venerdì 26 agosto 2016

Giulio Cesare, William Shakespeare



Quando il personaggio che dà il titolo ad un'opera teatrale scompare dalla scena alla metà dell'opera, o si tratta di un fiasco o si tratta di un capolavoro dalle profondità mai raggiunte. Questo è il caso del Giulio Cesare di Shakespeare, tragedia in cui i tempi della storia si comprimono in un climax che accompagna il dissidio interiore dei protagonisti del dramma. In primis Bruto, che ama come un figlio Giulio Cesare ma che, costretto dalla sua ferrea etica, non potrà esimersi dall'agire contro il dittatore per salvare la Repubblica. Poi Cassio, che nel nome dei valori della Repubblica (o meglio, dei privilegi dell'oligarchia) teme e odia Giulio Cesare, in cui vede l'uomo che vuole farsi re contro le istituzioni repubblicane. Ed ecco il personaggio da cui il dramma trae il suo titolo, Giulio Cesare, fiero della sua grandezza, stoico nella volontà di seguire in tutto e per tutto il fato che gli è stato assegnato, che vive un momento di crisi solo di fronte al presagio di Calpurnia che sembra predirne la morte. Eppure Cesare non può non tentare di essere fino all'ultimo artefice del proprio destino, e così affronterà la sorte e la congiura che lo attende.
Con la morte di Cesare, quella che è la tragedia dello stoicismo, degli uomini che, in nome della libertà, repubblicana o individuale, si fronteggiano, diviene la tragedia della politica e della passione. Da un lato i congiurati, Bruto e Cassio in primis, con le loro posizioni tanto diverse tra di loro; dall'altro lato Marcantonio e Ottaviano, fedele e passionale soldato l'uno, inesperto ma con l'animo del politico fiero l'altro. La tragedia si fa così tragedia di discorsi, in cui i confronti pubblici si fanno memorabili, a partire da quello tra Bruto e Marcantonio. Bruto è l'uomo che si fa portavoce della logica ferrea, dell'etica della filosofia, del rigore della prosa: per lui l'amato Cesare ha però peccato volendosi fare più grande di tutti gli altri uomini, attentando a qualcosa di superiore, la Repubbica. Per questo lui, che pure l'amava, l'ha dovuto uccidere, assumendosi tutto il peso della sua azione. Dall'altro lato Marcantonio che, con abile retorica, smonta con le armi del pathos e della poesia i ragionamenti dell'avversario e, con l'ironia, svela l'inconsistenza delle sue accuse, finanche del suo essere uomo onorevole.
BRUTUS. Be patient till the last. Romans, countrymen, and lovers! Hear me for my cause; and be silent, that you may hear: believe me for mine honour, and have respect to mine honor, that you may believe: censure me in your wisdom; and awake your senses, that you may the better judge. If there be any in this assembly, any dear friend of Caesar's, to him I say that Brutus' love to Caesar was no less than his. If then that friend demand why Brutus rose against Caesar, this is my answer,—Not that I loved Caesar less, but that I loved Rome more. Had you rather Caesar were living, and die all slaves, than that Caesar were dead, to live all freemen? As Caesar loved me, I weep for him; as he was fortunate, I rejoice at it; as he was valiant, I honour him; but, as he was ambitious, I slew him. There is tears for his love; joy for his fortune; honour for his valour; and death for his ambition. Who is here so base that would be a bondman? If any, speak; for him have I offended. Who is here so rude that would not be a Roman? If any, speak; for him have I offended. Who is here so vile that will not love his country? If any, speak; for him have I offended. I pause for a reply. [...] BRUTUS. Then none have I offended. I have done no more to Caesar than you shall do to Brutus. The question of his death is enroll'd in the Capitol, his glory not extenuated, wherein he was worthy;, nor his offenses enforced, for which he suffered death.
BRUTO –
Romani, miei compatrioti, amici, io vi chiedo pazienza; ascoltatemi bene fino in fondo, e restate in silenzio, e vi esporrò la causa del mio agire. Sul mio onore, credetemi, ed abbiate rispetto del mio onore; giudicatemi nella saggezza vostra, e a meglio farlo aguzzate l'ingegno. Se c'è alcuno fra voi ch'abbia voluto molto bene a Cesare, io dico a lui che l'amore di Bruto per Cesare non fu meno del suo. Se poi egli chiedesse perché Bruto s'è levato con l'armi contro Cesare, la mia risposta è questa: non è che Bruto amasse meno Cesare, ma più di Cesare amava Roma. Preferireste voi Cesare vivo e noi tutti morire come schiavi, oppur Cesare morto, e tutti liberi? Cesare m'ebbe caro, ed io lo piango; la fortuna gli arrise, ed io ne godo; fu uomo valoroso, ed io l'onoro. Ma fu troppo ambizioso, ed io l'ho ucciso. Lacrime pel suo amore, compiacimento per la sua fortuna, onore al suo valore, ma morte alla sua sete di potere! C'è alcuno tra voi che sia sì abietto da bramare di viver come servo? Se c'è, che parli, perché è lui che ho offeso! Se alcuno c'è tra voi che sia sì barbaro da rinnegare d'essere un Romano, che parli, perché è a lui che ho fatto torto! E chi c'è qui tra voi di tanto ignobile da non amar la patria? Se c'è, parli:perché è a lui ch'io ho recato offesa. [...] Vuol dire allora che nessuno ho offeso. Ho fatto a Cesare non più di quello che ciascuno di voi farebbe a Bruto. Le ragioni per cui Cesare è morto son tutte registrate in Campidoglio; la sua gloria, dov'egli ne fu degno, non è stata offuscata, né i suoi torti per i quali ebbe morte, esagerati.

