martedì 25 luglio 2017

Libero, Flavio Cattaneo e la cattiva informazione


Mentre i dipendenti muoiono di fame Quaranta milioni in 16 mesi da Tim
Flavio Cattaneo, amministratore delegato dell’azienda telefonica, incassa una cifra mostruosa e ingiustificabile non per lavorare bensì per andarsene. Ecco perché l’Italia fa schifo
Libero
23 Jul 2017
Di RENATO FARINA

L’architetto Flavio Cattaneo è un lombardo di 54 anni che, con quella mascella larga e magra, ha l’aria del frequentatore di bar sport e di intendersi di carambole, Campari soda, soldi e donne. Della sua attitudine a cavarsela splendidamente con il ramo femminile testimonia il legame durevole con Sabina Ferilli. Quanto a manager, parla il curriculum (...)


Al solito, come non si dà una notizia: la buonauscita era presente già nel contratto firmato dal signor Cattaneo, chi si indigna ora, cosa faceva all'epoca? Seconda cosa: il contratto del signor Cattaneo prevedeva un 10% di fisso e un 90% di provvigioni all'ottenimento dei risultati aziendali stabiliti dal CDA nominato dagli azionisti. Risultati che, a quanto pare, il signor Cattaneo avrebbe ottenuto dimostrandosi uno dei più validi manager italiani. Chi si indigna oggi, saprebbe fare altrettanto? Detto da un comunista duro e puro.

Ma, al di là della bontà delle informazioni, che diamine di articolo è una roba che parte dal gossip e da un'analisi dell'aspetto fisico del manager per avvalorare la bontà della propria tesi? Qui siamo nella più pura disinformazione

venerdì 21 luglio 2017

La morte di Chester Bennington o della fine dell'adolescenza

Foto: Wikipedia
Quando usciva In the end era il 2001 e io non avevo ancora compiuto vent'anni.



Frequentavo l'università, iniziavo a superare la mia cronica apatia del vivere adolescenziale, l'indole asociale che dall'infanzia mi aveva rinchiuso in una prigione autocostruita che mi aveva impedito tante amicizie e tante possibilità. In the end è stato il mio primo incontro con la voce di Chester Bennington, in un certo senso una rivelazione.



Dopo anni ad ascoltare in loop quasi esclusivamente i Queen, Metallica, Iron Maiden, Megadeath, Dream Theater e Blind Guardian (ad eccezione dei Queen, gruppi ascoltati al traino di mio fratello) dopo anni di venerazione per le voci di Freddie Mercury e di James LaBrie, la voce di Bennington e le melodie rap/metal dei Linkin Park mi aprirono un mondo. Era il mondo che da adolescente avrei voluto saper esprimere ma per cui mi mancavano le parole, le corde vocali, i ritmi.



Diciamocelo chiaramente: i primi album del gruppo, da Hybrid Theory a Meteora, avevano un target che non andava oltre i venti/ventidue anni, anzi miravano chiaramente agli adolescenti, disagiati o presunti tali. Un canto di protesta che nulla aveva di politico, era rabbia in quanto tale, la frustrazione della incomunicabilità, del crescere e non sentirsi capiti. Che i Linkin Park cantassero queste sensazioni per mero calcolo economico o che ne fossero onesti cantori, poco importa; lo facevano, e tanto ci bastava,



Appartengo alla generazione MTV, quelli venuti su con i video del canale musicale, con le serate Anime, le sitcom in prima serata, Scrubs su tutti. Quelli come me hanno vissuto in pieno l'esplosione del fenomeno Linkin Park, con i loro video in computer grafica, quel mescolarsi di rap e neometal e, soprattutto, la voce di Bennington. Una voce da dilettante. Lo so, sto dicendo una blasfemia, ma a me ha sempre fatto questa impressione, l'impressione di un cantante da band liceale che si sia trovato in un mondo più grande del suo, senza aver mai studiato più di tanto le basi del mestiere, senza una grandissima estensione vocale, senza, insomma. Eppure la voce di Bennington funzionava perché era una voce malinconica, come suona in tante delle ballate del gruppo, una voce prestata al metal ma che del metal aveva poco. Una voce, tra l'altro, che non aveva paura di improvvisare e di steccare in concerto, pur di rimanere se stessa.



