lunedì 29 settembre 2025

Crisi (di mezz'età)?

Dicevo che il mio interesse e il mio bisogno per i social fondati sugli algoritmi è sceso clamorosamente negli ultimi tempi. Certo, pubblico e riposto anche lì, ma frequento sempre meno le bacheche o le pagine altrui, mi interessa sempre meno quello che il feed mi propone.

In realtà questo vale sia dentro che fuori i social.

Un tempo ero decisamente un ascoltatore e un osservatore più attento è interessato. Ora, mi accorgo, mi sento travolto. Certo mi travolge il flusso delle notizie, l'eccesso di informazioni. Ma non è solo quello.

In generale il mio umore è sempre più rabbuiato, come se una nube densissima si avvicinasse a tutti noi e noi non sapessimo come allontanarla, come allontanarci, come disperderla. Stiamo qui, inermi e inerti, in attesa che passi o ci sommerga. Come si fa a non stare male vivendo così?

Poi, nella vita di tutti i giorni, per carità, le soddisfazioni arrivano, lavorative, familiari. Ma il non detto, il non ancora accaduto, ciò che non ho visto e avrei voluto (o temo), ciò che non ho udito e provato e cerco (o fuggo) sono lì, attendono al varco, e l'unica cosa che mi sembra di essere in grado di fare è attraversare il guado sperando di non farmi troppo male.


Tornare ad una rete diversa

Eccoci su un altro social.

Perché?

Perché cresce il desiderio di tornare ad una rete diversa in cui anche lo stare sui social sia guidato dall'interesse personale e dalla condivisione di idee e amicizie, più che da un algoritmo e dalle bolle informative.

Stare su un altro social perché questo pare favorire la condivisione di idee e pensieri lunghi, più che slogan e gattini.

Stare su un altro social perché c'è bisogno di un maggiore controllo dei propri dati, e che questi non stiano in mano a pochi colossi americani.

Insomma, qualche ragione per provare questo social la si trova.

mercoledì 10 settembre 2025

Pluto, Naoki Urasawa


Pluto, diretto da Naoki Urasawa, è la trasposizione anime del manga omonimo di Osamu Tezuka, già autore di Astro Boy. L'arco narrativo raccontato sviluppa le vicende di una serie di robot animati dalle intelligenze artificiali più evolute al mondo. Tra questi,  Gesicht, formidabile detective, Atom, il ragazzino che poi diverrà Astro Boy, Epsilon, robot pacifista.

Le vicende iniziano a causa di una serie di uccisioni di robot, che, si scopre, sono legate ad un conflitto del passato, la  trentanovesima guerra dell'Asia Centrale. A poco a poco scopriamo che dietro la morte dei robot più celebri al mondo sta la volontà di rivalsa di uno scientizato persiano dopo la sconfitta della propria patria nella guerra. Lo scienziato nel segreto del proprio laboratorio ha quindi realizzato una formidabile arma di distruzione di massa, Pluto, per sterminare i robot che avevano causato la sconfitta della Persia, e i loro creatori. La reazione dei robot a questa caccia all'uomo viaggia attraverso tutta la gamma delle emozioni, mostrando come questi artefatti sono diventati nel frattempo talmente evoluti da poter simulare, se non provare, le stesse sensazioni ed emozioni degli uomini; nel frattempo attraverso flashback scopriamo che la guerra contro la Persia, più che dalla scoperta di vere prove di armi di distruzione di massa, era stata causata dal timore di uno stato, la Tracia, che la propria rivale, la Persia, potesse sviluppare una tecnologia per rendere coltivabile il deserto e di conseguenza arricchirsi.

Pluto riesce a sterminare quindi i sette robot, ma il creatore di Atom lo salva e riporta in vita, con una personalità talmente sviluppata da poter essere equivalente a quella di un essere umano. Atom quindi raggiunge Pluto, solo per scoprire che lo stesso robot è vittima del proprio creatore, e che esiste un'altra arma di distruzione di massa, Goji, che distruggerà la vita biologica sulla terra lasciando in vita solo i robot. Atom e Pluto riescono alla fine a fermare Goji, con il sacrifiio di Pluto stesso.

