lunedì 27 febbraio 2017

La regione Veneto ha un evidente problema con la scuola, l'istruzione e la cultura

Elena Donazzan, assessore all'istruzione della regione Veneto, con il governatore della regione, Luca Zaia
Che fra regione Veneto e scuola ci sia un rapporto malsano è facilmente comprensibile, per esempio, dalle recenti parole dell'assessore all'istruzione, Donazzan, che definisce la settimana dello sport, imposta a tutte le scuole locali, così sul Corriere del Veneto: "una settimana di stacco dall'attività didattica tradizionale che dà la possibilità di fare a cuor leggero (chi può) la classica settimana bianca di fine inverno, sfruttando il ponte di Carnevale e attaccandoci altri tre giorni senza perdere neanche un'ora di attività didattica; è anche una risposta per i genitori che in quei giorni non possono andare in vacanza o per quelli che non saprebbero a chi lasciare i figli e agli operatori delle nostre zone di montagna per rivitalizzare il comparto e allungare la stagione".

Va bene la scuola al servizio del cittadino, ma qui si sta esplicitamente dicendo che, dato che dell'istruzione degli studenti in regione non frega nulla (salvo poi farsi belli dei risultati sulla dispersione scolastica, drogati da quei diplomifici regionali che sono i corsi di Formazione Professionale), tanto vale chiedere alla scuola di fare da babysitter o, meglio, da volano per l'economia.
In tutto ciò poi, viene per l'ennesima volta attaccato il diritto costituzionale degli insegnanti che sancisce la libertà d'insegnamento, con l'imposizione di attività che nulla hanno a che fare con l'attività scolastica, tanto da doversi inventare improbabili percorsi interdisciplinari sulla storia dello sport, lo sport e la salute, lo sport e la cucina, lo sport e la meccanica....
Ma tant'è, parliamo di un assessorato, quello della Donazzan, che di derive fasciste ormai ha riempito le cronache. Si ricordi quando per esempio pretendeva formali scuse e dissociazioni dagli attentati di Parigi da parte degli studenti figli di stranieri,

La famosa circolare dell'assessore Donazzan. Foto: Veneziatoday

di un assessorato praticamente muto sulla Giornata della memoria, sull'esplodere della xenofobia nelle scuole, sull'uso delle campagne antidroga a fini elettorali, che inonda invece le segreterie con circolari che invitano a ricostruzioni parziali dei fatti del confine orientale del nostro paese (come più volte denunciato da Wu Ming Foundation) o alla caccia alle streghe contro una teoria gender che esiste solo nelle teste di chi la vuole combattere. 
L'assessore Donazzan è stata al centro delle polemiche anche per aver ritwittato post di noti gruppi di estrema destra che associavano omosessualità e pedofilia

L'assessore Donazzan è una nota assertrice della necessità di combattere la "teoria gender". Come già detto, questa teoria non esiste ed è una bufala inventata da ambienti di estrema destra

Parliamo di una regione che proclama unilateralmente la propria popolazione minoranza etnica, si inventa l'esistenza della sua lingua, col solo scopo di discriminare chi non sia un veneto puro e pretendere l'autonoma nomina dei propri funzionari. Insomma, sotto la facciata perbene, prove di fascismo al potere.