I Linkin Park sono stati la voce che mi ha fatto fare i conti con la mia adolescenza, chiudendola. Mi hanno accompagnato negli anni dell'università, mentre il mio essere cambiava radicalmente, fino al primo lavoro, alle prime vere soddisfazioni e ai primi grandi fallimenti.



I Linkin Park, come Bennington, non sono mai stati dei rivoluzionari nel loro settore, né particolarmente raffinati (eppure devo a loro l'essere poi arrivato ai Genesis, ai Toto, ai Kansas, a Dylan e agli Smiths) ma hanno avuto il coraggio di crescere, con album più maturi e per questo meno apprezzati dal pubblico. Nel frattempo la voce di Bennington si continuava a ritirare in se stessa, sempre meno rabbiosa, sempre più triste.



Chi lo conosce dice che il suo suicidio, se confermato, non era del tutto inatteso: tanti segnali, la tossicodipendenza. Non lo so, non seguivo più il gruppo da un po'. Ma la voce di Bennington rimane per me inconfondibile, uno degli ultimi grandi del rock, quasi per caso, nonché la fine della mia età più buia.

venerdì 14 luglio 2017

La scopa del sistema, David Foster Wallace



La scopa del sistema è il primo romanzo di David Foster Wallace. In questo romanzo l'autore pone le basi per quelli che sono i suoi temi caratteristici: l'ironia pungente, il racconto corale, il rapporto controverso con il sesso, l'ossessione per le scene surreali.
La trama ripercorre le vicende delle due Lenore Beatsman, bisnonna e pronipote, intente in un reciproco ricercarsi, simbolico da un lato, reale dall'altro. Accanto il comprimario, coprotagonista, antagonista Rick Vigorous, compagno e datore di lavoro della Lenore pronipote, assieme a tutti gli altri personaggi che ruotano intorno alla vicenda (dal finto psicologo al padre proprietario di azienda, all'adolescente conturbante divenuta moglie tradita, fino al pantagruelico Norman Bombardini e al pappagallo capace di formulare frasi sconce trasmesse in televisione in un programma di un santone cristiano), costituisce un intreccio di storie che si accavallano nel comune paesaggio della provincia americana, Cleveland in Ohio. Ognuno dei personaggi assume quindi un ruolo che è al tempo stesso di narratore, protagonista, antagonista, permettendo all'autore David Foster Wallace continui inserti metanarrativi e metalinguistici, nonché di sviluppare sotto forma di narrazione un ardito ragionamento filosofico fondato sui paradossi della scuola di Wittgenstein.
Chi è Lenore Beatsman? La scopa del sistema del titolo, proprio come la scopa dell'esempio filosofico riportato dalla bisnonna per spiegare come nella nostra logica linguistica gli oggetti e le parole assumano una funzione solo in base alle relazioni che costruiamo loro intorno. Ecco che quindi Lenore è tutto e niente, il barbiere che non può radere se stesso, imprigionata nelle funzioni che gli altri stabiliscono per lei, fino al picaresco finale, lasciato volutamente aperto dall'autore. Proprio nel finale dell'opera tanti critici hanno osservato quasi la premonizione della fine il David Foster Wallace, sottovalutando però la presenza di un personaggio, il fratello di Lenore, Lavache, filosofo anch'egli, che smonta punto per punto le teorie della bisnonna assumendo una visione critica e autoironica rispetto alle stesse idee di Wallace. In ogni caso l'autore caratterizza tutto il romanzo proprio per il continuo uso dell'ironia e dell'autoironia, per le scene surreali e per l'abilità con cui di volta in volta i personaggi, su tutti Rick Vigorous, inseriscono racconti su racconti. Il tutto non potrebbe funzionare senza l'abilità mimetica di Wallace, capace allo stesso tempo di costruire un sistema linguistico ricorrente riconoscibilissimo e di modificare il proprio linguaggio, il proprio stile, a seconda dei diversi personaggi, fino ad arrivare ai meravigliosi soliloqui dello stesso Vigorous.
Senza dubbio l'opera prima di Wallace si pone ben al di sopra del livello della comune narrativa, assurgendo al gradino della grande letteratura. La morte dell'autore ha purtroppo fatto cadere in secondo piano i valori innanzitutto letterari di questo romanzo, che si pone a diretto confronto con opere fondamentali del '900 caratterizzate dalla stessa vena filosofica, in primis la Recherche di Proust. È proprio del confronto stilistico che si nota questa ricerca del colloquio con il passato letterario, ma se la sintassi di Proust è una sintassi complessa e tuttavia ordinata, la sintassi di Wallace si dirama in mille direzioni, diventa labirintica, quasi compromessa, ed è solo l'enorme talento dell'autore che riesce a mantenere il filo conduttore di periodi che possono durare pagine intere mettendo in risalto come, proprio nel letterato per eccellenza del romanzo, ovvero Vigorous, l'idea che attraverso una profonda introspezione si possa giungere alla conoscenza della verità si sia ormai perduta nella patologia studiata dalla psicoanalisi.
In ultima analisi se c'è un autore che a partire dai tardi anni '80 ha potuto definire la letteratura della fine del Novecento e del postmodernismo, questi è David Foster Wallace, e il suo primo romanzo, La scopa del sistema, è una lettura obbligata per chiunque voglia comprendere le contraddizioni degli ultimi 30 anni della cultura occidentale.