La serie, prodotta da Netflix, si caratterizza per un'animazione e un character design molto elaborati. Ma ciò che risulta davvero avvincente è la narrazione stessa, che, a partire dalla  commistione tra tematiche attualissime e una rilettura postmoderna e postapocalittica di Pinocchio, finisce per ragionare su ciò che rende umano l'uomo. I robot di Pluto finiscono per costringere a mettere in discussione l'umanità in quanto tale. Cosa spinge l'uomo ad agire? In che modo formuliamo ipotesi, stabilitamo certezze, poniamo dubbi? Ovviamente, in linea del tutto ipotetica, i robot che animano le puntate di Pluto ci portano a porci la domanda: se altre creature (non per forza le IA a cui pensiamo noi) possono provare le nostre emozioni, sentire come sentiamo noi la realtà, cosa rende il loro essere inferiore (o superiore) a quello degli esseri umani?

sabato 6 settembre 2025

Italiani veri, Giacomo Moro Mauretto


Giacomo Moro Mauretto è un biologo e divulgatore scientifico, a molti noto per il suo canale Youtube, Entropy For Life, e nel 2025 ha pubblicato Italiani veri, Storia evolutiva e genetica del nostro paese.

Il libro parte in realtà lontano dall'Italia, in Africa, tracciando in maniera accurata quanto le recenti ricerche informano in merito all'origine della nostra specie. A poco a poco il focus si sposta verso l'Europa e l'Asia con la nascita e la diffusione dei nostri cugini Neanderthal e Denisova, fino a zoomare sulle diverse ondate migratorie che dall'Africa hanno portato la diffusione dei Sapiens, mettendo per esempio in discussione la teoria della Rivoluzione cognitiva, rilanciato ancora di recente dallo storico israeliano Harari.

A questo punto il volume sempre di più si concentra sull'Italia e i suoi territori, analizzando l'apporto genetico e culturale delle diverse ondate migratorie di Sapiens. Così scopriamo cone per migliaia di anni la maggioranza della popolazione italiana abbia avuto una pelle più scura di quella delle attuali popolazioni mediorientali, o di come la tolleranza al lattosio da adulti sia legata alla diffusione di quelle popolazioni che, negli studi archeologici e linguistici, vengono ascritte alla famiglia indoeuropea.

Moro Mauretto ragiona quindi su come la popolazione italiana ed europea si sia plasmata in epoca preistorica, e su come l'apporto di quelle popolazioni che vengono studiate maggiormente perché già in possesso della scrittura, a partire dalla diffusione nel meridione della popolazione greca, continuando poi con il dominio romano e le decine di dominazioni e migrazioni successive, sia stato da un punto di vista genetico assai limitato. 

L'autore comunque avverte che la condizione moderna riscrive in parte le regole del gioco e della diffusione genica, e che il rimescolamento genetico che è in atto dall'epoca industriale è molto più rapido di ogni processo che abbiamo visto negli ultimi tremila anni, quando il cambio di popolazione dominante consisteva spesso in un rimescolamento della classe dirigente, mentre la gran parte della popolazione vedeva scarsa variazione genetica e culturale.

Dalla lettura del libro, chiaro e colloquiale, anche se talvolta di qualche concetto e di qualche parola tecnica viene data per scontata la conoscenza da parte del lettore, impariamo che quindi richiamarsi ad una presunta "razza italiana" o specificità italiana, almeno dal punto di vista genetico, ma per molti aspetti anche dal punto di vista culturale, non ha fondamenti su base scientifica; inoltre siamo costretti ad osservare come il rimescolamento genetico, oggi spettro adoperato dalle parti politiche per alimentare la paura nei confronti degli stranieri, ha in realtà una fondamentale funzione nell'evoluzione della specie, garantendo abbastanza variabilità genetica da poter resistere all'insorgere di nuove epdiemie o ad improvvise variazioni climatiche. Le affermazioni dell'autore vengono corroborate attraverso una ricca e aggioranta bibliografia di riferimento.