domenica 26 febbraio 2017

Neuromante, William Gibson

Foto: Amazon Se si parla di cyberpunk, uno dei libri che meglio può caratterizzare il genere è Neuromante (Neuromancer) di WIlliam Gibson. Il romanzo avvince grazie alla sua struttura apparentemente lineare a dei personaggi con cui si entra facilmente in sintonia. Case, il protagonista, ha provato l'esaltazione del sentirsi quasi onnipotente, per scoprire poi come in realtà la sua vita diepnda dalle macchine e dall'abuso nelle connessioni. L'altro carattere principale, Molly, è ormai più un arma semovente che un uomo. Ermitage poi è un folle il cui cervello è stato divorato dalle macchine e dalle aziende che ne hanno sfruttato a loro piacimento l'esistenza.
Mentre questi personaggi rincorrono il mistero dell'apparizione di due intelligenze artificiali ormai quasi dotate di coscienza, Invernomuto e, a dare titolo all'opera, Neuromante, il lettore viaggia attraverso le vie di metropoli ormai irriconoscibili, eppure descritte in maniera così minuziosa da farle apparire reali, fino a viaggiare oltre l'atmosfera terrestre, verso i nuovi mondi che si immaginano colonizzati dalla nostra specie. Gli ambienti prendono vita grazie alla ricchissima dotazione retorica del romanzo, in particolare Gibson abbonda di similitudini e metafore. Proprio queste similitudini alimentano la sensazione di straniamento di un mondo e di personaggi che, sotto il perenne effetto allucinogeno di sostante psicotrope e di connessioni neurali, non sanno mai davvero se sono reali oppure no.
Neuromante anticipa e predice tanto di quello che sarà il futuro: l'iperconnessione della povera gente, le desolanti periferie delle metropoli, la babele dei quartieri sorti accanto alle grandi vie di comunicazione, lo strapotere delle multinazionali. Si può anzi dire che se esiste un genere che anticipa il futuro, questo è il cyberpunk.
Nuromante è considerato uno dei capolavori del tardo Novecento e la sua influenza è stata enorme, proprio mentre il successo del genere tendeva a scemare.
Eppure Neuromante, grazie al carisma e al genio del suo autore, rimane ben scolpito nella mente dei suoi lettori e rimane un acquisto appropriato per ogni amante del genere, e non solo.


Gibson, William. Neuromante. Milano: Oscar Mondadori, 2015. Print


venerdì 24 febbraio 2017

I dolori del giovane Werther, Johann Wolfgang Goethe

Foto: Wikipedia


I dolori del giovane Werther, pubblicati nel 1774 da Johann Wolfgang Goethe, hanno rappresentato per diverse generazioni l'esempio della vita attraversata sotto il segno della passione. Werther infatti brucia la sua vita sotto le insegne dell'amore per Lotte, sposata con Albert, e il fastidio per ogni impegno e attività che appartengano alla normalità borghese.

Lungi dal poter redigere una vera e propria recensione dell'opera, quello che più mi ha colpito alla lettura del romanzo è la ricca dotazione retorica. Brani, a volte anche molto lunghi, in cui il linguaggio di Werther sfida la pazienza del lettore contemporaneo con tirate artificiosa

mente costruite, costruzioni ellittiche o, al contrario, periodi simmetricamente costruiti per richiamarsi nel corso dei paragrafi, scelte lessicali dal gusto poetico. Tutto ciò oggi appare lontano dal gusto del lettore medio, lo stesso che, secoli fa, garantì il successo dell'opera. Eppure, siamo davvero sicuri che questo uso linguistico rappresenti e sintetizzi il pensiero linguistico di Goethe?

In realtà, nella sottile ironia della vicenda, dove in fin dei conti l'unica vera vittima è il marito Albert, nel'incomparabile asocialità di Werther, uomo sociale solo per rubare scampoli di vita ai suoi simili, nella sua capacità di impegno, non solo nei lavori socialmente riconosciuti, ma nella stessa arte che l'aveva spinto alla partenza, leggiamo in filigrana un certo distacco dell'autore dal suo personaggio.

Cert, lo Sturm Und Drang, certo, il titanismo di Werther. Eppure quella miserevole compassione per il proprio personaggio che sarà, per esempio, di Foscolo per il suo Ortis, qui è sempre filtrata dalla consapevolezza che, in fin dei conti, per Goethe il suo Werther è poco più che un fallito: un fallito ardimentoso, capace di grandi sentimenti, ma un fallito.

In questa sua capacità di distacco da Werther, Goethe, nel momento in cui si fa padre fondatore dello Sturm Und Drang, ne prende implicitamente le distanze, già diretto, forse inconsapevolmente, verso i lidi del classicismo moderno.