Wallace, David Foster., and Sergio Claudio. Perroni. La Scopa Del Sistema. Torino: Einaudi, 2015. Print.


martedì 11 luglio 2017

Sul reato di apologia di fascismo o della damnatio memoriae



La questione dell'estensione del reato di apologia di fascismo è complessa. Trasformiamo il  ragionamento comunemente espresso in questi giorni dai detrattori del provvedimento del governo in un sillogismo: 
abbiamo avuto un passato fascista; abbiamo fatto i conti con il nostro passato; non dobbiamo temere il nostro passato.
Il sillogismo però è fallace perché una delle due premesse è falsa: noi NON abbiamo fatto i conti con il nostro passato. Nessun gerarca fascista è stato condannato per crimini di guerra o contro l'umanità; in pochi sanno di avere avuto magari dietro l'angolo dei campi di concentramento e in pochissimi sanno che la percentuale di morti nei campi in Slovenia era pari o superiore ai campi di sterminio tedeschi; la maggiorparte degli italiani non sa che la gran parte dei fascisti sono stati amnistiati e non conosce la gravità dei reati commessi in Italia, Grecia, Albania, Etiopia e Libia; relativamente in pochi conoscono le falsità della propaganda fascista è la reale condizione economica e sociale del paese durante il ventennio, e peggio, notizie falsificate o manipolate girano indisturbate in rete.
Per tutto questo, la damnatio memoriae, che normalmente sarebbe da condannare, di fronte alla acclarata incapacità dello Stato e della società Italiani di fare i conti con quello che è stato il ventennio (e di conseguenza con quella guerra civile che chiamiamo resistenza),  questa damnatio memoriae sembra l'unica soluzione, per quanto si tratti di una sconfitta per tutti.