ANTONY.
Friends, Romans, countrymen, lend me your ears;
I come to bury Caesar, not to praise him.
The evil that men do lives after them;
The good is oft interred with their bones;
So let it be with Caesar. The noble Brutus
Hath told you Caesar was ambitious:
If it were so, it was a grievous fault,
And grievously hath Caesar answer'd it.
Here, under leave of Brutus and the rest--
For Brutus is an honourable man;
So are they all, all honourable men--
Come I to speak in Caesar's funeral.
He was my friend, faithful and just to me:
But Brutus says he was ambitious;
And Brutus is an honourable man.
He hath brought many captives home to Rome
Whose ransoms did the general coffers fill:
Did this in Caesar seem ambitious?
When that the poor have cried, Caesar hath wept:
Ambition should be made of sterner stuff:
Yet Brutus says he was ambitious;
And Brutus is an honourable man.
You all did see that on the Lupercal
I thrice presented him a kingly crown,
Which he did thrice refuse: was this ambition?
Yet Brutus says he was ambitious;
And, sure, he is an honourable man.
I speak not to disprove what Brutus spoke,
But here I am to speak what I do know.
You all did love him once, not without cause:
What cause withholds you then, to mourn for him?
O judgment! thou art fled to brutish beasts,
And men have lost their reason. Bear with me;
My heart is in the coffin there with Caesar,
And I must pause till it come back to me. 
ANTONIO –
Romani, amici, miei compatrioti,
vogliate darmi orecchio.
Io sono qui per dare sepoltura
a Cesare, non già a farne le lodi.
Il male fatto sopravvive agli uomini,
il bene è spesso con le loro ossa
sepolto; e così sia anche di Cesare.
V'ha detto il nobile Bruto che Cesare
era uomo ambizioso di potere:
ed egli gravemente l'ha scontata.
Qui, col consenso di Bruto e degli altri
– ché Bruto è uom d'onore,
come lo sono con lui gli altri –
io vengo innanzi a voi a celebrare
di Cesare le esequie. Ei mi fu amico,
sempre stato con me giusto e leale;
ma Bruto dice ch'egli era ambizioso,
e Bruto è certamente uom d'onore.
Ha addotto a Roma molti prigionieri,
Cesare, e il lor riscatto ha rimpinzato
le casse dell'erario: sembrò questo
in Cesare ambizione di potere?
Quando i poveri han pianto,
Cesare ha lacrimato: l'ambizione
è fatta, credo, di più dura stoffa;
ma Bruto dice ch'egli fu ambizioso,
e Bruto è uom d'onore.
Al Lupercale tutti avete visto –
per tre volte gli offersi la corona
e per tre volte lui la rifiutò.
Era ambizione di potere, questa?
Ma Bruto dice ch'egli fu ambizioso,
e, certamente, Bruto è uom d'onore.
Non sto parlando, no,
per contraddire a ciò che ha detto Bruto:
son qui per dire quel che so di Cesare.
Tutti lo amaste, e non senza cagione,
un tempo... Qual cagione vi trattiene
allora dal compiangerlo? O senno,
ti sei andato dunque a rifugiare
nel cervello degli animali bruti,
e gli uomini han perduto la ragione?
Scusatemi... il mio cuore giace là
nella bara con Cesare,
e mi debbo interromper di parlare
fin quando non mi sia tornato in petto
Il duello retorico tra Marcantonio e Bruto è indubbiamente il più noto, tuttavia non è l'unico. Altri due diverbi metteranno in luce gli animi dei protagonisti: quello tra un Cassio sempre più miserabile e corrotto e Bruto, ancora e sempre più da solo emblema dell'etica e della coerenza; quello tra Ottavio e Marcantonio, spartita l'eredità di Cesare, sul modo di condurre la battaglia contro i congiurati. Ottavio è ancora un ragazzo, eppure già si intravede la grandezza del politico che non ha da lottare contro Antonio, tanto gli è superiore.
ANTONY.
Octavius, lead your battle softly on,
Upon the left hand of the even field.
OCTAVIUS.
Upon the right hand I; keep thou the left.
ANTONY.
Why do you cross me in this exigent?
OCTAVIUS.
I do not cross you; but I will do so 
ANTONIO –
Ottavio, fa' avanzare senza fretta
i tuoi dalla sinistra della piana.
OTTAVIO –
Io dirigo alla destra.
La sinistra la tieni tu, Antonio.
ANTONIO –
Perché vuoi contrastarmi, Ottavio Cesare,
proprio in questo frangente?
OTTAVIO –
Non ti contrasto: faccio quel che dico
Giunge la battaglia, e se la sorte e l'apparizione del fantasma di Cesare conducono all'errore Cassio che. non ancora sconfitto, si suicida, Bruto giganteggia su tutti: lui che, sconfitto Ottavio in battaglia, anziché cercare un compromesso, porta alle estreme conseguenze le sue azioni, sfidando da solo in campo aperto le forze nemiche: è la sconfitta a cui, assieme all'amico Catone, segue uno stoico suicidio.
L'onore di Bruto non è compromesso, egli ha lottato per un ideale. Eppure è uscito sconfitto, è morto, i vincitori sono altri. Nelle lodi che Ottavio e Marcantonio cantano per l'avversario sconfitto si intravede, in controluce, la loro guerra e la fine, ormai imminente della Repubblica.
Chi è il vincitore e chi lo sconfitto? Se dalla tragedia appare come vincitore Marcantonio, tuttavia lo spettatore non può non sapere che il generale sarà il grande sconfitto delle guerre civili; nondimeno Bruto e Cassio, coloro che vogliono essere gli onesti, i puri ad ogni costo, saranno coloro che innescheranno il meccanismo che condurrà allo sfacelo della Repubblica; vincitore non è Cicerone, dipinto con poche pennellate come un pavido retore, vincitore non è Cesare, che non ha saputo e voluto capire quale fosse il momento di recedere dalla propria tracotanza; vincitore non è, ancora, Ottavio, sconfitto in battaglia (eppure capace di allontanarsi dallo scontro assieme a Marcantonio con la salma del nemico).
Come spesso accade in Shakespeare, il dramma della psiche dell'uomo conduce alla catastrofe, una catastrofe che muterà per sempre l'orizzonte dei personaggi, sia degli sconfitti che dei vincitori.

