giovedì 4 settembre 2025

La mia risposta a "Sono un insegnante di liceo e vorrei cambiare lavoro. Mi fanno fare il burocrate, lo psicologo, l'informatico e il saltimbanco. Di tutto, tranne insegnare" di Matteo Radaelli

Quella che leggete è la mia risposta alla lettera del collega Matteo Radaelli, pubblicata sul Corriere della sera giorno 2 settembre e online giorno 3 settembre con il titolo «Sono un insegnante di liceo e vorrei cambiare lavoro. Mi fanno fare il burocrate, lo psicologo, l'informatico e il saltimbanco. Di tutto, tranne insegnare». (EDIT: il Corriere si è poi ripetuto, pubblicando un'altra lettera in data 6 settembre dello stesso tono, titolata Questa scuola ci fa passare la voglia di insegnare; va preso atto quindi che questa è una linea editoriale scelta dal quotidiano più letto in Italia)

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Buongiorno, mi presento, Sebastiano Cuffari, docente di lettere di un Istituto professionale. Vi scrivo perché ne ho abbastanza dei piagnistei, come quello che avete pubblicato, titolato «Sono un insegnante di liceo e vorrei cambiare lavoro. Mi fanno fare il burocrate, lo psicologo, l'informatico e il saltimbanco. Di tutto, tranne insegnare», del collega Marco Radaelli. Ora, dato che il mio mestiere è lavorare con le parole e insegnare a lavorare con le parole, mi sembra il caso di analizzare tutti i problemi, le omissioni, le estremizzazioni della lettera del collega. 

Intanto l'autore presenta continuamente le situazioni che affronta a scuola come delle scelte binarie che escludono altre possibilità, semplificabili in queste due dicotomie:

- "si chiede di tutto tranne che insegnare" vs. "insegnare";

- "bontà e inclusione" vs. "merito, cultura e crescita umana".

In questo modo Radaelli ignora e porta ad ignorare la possibilità che un insegnante possa svolgere più ruoli complementari o, addirittura, possa fare più cose contemporaneamente.

Del resto il collega estende la propria esperienza personale a tutto il sistema scolastico, con formule tipo: "Nella scuola di oggi non c'è più spazio per me e per tutti quelli che...". Così facendo usa la propria prospettiva, quella di un singolo docente di liceo scientifico, per descrivere l'intera scuola italiana.

Il collega poi distorce le posizioni di chi non la pensa come lui per renderle più facili da attaccare attraverso due strategie distinte: riduce l'inclusività metaforicamente ad un deprecabile "rinchiudere nel recinto dell'ignoranza"e presenta i colleghi come "ciechi" e "sordi" per scelta. Questa è una scelta retorica molto comoda: chi potrebbe mai pensare lecito e giusto rendere gli studenti volutamente ignoranti? Peccato che la realtà di chi non la pensa come l'autore della lettera non sia questa e che l'inclusione di cui parla ma evidentemente sa poco non sia quella da lui descritta.

Radaelli, come molti e più affermati colleghi prima di lui, cerca e propone del resto nessi causali molto diffusi nell'opinione pubblica ma non dimostrati: assume che il calo delle competenze sia causato dall'eccesso di inclusività e non considera altre variabili (sociali, economiche, tecnologiche).

Nella tradizione della peggiore demagogia sul tema in questo modo squalifica implicitamente i colleghi che non contestano questi aspetti del sistema scolastico definendoli "burocrati in stile sovietico" e presentandoli come vili o apatici che non "disturbano" per comodità.

Radaelli idealizza il passato senza fornire prove concrete sulla maggiore qualità di una scuola di chissà quanto tempo fa, neanche ben definita, assumendo che "prima" si insegnasse meglio, ma non fornendo dati comparativi storici affidabili. Eppure noi sappiamo che la tanto criticata scuola democratica ha abbassato i tassi di dispersione scolastica portandoci vicini alla media europea, in questo modo adempiendo al primo imperativo della scuola pubblica, cioè portare istruzione lì dove era assente, e che, soprattutto, i risultati delle prove standardizzate degli studenti italiani, le famose prove OCSE PISA, pur con molti problemi che non vanno negati, sono nella fascia bassa della media dei paesi che le svolgono, con variazioni che avvicinano o allontanano alle prestazioni dei paesi meglio attrezzati dipendenti soprattutto da aspetti socio-economici e familiari. Ciò che Radaelli non dice invece è che le stesse prove standardizzate, le OCSE PIAAC, sottoposte agli adulti, per intenderci le persone venute su con “la scuola di una volta”, mostrano differenze abissali fra le competenze possedute dagli italiani e quelle raggiunte in altri paesi.

La lettera di Radaelli si fonda su una serie di scelte frutto di bias e di un metodo quantomeno criticabile:

- seleziona solo dati che confermano la sua tesi (calo competenze = colpa dell'inclusività) e ignora possibili spiegazioni alternative o dati contrastanti;
- attribuisce i propri problemi e i propri comportamenti al sistema (ovvero a cause esterne) menttre attribuisce i problemi e i comportamenti dei colleghi a loro caratteristiche personali;
- giudica quindi l'intero sistema sulla base della propria esperienza immediata e sovrastima la rappresentatività del suo caso particolare;
- secondo il principio dell'effetto alone, estende il giudizio negativo su alcuni aspetti a tutto il sistema scolastico, senza distinguere tra problemi specifici e questioni sistemiche;
- fa affermazioni categoriche senza supporto documentale;
- sfrutta retoricamente contraddizioni evidenti quando critica l'eccessiva burocratizzazione ma poi critica anche l'eccessiva libertà valutativa o quando lamenta la perdita del ruolo educativo ma poi dice che "tutti possono educare".

Ancora, Radaelli si avvita in un ragionamento circolare: la scuola non funziona perché non si insegna più, e non si insegna più perché la scuola non funziona. Per fare ciò l'autore è costretto ad adoperare la fallacia del pendio scivoloso, presentando l'inclusività come inevitabilmente destinata a degradare la qualità dell'istruzione. Il tutto condito con un linguaggio fortemente connotato verso il disprezzo per tutto ciò che l'autore non condivide: usa termini carichi emotivamente, come "saltimbanco", "giullare", "pargoli", e sostituisce l'argomentazione razionale con l'appello emotivo.

In ultimo, visto che l'articolo celebra la meritocrazia, parliamo di una questione metodologica: Radaelli si presenta come esperto di scuola per via dell'esperienza, ma l'esperienza personale non è garanzia di obiettività sistemica, e ciò è dimostrato dal cherry picking citato che caratterizza la lettera pubblicata, che seleziona solo gli aspetti negativi del sistema attuale e ignora eventuali miglioramenti o aspetti positivi.

Nonostante i problemi argomentativi, va riconosciuto che l'articolo tocca, in malo modo, alcune questioni reali, come il sovraccarico di compiti non strettamente didattici per gli insegnanti, la necessità di chiarire ruoli e responsabilità nella scuola e l'importanza del rigore educativo. Questi temi però sono trattati confondendo l’esperienza personale con analisi sistemica, mancando di proposte concrete, presentando il dibattito in termini di conflitto assoluto e non considerando possibili limiti della propria prospettiva.

La lettera di Radaelli, in ultima analisi, rischia di alimentare polarizzazioni sterili nel dibattito educativo, scoraggiando approcci innovativi senza offrire alternative e semplificando eccessivamente problemi complessi.

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