Linguaggio e senso, la costruzione della proposizione significativa in Gilles Deleuze

Nella sua Logica del senso, Gilles Deleuze dà un suo contributo significativo ad uno dei problemi che in qualche maniera affligge da De Saussure in poi la linguistica, ovvero come si sviluppi il rapporto tra significanti e significati e come una proposizione possa risultare significativa. Per capire i termini della questione, in particolare cosa si intenda con i termini significante e significato, si farà riferimento ad un precedente post intitolato De Saussure, Wittgenstein: dalla linguistica alla logica linguistica.
Per Deleuze, sia nel caso della scelta della singola parola, sia nel caso della costruzione delle proposizioni, pensare che il tutto avvenga per un semplice meccanismo di denotazione non è sufficiente: non è sufficiente cioè pensare che la costruzione di un testo possa avvenire dando un nome (significante) ad ogni concetto o oggetto (significato) - si pensi per esempio all'idea biblica dei primi uomini che iniziano semplicemente a nominare il creato -, perché questo meccanismo non produrrebbe per forza di cose un testo significativo. Per Deleuze infatti la costruzione di un testo significativo richiede la presenza di altri elementi che si associano al meccanismo di denotazione, ovvero manifestazione e significazione.
Con il termine manifestazione Deleuze intende la chiara espressione della volontà di adoperare un significante per riferire un significato: se per esempio io mi addormentassi sulla tastiera, plausibilmente potrei battere involontariamente a schermo delle lettere, come queste
qweoijalnfsidrieà
che, apparentemente, potrebbero costituire un significante, ma che in realtà non trasmetterebbero nessun significato perché mancherebbe, da parte mia, la volontà e la capacità di trasmettere alcunché. In questo verrebbe a mancare la manifestazione, ovvero l'atto volontario del trasmettere un significato attraverso un significante, e quindi verrebbe meno la possibilità di costruire un testo significativo.
Inoltre, secondo Deleuze, perché un testo sia significativo, esso dovrà far riferimento ad una struttura logica e sintattica in qualche maniera condivisa: la significazione. In altre parole, non basterà nominare volontariamente (manifestazione) ogni singolo oggetto o concetto (denotazione) per costruire un testo significativo - non basta irrompere in una stanza dicendo ai presenti "tavolo" - ma occorre che questi significanti che si riferiscono a dei significati siano inseriti in un contesto sintattico e logico (significazione), esplicito o implicito, per ottenere un testo significativo - il tavolo traballa -.
Possiamo quindi immaginare denotazione, manifestazione e significazione come i vertici di un triangolo e che la costruzione di un testo significativo sia la costruzione di una figura geometrica che dovrà per forza di cose collimare con tutti e tre i vertici del triangolo in maniera ripetitiva: per questo l'immagine più appropriata è quella di un triangolo iscritto in un cerchio, dato che non esiste, nella costruzione di una proposizione, denotazione senza manifestazione e viceversa, ma anche denotazione senza significazione e viceversa, ma anche significazione senza manifestazione e viceversa.
Per Deleuze però tutto ciò non spiega un fatto: perché ciascuno di noi avverte immediatamente che un testo come questo
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è privo degli elementi appena descritti, mentre di fronte ad un testo come questo
aister ostirinch spassol, deg auchmatur kikibuz
potremmo essere tentati di vedere i resti di qualche lingua fino ad ora sconosciuta?
Ciò avviene perché ad  agire in questo caso è il senso, individuale, impotente di per sé perché improduttivo, eppure fondamentale, che nel secondo caso ci fa avere l'impressione che esista una scansione in singole parole articolate sintatticamente e che esprimono la chiara volontà di un mittente di trasmettere un messaggio, anche se in realtà non è così.
Secondo Deleuze quindi, prima ancora delle categorie di denotazione, manifestazione a significazione, nella produzione e nella ricezione di proposizioni significative agisce il senso.