Il libro di Giacomo Moro Mauretto è una lettura consigliata, sia a chi si interessa di antropologia e di biologia, ma soprattutto per coloro i quali sono a digiuno o quasi di questi argomenti e vogliono possedere delle conoscenze su dibattiti che solo in apparenza riguardano esclusivamente la comunità scientifica, ma che invece si riverberano nella loro volgarizzazione presso l'opinione pubblica, informando le scelte politiche e culturali.

giovedì 4 settembre 2025

La mia risposta a "Sono un insegnante di liceo e vorrei cambiare lavoro. Mi fanno fare il burocrate, lo psicologo, l'informatico e il saltimbanco. Di tutto, tranne insegnare" di Matteo Radaelli

Quella che leggete è la mia risposta alla lettera del collega Matteo Radaelli, pubblicata sul Corriere della sera giorno 2 settembre e online giorno 3 settembre con il titolo «Sono un insegnante di liceo e vorrei cambiare lavoro. Mi fanno fare il burocrate, lo psicologo, l'informatico e il saltimbanco. Di tutto, tranne insegnare». (EDIT: il Corriere si è poi ripetuto, pubblicando un'altra lettera in data 6 settembre dello stesso tono, titolata Questa scuola ci fa passare la voglia di insegnare; va preso atto quindi che questa è una linea editoriale scelta dal quotidiano più letto in Italia)

---

Buongiorno, mi presento, Sebastiano Cuffari, docente di lettere di un Istituto professionale. Vi scrivo perché ne ho abbastanza dei piagnistei, come quello che avete pubblicato, titolato «Sono un insegnante di liceo e vorrei cambiare lavoro. Mi fanno fare il burocrate, lo psicologo, l'informatico e il saltimbanco. Di tutto, tranne insegnare», del collega Marco Radaelli. Ora, dato che il mio mestiere è lavorare con le parole e insegnare a lavorare con le parole, mi sembra il caso di analizzare tutti i problemi, le omissioni, le estremizzazioni della lettera del collega. 

Intanto l'autore presenta continuamente le situazioni che affronta a scuola come delle scelte binarie che escludono altre possibilità, semplificabili in queste due dicotomie:

- "si chiede di tutto tranne che insegnare" vs. "insegnare";

- "bontà e inclusione" vs. "merito, cultura e crescita umana".

In questo modo Radaelli ignora e porta ad ignorare la possibilità che un insegnante possa svolgere più ruoli complementari o, addirittura, possa fare più cose contemporaneamente.

Del resto il collega estende la propria esperienza personale a tutto il sistema scolastico, con formule tipo: "Nella scuola di oggi non c'è più spazio per me e per tutti quelli che...". Così facendo usa la propria prospettiva, quella di un singolo docente di liceo scientifico, per descrivere l'intera scuola italiana.

Il collega poi distorce le posizioni di chi non la pensa come lui per renderle più facili da attaccare attraverso due strategie distinte: riduce l'inclusività metaforicamente ad un deprecabile "rinchiudere nel recinto dell'ignoranza"e presenta i colleghi come "ciechi" e "sordi" per scelta. Questa è una scelta retorica molto comoda: chi potrebbe mai pensare lecito e giusto rendere gli studenti volutamente ignoranti? Peccato che la realtà di chi non la pensa come l'autore della lettera non sia questa e che l'inclusione di cui parla ma evidentemente sa poco non sia quella da lui descritta.

Radaelli, come molti e più affermati colleghi prima di lui, cerca e propone del resto nessi causali molto diffusi nell'opinione pubblica ma non dimostrati: assume che il calo delle competenze sia causato dall'eccesso di inclusività e non considera altre variabili (sociali, economiche, tecnologiche).

Nella tradizione della peggiore demagogia sul tema in questo modo squalifica implicitamente i colleghi che non contestano questi aspetti del sistema scolastico definendoli "burocrati in stile sovietico" e presentandoli come vili o apatici che non "disturbano" per comodità.