Testo in lingua originale: http://www.gutenberg.org/ebooks/1522?msg=welcome_stranger
Traduzione in italiano (traduzione del prof. Goffredo Raponi): http://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/william-shakespeare/giulio-cesare/

martedì 16 agosto 2016

Che cosa chiedere alla storia, Marc Bloch

Foto: Castelvecchi editore

Se si vuole capire cosa sia il mestiere dello storico, non si può prescindere da alcune letture e da alcuni studiosi, e fra questi c'è senza dubbio Bloch. Se poi si vuole capire cosa sia davvero la Storia, in maiuscolo, uno strumento d'eccezione sono le vive parole dell'autore, così come le ebbe a pronunciare nel 1937 al Centre polytechnicien d’études économiques e racchiuse in Che cosa chiedere alla storia. Con questo discorso lo studioso spiega bene quale sia la sua idea degli studi storici: la Storia come interessamento al presente e alla vita che non può fare a meno del passato, la Storia come scienza del cambiamento, misurabile solo smettendo di adoperare categorie che l'autore trova infondate, quali quelle di passato "prossimo" e "remoto" e che tutt'ora sono invece invalse, soprattutto quando a studiare la storia sono persone prive di metodo e di una visione ampia. La storia così, per Bloch, non può non essere storia "lunga", perché solo nel lungo periodo è misurabile un reale cambiamento, quanto esso sia profondo, e quali siano i fattori che l'abbiano prodotto.
Ma a quale scopo fare storia?
Per Bloch lo studio della storia è uno studio disinteressato, umanistico, anche quando si occupa di argomenti tecnici, come nel caso dell'autore, quali la storia economica e monetaria. Soprattutto, per Bloch, occorre che sia chiaro un concetto: lungi dal poter possedere un metodo sperimentale come le scienze dette esatte, ancor di più lo storico deve essere attento nello studio dei fattori che comportano il verificarsi di un evento; solo l'attento studio di questi fattori potrà permettere una certa approssimazione nella previsione degli eventi futuri. Infatti, come più volte precisato da Bloch, gli eventi non si ripetono mai del tutto uguali proprio perché mai sono uguali i fattori che ne influenzano lo svolgimento, e solo l'analisi delle diversità potrà permettere, in anticipo, di prevedere se e come un certo evento sarà ripetibile o se, invece, ci si potrà attendere qualcosa di diverso. La Storia di Bloch è quindi una storia, fondata su un metodo rigoroso, che vuole giungere a fondare leggi evoluzionistiche nello svolgimento dei fatti umani, nella misura, a punto, in cui i fattori evolutivi sono o no similari. La Storia è quindi la scienza del cambiamento, non per niente Bloch giunse a dire che la maggior parte dei "progressi" a cui abbiamo assistito negli ultimi duemila anni nascono da dei fallimenti.

Per quanto sia oggi difficile credere nella possibilità di leggi evoluzionistiche delle vicende umane, uno schema positivista che non appartiene, forse a torto, ad una concezione del mondo sincronica e schiacciata sul presente apparentemente immobile, tuttavia la lezione di Bloch rimane fondamentale: da un lato per la sua capacità di smontare i facili entusiasmi di chi crede in una banale ciclicità e immobilità della storia (come i recenti fatti in Turchia, per esempio, hanno mostrato accadere tra la maggior parte dei commentatori), e dall'altro lato per la sua capacità di confutare la visione storica di una larga parte degli economisti prestati alla storia, convinti dell'assoluta unicità dell'epoca presente e incapaci di osservare i fatti nella prospettiva più ampia della storia lunga.