Nello specifico il senso agisce negli ambiti della denotazione e nell'ambito della significazione.
Nell'ambito della denotazione il senso individuale ci spinge alla costruzione di serie di significanti e di significati non omogenee, cosa evidente se guardiamo alle serie di sinonimi più o meno equivalenti e riferibili ad oggetti o concetti identici o affini, o al contrario se guardiamo a concetti o oggetti non nominabili.
Quando, per esempio, gli eschimesi scelgono di adoperare una certa parola piuttosto che un'altra per riferirsi ad un referente, la neve, che in altre lingue viene espresso con un solo significante, ad agire è il senso, figlio dell'esperienza, che porta a vedere diverse sfumature in quel referente che, magari, altri parlanti o altri popoli non sono in grado di osservare o di esprimere.
D'altro canto, in maniera simile, il senso agisce nell'ambito della signifazione, nel momento in cui decidiamo di adoperare una certa struttura sintattica piuttosto che un'altra e di conseguenza, decidiamo di esprimere certe relazioni piuttosto che altre. È proprio il senso quindi la base della costruzione di testi in cui prevale l'io dell'emittente (si pensi alla funzione poetica di Jakobson) nella scelta delle singole parole e delle costruzioni sintattiche. È sempre il senso, secondo Deleuze, a permetterci di costruire e veicolare proposizioni significative anche nel momento in cui adoperiamo significanti non legati ad un reale referente, creando un cosiddetto nonsenso, come spesso avviene in letteratura.
In ultima analisi per Deleuze la produzione di proposizioni significative è un complesso sistema alla cui base sta il senso che agisce prima e attraverso manifestazione, denotazione e significazione. Risulta poi evidente come la denotazione sia sempre un processo per sottrazione, ovvero lo specificare che, rispetto ad un insieme più ampio, il significato che stiamo trasmettendo in quel momento con la scelta di un significante è un significato ristretto. In questo processo per sottrazione ciascun emittente crea delle serie più o meno articolate che potremmo chiamare campi semantici (si pensi alla serie di parentele che costituiscono il campo semantico della famiglia). Più serie andranno, per l'autore, a costituire delle strutture, dei reticolati di relazioni che, tanto più complessi saranno, tanto più arricchiranno di senso le nostre proposizioni e di conseguenza le renderanno significative.

Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, 1984 ISBN 88-07-10028-2 ISBN 88-07-81866-3 ISBN 978-88-07-81866-0

lunedì 3 luglio 2017

Essere radical chic ed esserne fieri



È la condanna di chiunque voti sinistra: prima o poi arriverà il fenomeno di turno e, se non siete un operaio metalmeccanico, vi dirà che siete dei radical chic (o, quasi come fossero sinonimi, un hipster). Prima o poi ci si passa, dà un certo fastidio, almeno fino a che non ci si rende conto che il nostro interlocutore, spessp, non sa di cosa parla.

Cosa sia radical chic è lungo da raccontare (ed è una bella storia sullo slittamento semantico, su come l'italiano medio non capisca una ceppa di inglese e su come i giornalisti di destra, a partire da Indro Montanelli, conoscano e capiscano veramente poco della storia della sinistra), per cui rimanderò all'ottima spiegazione di Luca Sofri su Il Post, intitolata Cosa sono i radical chic?

Perché tirare fuori questa questione lessicale? Perché dietro la scelta di definire chi fa politica o vota politiche di sinistra con questa definizione (e dietro lo slittamento semantico a cui accennavo) si nasconde una buona dose di malafede e di ignoranza. Si guardi ai casi di Pierluigi Bersani, Giuliano Pisapia, Tomaso Montanari e Gianni Cuperlo: in misura diversa tutte queste figure politiche che caratterizzano la sinistra italiana dal PD in poi vengono accusate a punto di essere dei radical chic, ovvero di essere persone dal reddito più o meno elevato che predicano idee di sinistra senza applicarle davvero, magari solo per moda o, peggio, per tornaconto personale. Con buona pace per il fatto che, in inglese, non sono le persone ad essere radical chic, bensì le idee.