Radaelli idealizza il passato senza fornire prove concrete sulla maggiore qualità di una scuola di chissà quanto tempo fa, neanche ben definita, assumendo che "prima" si insegnasse meglio, ma non fornendo dati comparativi storici affidabili. Eppure noi sappiamo che la tanto criticata scuola democratica ha abbassato i tassi di dispersione scolastica portandoci vicini alla media europea, in questo modo adempiendo al primo imperativo della scuola pubblica, cioè portare istruzione lì dove era assente, e che, soprattutto, i risultati delle prove standardizzate degli studenti italiani, le famose prove OCSE PISA, pur con molti problemi che non vanno negati, sono nella fascia bassa della media dei paesi che le svolgono, con variazioni che avvicinano o allontanano alle prestazioni dei paesi meglio attrezzati dipendenti soprattutto da aspetti socio-economici e familiari. Ciò che Radaelli non dice invece è che le stesse prove standardizzate, le OCSE PIAAC, sottoposte agli adulti, per intenderci le persone venute su con “la scuola di una volta”, mostrano differenze abissali fra le competenze possedute dagli italiani e quelle raggiunte in altri paesi.

La lettera di Radaelli si fonda su una serie di scelte frutto di bias e di un metodo quantomeno criticabile:

- seleziona solo dati che confermano la sua tesi (calo competenze = colpa dell'inclusività) e ignora possibili spiegazioni alternative o dati contrastanti;
- attribuisce i propri problemi e i propri comportamenti al sistema (ovvero a cause esterne) menttre attribuisce i problemi e i comportamenti dei colleghi a loro caratteristiche personali;
- giudica quindi l'intero sistema sulla base della propria esperienza immediata e sovrastima la rappresentatività del suo caso particolare;
- secondo il principio dell'effetto alone, estende il giudizio negativo su alcuni aspetti a tutto il sistema scolastico, senza distinguere tra problemi specifici e questioni sistemiche;
- fa affermazioni categoriche senza supporto documentale;
- sfrutta retoricamente contraddizioni evidenti quando critica l'eccessiva burocratizzazione ma poi critica anche l'eccessiva libertà valutativa o quando lamenta la perdita del ruolo educativo ma poi dice che "tutti possono educare".

Ancora, Radaelli si avvita in un ragionamento circolare: la scuola non funziona perché non si insegna più, e non si insegna più perché la scuola non funziona. Per fare ciò l'autore è costretto ad adoperare la fallacia del pendio scivoloso, presentando l'inclusività come inevitabilmente destinata a degradare la qualità dell'istruzione. Il tutto condito con un linguaggio fortemente connotato verso il disprezzo per tutto ciò che l'autore non condivide: usa termini carichi emotivamente, come "saltimbanco", "giullare", "pargoli", e sostituisce l'argomentazione razionale con l'appello emotivo.

In ultimo, visto che l'articolo celebra la meritocrazia, parliamo di una questione metodologica: Radaelli si presenta come esperto di scuola per via dell'esperienza, ma l'esperienza personale non è garanzia di obiettività sistemica, e ciò è dimostrato dal cherry picking citato che caratterizza la lettera pubblicata, che seleziona solo gli aspetti negativi del sistema attuale e ignora eventuali miglioramenti o aspetti positivi.

Nonostante i problemi argomentativi, va riconosciuto che l'articolo tocca, in malo modo, alcune questioni reali, come il sovraccarico di compiti non strettamente didattici per gli insegnanti, la necessità di chiarire ruoli e responsabilità nella scuola e l'importanza del rigore educativo. Questi temi però sono trattati confondendo l’esperienza personale con analisi sistemica, mancando di proposte concrete, presentando il dibattito in termini di conflitto assoluto e non considerando possibili limiti della propria prospettiva.

