sua ricerca.


L’azione politica di D’Annunzio va quindi vista in questa prospettiva: non un qualcosa che abbia senso di per sé, ma come l’atto di ricerca di una forma di azione che sia ad un tempo bellezza, o che ne sia difesa, e che in questo modo si giustifichi. Al riguardo possiamo quindi affermare che l’impegno di Gabriele Rapagnetta (il vero cognome del nostro autore) prima con la destra, poi con la sinistra, e infine vicino al Fascismo, sia il tentativo estremo (e mal riuscito) di difesa di una bellezza avvertita come ormai divorata dal mercato, dalla società di massa e dalle loro esigenze, una bellezza elitaria certo e anacronistica, ormai al suo tramonto (Barbéri Squarotti 1982).


Nondimeno occorre riconoscere come il continuo tentativo del nostro autore di porsi al centro dell’attenzione dei media e del pubblico metta in dubbio la sua reale vocazione estetizzante, lasciando piuttosto immaginare il prevalere dello smisurato io del poeta nei confronti di ogni altra istanza (Gioanola 1997)


Ma sia l’esito delle vicende di D’Annunzio, sia i risultati delle sue opere migliori smentiscono questa tesi. Partendo da queste ultime, la ricerca della perfezione formale in opere dai tratti più intimi come i migliori componimenti di Alcyone o le pagine più ispirate di Nottuno mostrano come, pur nelle alterne fortune e ispirazioni, la ricerca della bellezza formale sia il tratto costante dell’opera dannunziana. Tratto tipico dell’intera vita dell’autore, che anche quando si ritirerà dalle vicende politiche e pubbliche, si rinchiuderà nella sua splendida e variegata villa presso Gardone Riviera, monumento al suo estro e al suo gusto.


In conclusione possiamo affermare come sia il personaggio di Andrea Sperelli ne Il piacere o le pagine migliori di Alcyone e di Notturno, dimostrino quanto il tratto tipico dell’opera letteraria di D’Annunzio sia la ricerca estetica e formale. Tratto che contraddistingue la vita stessa del poeta, nella sua vita pubblica come in quella privata, fino alla morte.




AAVV., Enciclopedia italiana, Treccani 2015

G. Barbéri Squarotti, Invito alla lettura di Gabriele D'Annunzio, Mursia, Milano 1982

G. D'Annunzio, Il piacere, 1889

G. D'Annunzio, Alcyone, 1903

G. D’Annunzio, Notturno, 1921

E. Gioanola, Introduzione al Novecento, Colonna, Milano 1997



Saggio breve: il falso mito dell'estetismo di D'Annunzio

Il falso mito dell'Estetismo dannunziano



Chi è l'esteta? Oggi questo termine ha assunto un accezione diffusa, spesso spregiativa, come di persona i cui gusti, i modi e il linguaggio siano eccessivamente raffinati. Tuttavia, storicamente, l'Estetismo è "Propriamente, atteggiamento del gusto e del pensiero che, in quanto pone i valori estetici al vertice della vita spirituale, considera la vita stessa come ricerca e culto del bello, come creazione artistica dell’individuo." (Treccani 2015). In questo senso l'Estetismo è un movimento culturale e artistico che si diffonde in Occidente tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, nell'ambito del Decadentismo. Tra i suoi iniziatori troviamo grandi della letteratura europea quali Oscar Wilde, Joris Kars Huysmans o il nostrano D'Annunzio.

Tuttavia, riguardo all'opera di Gabriele Rapagnetta, in arte D'Annunzio, è da tempo aperto un controverso dibattito. In sostanza, la questione che si pone è la seguente: quello dannunziano è reale Estetismo?

Al riguardo, con questo saggio verrà sostenuta una tesi ben precisa, ovvero che in D'Annunzio, più che prevalere un reale e puro interesse per la bellezza, ciò che possiamo osservare è il tentativo di adoperare un sentimento diffuso fra gli intellettuali europei contemporanei per il proprio tornaconto.

Infatti, leggendo lo stesso autore nel romanzo in cui più innalza i valori dell'Estetismo, ci appare chiaro come la ricerca della bellezza sia per D'Annunzio, più che un fine, un mezzo. Ben lontano dalla ricerca della bellezza per la bellezza, Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo, dedica tanta cura al suo corpo, alle sue maniere, al suo abbigliamento, per un obiettivo: l'affermazione di se stesso (e la sopraffazione degli altri). Inevitabilmente questa tendenza, già chiara nel Piacere diventerà quella prevalente dopo la conoscenza di (Nietzsche) (Gioanola 1997).

Non va dimenticato poi come D'Annunzio abbia ben chiara la situazione del mercato intellettuale italiano coevo. La sua vita, come quella di Sperelli, deve essere "inimitabile". Questa inimitabilità ha però un obiettivo: creare l'immagine di un uomo superiore, da prendere come vertice irraggiungibile, un divo. Un divo che, in quanto tale, accrescerà le sue vendite (e quelle del suo editore) (Berardinelli 1982).

Proprio quest'ultimo tratto, il dato che la biografia di D'Annunzio è inscindibile dalla sua opera letteraria, diventa strumento per affermare che l'autore si muove "nello sforzo disperato di salvare la bellezza dalla definitiva rovina nell'economicità [...] sempre più spinta [...] verso la morte, il silenzio" (Barberi Squarotti 1982)

Anche leggendo le opere in cui però apparentemente prevale il tratto estetizzante, come le Laudi e, soprattutto, Alcyone, la ricerca della bellezza, della musicalità, quel verso tanto cantato dall'autore come strumento di reale conoscenza, è sempre strumento di affermazione della superiore sensibilità del poeta. Leggendo La pioggia nel pineto possiamo osservare come sia sempre l'autore a condurre, attraverso la sua superiorità iniziatica, l'interlocutore, Ermione, verso la fusione con la natura. Così il vitalismo del componimento è contemporaneamente affermazione del superomismo dannunziano e momento di ristoro, quasi l'attesa del momento in cui l'io del poeta potrà trovare l'agognata e sicura affermazione.

In conclusione possiamo affermare come sia il personaggio di Andrea Sperelli ne Il piacere che la biografia stessa di D'Annunzio confermino come per l'autore l'Estetismo, più che un fine, sia un mezzo di affermazione e che, anche dove la vena estetizzante sembra essere più forte, la bellezza appare come momento di riposo e di ristoro nell'attesa del nuovo assalto e del sicuro successo del superuomo.



AAVV., La cultura del 900, a cura di A Berardinelli, Mondadori, Milano 1982

AAVV., Enciclopedia italiana, Treccani 2015

G. Barberi Squarotti, Invito alla lettura di Gabriele D'Annunzio, Mursia, Milano 1982

G. D'Annunzio, Il piacere, Treves 1889

G. D'Annunzio, Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, 1903

G. D'Annunzio, Alcyone, 1903

E. Gioanola, Introduzione al Novecento, Colonna, Milano 1997







Esempi di analisi del periodo tratti da Uno, nessuno e centomila







The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....