Perché questo modo di appellare gli uomini di sinistra è particolarmente scorretto? Perché è delegittimante e fondato su preconcetti. Parliamo per esempio di Giuliano Pisapia e di Pierluigi Bersani, mettendo in ordine le accuse tipicamente mosse dalla destra ai radical chic. Hanno questi due personaggi in qualche modo predicato le loro idee senza mai metterle in atto, quindi per moda o per tornaconto personale? Pierluigi Bersani è nato da famiglia di artigiani, è stato da giovane (finché il tempo a disposizione e la condizione fisica l'hanno concesso) volontario, tanto da essere uno dei soccorritori durante l'alluvione di Firenze, si è laureato con lode in filosofia (e forse è questa la sua principale colpa, ci torneremo); da uomo politico, come governatore dell'Emilia Romagna, ha tentato di mettere in campo politiche di sinistra fondate sulla crescita del welfare e su una moderata ridistribuzione del reddito. Giuliano Pisapia nasce da famiglia benestante, tanto da rilevare lo studio legale del padre; anch'egli fa volontariato da giovane, mentre coltiva la militanza politica, frequenta il liceo classico Berchet di Milano per poi laurearsi due volte, in giurisprudenza e in scienze politiche; la sua carriera poi si dirama tra la pubblicistica, il giornalismo e la carriera come avvocato penalista, per cui si occupa anche di casi clamorosi, come quello di Carlo Giuliani o di Ocalan; da politico raggiunge l'apice della sua fama come sindaco di Milano, caratterizzata, durante il suo governo, dall'apertura sulle tematiche di ordine civile e dalla spinta all'integrazione dei migranti di diverse etnie residenti in città. Cosa accomuna queste figure? Cosa li accomuna, per esempio, a Gianni Cuperlo o a Tomaso Montanari o al defunto Stefano Rodotà? Tutti questi uomini di sinistra, accusati di essere radical chic, in realtà sono tali agli occhi della destra, non perché ricchi, ma perché intellettuali. 
Basterebbe un'analisi un minimo oggettiva per accorgersi di come Pisapia, Bersani, Cuperlo, Montanari, Rodotà etc., nell'occasione di farlo, si sono spesi per il bene comune ed in particolare per quello dei ceti meno abbienti, facendo anzi di propria mano quanto gente come Feltri, Belpietro, Sallusti, Santanché, Grillo, Salvini e compagnia cantante, i paladini della destra popolare, non solo non hanno mai fatto ma non hanno neanche mai concepito di fare. E questo a prescindere dai redditi dichiarati e dai beni ereditati dalle famiglie.

E allora perché la definizione radical chic appiccicata a questi politici (e a chi li vota) riscuote tanto successo? Perché si accompagna ad un convinto moto anti intellettualistico che caratterizza la società italiana da almeno gli anni '80. È dai tempi del Drive In, dell'esplosione della TV privata e della mortificazione della cultura alta che questo processo è in atto, e colpa della sinistra al governo è stato non accorgersene o non fare abbastanza al riguardo, fino a creare nell'opinione pubblica la diffusa sensazione, non solo dell'inutilità, ma dell'ipocrisia o della pericolosità dell'intellettuale. Intellettuale pensato come un ricco e tronfio essere fuori dal mondo, perso nell'idealismo crociano o in un marxismo polveroso (avete presente Fusaro? Avete presente perché fa tanto comodo alla destra culturale la sua sovraesposizione ?), distaccato dalla realtà, anzi intento a sfruttare la sua posizione per il proprio interesse e contro la maggioranza silenziosa e sofferente. L'intellettuale insomma come il manzoniano Azzeccagarbugli. Non per niente ad essere accusati di essere radical chic sono soprattutto giuristi, docenti, artisti (di qualsiasi ordine e grado), su cui si sommano diversi strati di pregiudizi (ingarbugliate le leggi contro il popolo con il vostro latinorum, avete tre mesi di ferie, la giustizia al soldo dei più ricchi, lavorate solo diciotto ore, non fate realmente ricerca, non volete essere valutati, non volete la separazione delle carriere, parlate tanto ma non pagate le tasse...), ovvero categorie sociali che, a torto o a ragione, vengono considerate avverse alla destra. Ulteriore paradosso è come questa definizione trovi successo e piede anche fra i docenti, in questo caso divisi tra docenti universitari e ricercatori, docenti in ruolo o precari, sempre al di là dei reali redditi o delle reali tendenze e scelte politiche. A questi stereotipi si accompagna poi l'idea che per essere di sinistra occorra per forza provenire da ceti sociali meno abbienti, anche se storicamente dal socialismo utopico in poi questa affermazione non è mai stata vera e da sempre le classi dirigenti della migliore sinistra sono state l'integrazione fra forze dei ceti popolari e dei ceti alti riformisti. La definizione radical chic fa quindi comodo a chi, da destra (e qui si considera destra, come si sa, anche il grillismo), vuole escludere dalla scena politica la figura dell'intellettuale.