La lettera di Radaelli, in ultima analisi, rischia di alimentare polarizzazioni sterili nel dibattito educativo, scoraggiando approcci innovativi senza offrire alternative e semplificando eccessivamente problemi complessi.

martedì 2 settembre 2025

Una riflessione su La responsabilità dei docenti di Katia Trombetta

In questi giorni, almeno nella mia bolla social, composta spesso da docenti che parlano di scuola per altri docenti ha avuto una certa circolazione l'articolo La responsabilità dei docenti, scritto da Katia Trombetta per La letteratura e noi.
Le riflessioni di Trombetta sono significative, fanno chiarezza sull'incapacità di problematizzare la realtà che il mondo della scuola vive e subisce. Gli esempi portati sono esplicativi della questione: il primo è la nota ministeriale che ribadisce la necessità di non accavallare le prove per la valutazione dell'operato degli studenti, con specifica attenzione per gli alunni con BES; la nota, come le grida manzoniane, ribadisce ciò che è già più volte stato affermato da diverse circolari ministeriali, ma non affronta il vero problema, ovvero il nodo della valutazione, nodo sul quale si scontrano l'orientamento della pedagogia che vede nell'atto valutativo un momento che fa parte dell'attività didattica e che deve avere come scopo l'apprendimento da parte dello studente, e la visione ministeriale che invece concepisce la valutazione sulla base dell'ideologia della meritocrazia, quindi come il momento cultimante della didattica, non volto a favorire l'apprendimento, semmai a quantificarlo e a classificarne gli esiti e gli artefici. Questa contraddizione porta al cortocircuito dei docenti che "fanno le corse" al fine di misurare, valutare e classificare, specie a fine periodo o a fine anno, dando infine più spazio alla visione ministeriale della valutazione rispetto all'orientamento della pedagogia; così, di fatto, il Ministero con la sua nota biasima i docenti perché fanno esattamente ciò che il Ministero stesso li induce a fare.
Il secondo esempio portato da Trombetta è quello della circolare ministeriale che vieta l'uso degli smartphone anche nella scuola secondaria di secondo grado, comprendendo in questo divieto anche l'uso didattico, nota accolta con favore dall'opinione pubblica e dalla gran parte dei docenti. Qui Trombetta non osserva una contraddizione della circolare: il divieto di questi strumenti nasce dall'uso strumentale di alcuni studi che hanno misurato un calo negli apprendimenti, oltre ad altri disturbi, nel caso di studenti che adoperavano senza controlli lo smartphone nel corso della giornata (da notare quindi che l'abuso di cui si parla travalica il tempo trascorso a scuola, e non riguarda l'uso controllato che sarebbe quello con scopi didattici), ma l'importanza dell'uso didattico di questi strumenti viene ribadito dallo stesso Ministero nella stessa circolare quando esplicita che questi dispositivi possono comunque essere previsti per gli studenti con Piani Didattici Personalizzati a causa di disturbi dell'apprendimento o per bisogni specifici, e possono essere previsti proprio perché utili alla didattica. In ogni caso Trombetta lamenta che, negli ultimi decenni, la scuola sia stata spinta a favorire l'uso degli strumenti digitali, ma che questo sia stato fatto senza una riflessione sulla loro funzione, e che questo sia stato fatto a discapito della formazione disciplinare. Qui mi permetto di osservare che, però, il rifiuto di quella riflessione di cui parla Trombetta è spesso venuto dagli stessi docenti, soprattutto da quelli che pensano alla formazione come esclusivamente disciplinare: è esperienza comune di chi ha prodotto formazione sugli strumenti digitali, come me, vedere colleghi rifiutare lezioni e riflessioni sulle premesse pedagogiche che possono dare senso all'uso di certi strumenti anziché altri (nel mio caso device elettronici prima, strumenti che implementino l'IA poi), pretendendo una formazione esclusivamente pratica ("se premo qui cosa succede, se clicco su questa icona cosa fa").
In ultimo Trombetta discute la reazione ministeriale alle proteste degli studenti durante il recente Esame di Stato. Qui Trombetta non entra nello specifico delle ragioni degli studenti, non prende posizione, ma osserva correttamente come l'unica reazione del Ministero sia stata il divieto e l'inasprimento delle norme. Trombetta conclude chiedendo una presa di responsabilità da parte dei docenti, che siano i docenti a mettere in discussione ciò che ci piomba addosso. Sicuramente condivido l'invito della collega: mi permetto di aggiungere che a dover essere messa in discussione è spesso anche l'apatia dei docenti stessi, il rifiuto a priori dell'aggiornamento e il rifiuto della riflessione pedagogica.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....