Goethe, Johann Wolfgang., Giuliano Baioni, and Stefania Sbarra. Die Leiden Des Jungen Werther = I Dolori Del Giovane Werther. Torino: Einaudi, 2014. Print


martedì 7 febbraio 2017

Post-verità e postmodernismo

E così si parla tanto, ma proprio tanto, di post-verità. Questa discussione porta con sé una premessa, d'obbligo, che certifica che una bella fetta di intellighentia italiana si era illusa di aver capito cosa stava accadendo nel mondo, non capendoci invece nulla. Diciamo che, malgrado quello che si è detto più o meno a sproposito, siamo ancora belli immersi nel postmodernismo. E uno dei postulati del postmodernismo, riprendendo Nietzche, è che non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni. Tutto il moderno discorso sullo storytelling della realtà si fonda su questo postulato, e i più avvertiti pubblicisti e comunicatori da decenni fondano la loro fortuna su questa sensazione diffusa.
Per carità, di interpretazioni della realtà a proprio uso e consumo la storia è piena, a partire dalle letture funzionali dei testamenti di Cesare e Marco Antonio. Prima ancora, nel 1275 a. C., dopo la battaglia di Qadesh in cui si scontrarono, i sovrani Ittiti ed Egizi potevano reclamare la vittoria per eccitare i propri sudditi. Ma quella che era una strategia adoperata apparentemente in maniera impressionistica, oggi diviene regola negli atti comunicativi di alcuni politici o esperti di media. È ormai abbastanza acclarato come intorno al M5S e alla Lega girino una serie di siti che manipolano delle notizie, o adoperando opportunamente immagini che non c'entrino nulla ma che possano colpire di più, o tramite omissioni o variazioni impercettibili nelle traduzioni, fino alla vera e propria invenzione di fatti. Sono strategie comunicative che in Italia ha largamente adoperato Silvio Berlusconi (Ruby docet e i suoi indimenticabili "sono stato frainteso"); Bush, Colin Powell e Blair si inventarono di sana pianta le armi di distruzione di massa in Iraq, ma ebbero la decenza di tentare di rendere credibile la manipolazione. Nulla di nuovo eh, lo stesso abbiamo fatto noi proprio in commemorazione delle vittime delle Foibe, quando per decenni abbiamo spacciato le foto degli infoibati croati e sloveni come foto di vittime italiane. 
Trump tuttavia porta al parossismo la tecnica, sbattendoti in faccia la manipolazione, parlando apertamente di "fatti alternativi", sfidando l'intelligenza altrui, consapevole che di fronte alla sua sicurezza le certezze dell'analfabeta funzionale vacilleranno. E così davanti all'evidenza delle foto e dei parallelismi fra il suo insediamento e quello di Obama, parla di fatti alternativi, o Kellyanne Conway, per sostenere l'esigenza del bando degli immigrati, può tranquillamente citare per tre volte un attentato terroristico che non c'è mai stato (come del resto i nostri pentastellati hanno adoperato in Parlamento immagini di un film horror russo per accusare l'Ucraina di genocidio).
Tutto ciò dimostra che quel ritorno al fatto, alla realtà, al realismo, intravisto da intellettuali come Eco e Ferraris, è lungi dall'essere un risultato acquisito, anzi. Oggi i populismi si avvalgono delle strategie comunicative che, per paradosso, sono state figlie e frutto ad un tempo della società che più intimamente si è legata alla globalizzazione. La post-verità prolifera in rete, trova diffusione capillare mentre diffonde idee di stampo nazionalistico, protezionistico, quando non dichiaratamente xenofobo. Le destre estreme mentre si chiudono nei confronti dell'altro, adoperano le strategie comunicative di distruzione di inossidabili certezze che sono state l'arma della cultura del sospetto. Un pastiche culturale che, al contrario di quanto fino ad ora teorizzato, è intimamente connesso alla seconda metà del Novecento, alla faccia del secolo breve.

lunedì 6 febbraio 2017

La grammatica e il pippone morale 2.0



Ciclicamente, più o meno con toni scandalistici, si torna a parlare di conoscenze e competenze grammaticali, di giovani che non sanno scrivere, di studenti universitari che commettono errori grammaticali da scuole elementari. Tutte cose già lette e rilette, che vengono fuori con meccanismi che sanno un po' di bomba ad orologeria, quando serve, per esempio quando si è in piena contrattazione Miur-sindacati della scuola. O più semplicemente quando bisogna coprire le magagne di questa o quella istituzione, come, nel caso specifico, l'università.
E' di questi giorni la lettera di denuncia di 600 accademici, lettera con cui si lamenta il degrado nell'uso della lingua italiana da parte di molti studenti universitari, equiparati, nelle loro conoscenze, a studenti di terza elementare. Sul banco degli imputati, ovviamente, la scuola, che avrebbe smesso di insegnare la grammatica e il pensiero logico per favorire, all'università lo scoprono ora dopo averli avallati per anni, percorsi professionalizzanti.