Per tutte queste ragioni, quando sentirete (o vi sentirete dire) durante un dibattito che siete o votate dei radical chic, tenete ben presente che, ad andar bene, chi vi sta appellando non sa che dice, ad andar male sta cercando di farvi fuori politicamente perché non vi capisce o vi teme. In ogni caso, prendetela come un'investitura.

domenica 2 luglio 2017

Come non si fa informazione sui vaccini, ovvero delle fake news


Per lo meno nell'ultimo anno, l'opinione pubblica italiana si è divisa sull'ennesima questione tecnica (e che forse ai tecnici sarebbe meglio lasciare), ovvero l'obbligo vaccinale; in particolare il dibattito si è inasprito dopo che alcuni casi di autismo sono stati attribuiti (a torto, si è poi scoperto), alle vaccinazioni, e al conseguente crollo del numero dei vaccinati, con le immaginabili conseguente (si guardino per esempio i dati sull'epidemia di morbillo che sta attualmente colpendo il paese), fino ad arrivare al decreto Lorenzin e all'obbligo di somministrazione di 12 vaccini per poter frequentare gli asili nido.
Qualsiasi cosa si pensi sulla questione, che si sia dalla parte di chi pretende il rispetto delle libertà personali, compresa la scelta autonoma sulla necessità o meno di vaccinare i propri figli, sia che si sia dalla parte di esperti come il prof. Burioni, una cosa comunque rimane certa, ovvero la necessità di fare buona informazione sull'argomento, adoperando fonti certe, assumendosi la responsabilità delle proprie affermazioni e adoperando dati scientifici inappuntabili.
Quello che viene proposto ora, è il caso opposto, ovvero un esempio di pessima informazione antivaccinista.
Fonte di tale scempio è il sito infovax.it che, malgrado il nome, risulta chiaramente un sito di propaganda unilaterale antivaccinista: basta leggere il disclaimer pubblicato sulla pagina "chi siamo"
L’INFORMAZIONE È POTERE. Lo scopo del gruppo nasce proprio da questo principio.
Nasce dalla voglia di combattere UNITI questa battaglia contro l’iniquo DL della Lorenzin.
È un gruppo che ha come obiettivo quello di dare il maggior numero di informazioni possibili, con l’intento di aiutare i genitori a saper affrontare questa situazione nel modo migliore.
Siamo per la libertà di parola e la discussione pacifica. Noi vi aiuteremo semplicemente ad essere informati su cosa sta accadendo o è accaduto. Vi daremo gli strumenti per poter difendere le vostre posizioni.
OGNI INIZIATIVA È BEN ACCETTA. Nessuno prevarica gli altri, a noi non interessano discussioni sterili nè divisioni di alcun genere.