lunedì 15 agosto 2016

La fine del mondo Capitalismo e mutazione, Daniele Balicco

Foto:danielebalicco.it


Con "La fine del mondo. Capitalismo e mutazione", pubblicato da Daniele Balicco sulla rivista Between e ripreso da leparoleelecose.it, ci addentriamo all'interno delle implicazioni che il cambiamento della percezione della realtà ha per l'immaginario contemporaneo. A sua volta l'autore mette in risalto come, a partire dal diciassettesimo secolo e con lo sviluppo del capitalismo, un cosciente lavoro sull'immaginario abbia portato all'imposizione del sistema capitalistico e, al contempo, alla sensazione che un mondo plurimillenario, quello basato su simboli ricorrenti già dal paleolitico, sia giunto alla sua conclusione.  Il presupposto è che la società precapitalista e premoderna viva secondo una percezione storica di lunga durata, mentre caratteristica del capitalismo sia  la sincronicità. La sensazione di "fine della storia" e il suo ritornare così frequentemente nell'immaginario collettivo, per esempio al cinema, nelle serie tv o nella narrativa, si spiegano quindi con questo processo di mutazione antropologica spiegabile esclusivamente in un contesto di storia lunga, secondo il modello degli Annales e degli insegnamenti di Bloch.
Partendo dagli studi dell'antropologo De Martino e di Pasolini, Balicco propone un'analisi che si basa su tre concetti: la verosimiglianza, l'intensificazione e la mutazione.
La verosimiglianza è intesa come quella serie di leggi e norme, poste socialmente, che per millenni hanno connotato l'interpretazione ingenua della realtà; questa idea di verosimiglianza si intensifica con il capitalismo, divenendo però implicita anziché esplicita (in un certo senso quindi impedendo ogni forma di controllo e di difesa da questa idea), a causa dello sviluppo tecnologico e della massificazione della cultura. L'interazione tra verosimiglianza e intensificazione produce la mutazione antropologica a cui oggi assistiamo, per cui i criteri estetici ed etici che avevano caratterizzato le avanguardie novecentesche divengono ora tipici dell'immaginario collettivo, causando un appiattimento sul presente dal punto di vista storico, la sensazione perenne di vivere una possibile fine del mondo e la conseguente paura della catastrofe causata dall'uomo stesso (e a cui solo la tecnica stessa può porre rimedio), nonché il bisogno inconscio di riti di passaggio, bisogno tuttavia frantumato tanto da causare la persistenza, anche in età adulta, di elementi che caratterizzano l'infanzia e l'adolescenza (abuso della pornografia, dei videogiochi, etc.).
A corredo delle tesi dell'autore viene riportata una discreta mole di materiali, a partire dalle citazioni di serie tv, di film e di libri. In ogni caso l'analisi resta uno strumento interessante per cercare di capire come la percezione della realtà sia cambiata anche a causa del capitalismo, come forma di organizzazione che permea non soltanto la vita economica ma anche la vita sociale, culturale e spirituale dell'Occidente.