La prima cosa da chiedersi però è se quanto affermato dagli accademici corrisponda al vero, ovvero, se realmente le competenze linguistiche dei giovani siano inferiori a quelle delle generazioni precedenti. Come scritto in un altro post, non ci sono dati che dimostrino questa affermazione, e in questo senso la lettera dei 600 si fonda sul sentito dire, la peggiore delle pratiche allorché si vuole dimostrare una tesi, anche la più ragionevole. Anzi, come già detto, le misurazioni fornite da INVALSI e i test PISA dimostrano una graduale crescita delle competenze linguistiche, sebbene questa sia distribuita in maniera eterogenea. Viene da chiedersi se i firmatari della lettera, accademici come i redattori dei fantomatici test INVALSI, conoscano questi dati. Rimanendo ai dati, perché questo dovrebbe fare chiunque sostenga una tesi, anche la più dirompente, questa fantasmagorica generazione ipercompetente dal punto di vista linguistico, tanto da padroneggiare la semantica e la sintassi della lingua italiana alla perfezione, non è mai esistita. Come mostra il grafico, anzi, è proprio fra gli adulti che si annida il tarlo dell'analfabetismo di ritorno, ovvero l'incapacità di decodificare un testo complesso compiendo tutti i passaggi logici che conducano, da una interpretazione che si fermi agli aspetti denotativi, alla ricostruzione dell'impianto connotativo. Detta in altre parole, la scuola di ieri, quella celebrata dalla lettera che sarebbe morta negli anni '70 del Novecento, è stata, dal punto di vista linguistico, fallimentare. Tra l'altro, nel momento in cui si parla di competenze linguistiche, i firmatari fanno un'estrema confusione tra ortografia, per sua natura mutevole e legata agli usi dei fruitori, sintassi e semantica. Lamentare le variazioni ortografiche nei testi scritti dai giovani fruitori della lingua, senza sapere che, per esempio, all'origine della lingua italiana non si scriveva il digramma "ch" ma si prediligeva il grafema "k", ovvero che un uso banalissimo ha visto una o più variazioni nel corso dei secoli, è indice di pressapochismo. Fra i firmatari della lettera troviamo, sì, illustri linguisti, ma anche gente che con la scrittura o il mondo della scuola non ha nulla a che fare.
Da questo la seconda considerazione: si lamenta l'assenza di certo tipo di  pratiche linguistiche nella scuola dell'obbligo, senza sapere che quelle pratiche, dopo un periodo di appannamento, sono oggi vive e vegete. Di più, dopo che per anni gli accademici formatori degli insegnanti hanno pressato per l'introduzione massiva e inconsapevole degli strumenti digitali nelle scuole, oggi gli stessi accademici ne lamentano la pratica. Chiunque abbia frequentato le scuole di specializzazione per l'insegnamento ha dovuto vivere, in misura diversa, un'esperienza degradante: docenti che dovrebbero insegnare didattica che di didattica non sanno nulla, che per loro stessa ammissione hanno smesso di frequentare le scuole con il diploma, che si guardano bene dal confrontarsi in maniera responsabile con il mondo della scuola. Docenti universitari che per insegnare l'uso del cooperative learning praticano noiosissime e lunghissime lezioni frontali, o che, mentre parlano di valutazione e di prove per le competenze, adoperano test a risposta chiusa di malcelata inutilità.
In ultimo, quanti fra i testi scritti dai 600 firmatari passerebbero il vaglio di un test di leggibilità? Quanto questa lettera è autoreferenziale, apologetica di un sistema che, se professionalizzava, chiudeva le porte dei giovani alle università, nascondendo il problema dell'analfabetismo sotto il tappeto?

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....