Non perdiamo mai di vista l’Obiettivo:
IL BENESSERE DEI NOSTRI AMATISSIMI FIGLI E NIPOTI.
Grazie a tutti
Insomma, quella sostenuta dal sito è una posizione ideologia ben definita. Nulla di male, se lo si facesse sempre correttamente.
Mi riferisco in particolare all'articolo, scritto da tale Antonio (chi? Cognome? Esperto in cosa?) pubblicato il 30 - 06 - 2017 (attenzione, le date sono importanti) e intitolato Muore a Torino bimba di 2 mesi dopo esavalente.
L'articolo, abbastanza breve, consiste in questa sorta di striminzito comunicato
E’ morta a Torino una bimba di 2 mesi di origine Nigeriana, è stata trovata morta questa mattina nella culla, il giorno prima è stata sottoposta a vaccino esavalente, l’Asl To4 ha sostituito, in via precauzionale, tutti i lotti del vaccino del tipo a cui era stata sottoposta la bimba.
http://www.ilmessaggero.it/primopiano/cronaca/torino_bambina_morta_culla_vaccino_asl-1755584.html
Qual è il problema? Basta seguire la fonte citata.
Aprendo il link si scopre, intanto, che la notizia risale al 25 - 05 - 2016, ovvero più di un anno prima, mentre Infovax la riporta come una situazione ancora in fieri e di cui si attendono gli sviluppi. Continuando la lettura dell'articolo si evince poi che è stata disposta l'autopsia della bambina per capire le cause della morte, che potrebbero essere slegate dalla vaccinazione. Correttezza vorrebbe quindi che, per un dibattito serio, Infovax pubblicasse tali dati, se disponibili, ma a distanza di un anno dai fatti, non lo fa. Nondimeno, spulciando in rete, si scopre che la morte della bambina è già stata spiegata, e di questa morte ci informa il giornalista specializzato nello sbugiardamento delle bufale David Puente su debunking.it (link). Stando ai risultati dell'autopsia la piccola sarebbe purtroppo morta per la Sids, e la vaccinazione a cui era stata sottoposta non avrebbe a che fare con il suo decesso. Di tutto ciò Infovax non dice nulla purtroppo, e dire che si tratta di informazioni reperibili in rete da più di un anno.
Ricapitolando: un autore di cui non sappiamo nulla, su un sito apertamente schierato, riprende una notizia già smentita spacciandola per appena accaduta e nascondendo alcune informazioni fondamentali per farsi un'idea chiara sui fatti. Questa è una fake news o, da noiantri, una bufala.
Sembra quindi doveroso chiudere con un breve decalogo, made in UE, per riconoscere le fake news e cercare di essere un po' più accorti in rete.

sabato 1 luglio 2017

Emily e il vento, Lorenzo Gobbi




Non è nello stile di questo blog, tuttavia, avendo avuto il piacere di conoscere di persona Lorenzo Gobbi, mirabile collega e splendida persona, non posso esimermi dalla "marchetta" del suo ultimo lavoro, Emily e il vento


Da un luogo lontano, da un tempo nuovo, un uomo scrive a Emily Dickinson: non vuole parlarle di sé, ma raccontarle, immaginando, di Emily stessa. Davanti ai suoi occhi, ecco Emily ragazza, che amava il sogno e amava il gioco, con una gioia infantile e consapevole; ecco il suo mondo perduto, la sua città, Amherst, la famiglia e gli amici, il cane Carlo, le api e il vento dei suoi boschi. Lo sguardo dell'autore la insegue negli anni, fino alla solitudine scelta volontariamente: entra con lei nella stanza che ne divenne la dimora, apre i cassetti dello scrittoio, contempla l'abito bianco che la rivestì, ne ascolta le poesie e il silenzio inconfondibile.



Inutile dire quanto alto sia il valore dell'opera, per cui l'unica cosa che posso fare è invitare caldamente i lettori di questo sito ad acquistare il libro e, magari, a darmi un parere: sarò felice di riferire all'autore stesso!

Gobbi, Lorenzo. Emily E Il Vento. Roma: Castelvecchi, 2017. Print


The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....