Balicco, Daniele, “La fine del mondo. Capitalismo e mutazione”, L'immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/

Cuore cavo, Viola Di Grado

Foto: foggiacittaaperta.it

È davvero difficile recensire un romanzo come Cuore cavo di Viola Di Grado. Si potrebbe lodare la bravura tecnica della scrittrice, davvero dotata di una notevole padronanza della lingua, anche quando si spinge verso settori apparentemente poco appetibili per il pubblico, come quelli dei linguaggi settoriali; oppure si potrebbe criticare l'apparente presunzione della scrittrice, che in certi momenti sembra voler strafare, pretendere troppo da se stessa e dal lettore, costretto a rincorrere la protagonista nei suoi lunghi monologhi; si potrebbe apprezzare l'intelligenza con cui l'autrice sfrutta un genere mainstream, l'horror dei non morti, dei fantasmi, finanche accennando alla moda degli zombie, senza tuttavia scadere nella pura e semplice volontà di generare paura o terrore; si potrebbe ugualmente criticare l'inesperienza di alcune trovate o la debolezza della trama, dal colpo di scena finale alla contraddizione di fantasmi che, di volta in volta, si dice possano e poi non possano interagire con la realtà dei vivi. Cuore cavo è tante cose insomma: un romanzo di un'autrice ancora molto giovane ma già sicuramente esperta della letteratura, sia di quella più alta che di quella più modaiola. Un'autrice che, forse a sua insaputa, riesce a resuscitare dei modi di scrivere, il pulp e l'orrore, che in Italia non hanno avuto mai una vera e propria tradizione, se non con i cosiddetti Cannibali. Proprio di questa libertà si avvale Viola Di Grado, che tuttavia fallisce nella costruzione di una trama corposa (e forse, in ossequio alla migliore letteratura postmoderna, neanche la vuole una trama). In ogni caso si tratta di un romanzo a cui vale la pena di dare una chance, senza pretendere di aver trovato un capolavoro, ma con la consapevolezza di star leggendo l'opera di qualcuno che, almeno, sa scrivere bene.

sabato 6 agosto 2016

Mobilità, deportazioni e altre cose che avrei preferito non vedere

Scriverò solo questo post sulla mobilità e su quello che sta accadendo nel mondo della scuola anche in questa estate. Le modalità scelte per questa procedura di mobilità straordinaria sono indegne di un paese civile: non è possibile pensare che il trasferimento di migliaia di persone (a occhio alla fine della fiera più di cinquantamila famiglie sarà sballottata per l'Italia) venga gestito in maniera così poco trasparente e, soprattutto, improvvisata. Detto questo, cari colleghi, come al solito state facendo tutto, ma proprio tutto, per sembrare degli stupidi. Leggo e ascolto accorate proteste scritte o pronunciate in un italiano stentato, tra errori grammaticali e dialettalismi; avete rispolverato il paragone con le deportazioni, facendo sembrare persino Rondolino uno storico di razza; parlate di trasferimenti del tutto inaspettati quando era ben chiaro nel testo della legge che all'adesione al piano d'assunzione straordinario corrispondeva la presa in carico di questo rischio, facendo in questo modo il gioco di chi vi dice e vi dirà che, se non volete trasferirvi, non dovevate aderire al piano oppure ora vi dovete dimettere. Sono cose che dico da un anno e più, ma sigle e siglette, associazioncine e gruppetti Facebook autoreferenziali si ostinano a praticare queste tattiche suicide, leccando il culo del Movimento Cinque Stelle, pensando a chissà quali stravolgimenti della scuola dopo le elezioni. Intanto il MIUR e il corpo docenti, tutti, fanno una pessima figura, mostrando un mondo in cui incompetenza, irresponsabilità, regressione infantile e approssimazione la fanno da padroni e in cui i vertici ignoranti sono lo specchio di lavoratori rinchiusi in una guerra tra bande. Se questa è la scuola pubblica, se questi sono i suoi dipendenti, per favore licenziateci tutti, dal ministro all'ultimo degli insegnanti, e ripartite da zero.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....