giovedì 31 dicembre 2015

Se la scuola smette di essere luogo di confronto



Chi legge questo blog da anni sa che uno dei temi che più mi sta a cuore è quello dei diritti individuali, in particolare tutto ciò che riguarda l'integrazione e la tutela delle minoranze, così come la tutela delle diversità. Non potevo quindi esimermi dallo scrivere una riflessione su quanto avvenuto, neanche troppo recentemente, in Lombardia. La regione presieduta dal leghista Maroni ha infatti messo su, su richiesta del partito del governatore della regione, un call center "anti gender", ovvero un numero telefonico a cui potranno rivolgersi genitori, studenti, insegnanti, delatori... per segnalare chi nelle scuole oserà trattare di temi quali la parità di genere, sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale. In parole povere, gli insegnanti dovrebbero smettere di studiare e spiegare l'argomento, uno dei temi di più larga e aperta discussione negli studi di antropologia, sociologia, psicologia e biologia negli ultimi cinquant'anni, per patrocinare una visione tradizionale e convenzionale, figlia non tanto della scienza, quanto, a punto, della tradizione e della cultura religiosa.
Indubbiamente, già le modalità con cui ho raccontato la notizia la diranno lunga su cosa penso di una simile iniziativa. Ciò che mi preme qui è sottolineare un altro punto, se vogliamo, una questione più astratta, da cui si declinano poi tutta una serie di questioni ancora aperte, su cosa debba o non debba fare la scuola oggi.
Deve o non deve la scuola, pubblica o privata che sia, confrontarsi con ciò che la sua utenza, ovvero i suoi studenti e le famiglie che stanno dietro e accanto ai ragazzi, non conoscono o credono, erroneamente, di sapere? Questo è lo snodo su cui occorre prendere una posizioni chiara, politica, perché da questa decisione dipende cosa vogliamo che la scuola faccia o non faccia. Possiamo decidere che la scuola ignori le ricerche contemporanee, tramandi soltanto le nozioni accreditate da una lunga tradizione, millenaria: è una scelta politica, non diversa da quelle compiute, per esempio, nelle scuole coraniche, anzi, al di là del nome della fede di riferimento, identico sarebbe il risultato finale. Possiamo tramandare nozioni volutamente male interpretate, smettere per esempio di spiegare quale fosse, secondo ogni evidenza scientifica, il reale rapporto tra Achille e Patroclo, o smettere di sollevare dubbi sulla reale esistenza di un certo Gesù di Nazareth, smettere di sollevare dubbi su miracoli e gesta eroiche, possiamo smettere di fare tutto ciò, è una scelta politica, dicevamo, perché ogni narrazione che realizziamo a scuola è, sempre e comunque, fiction, interpretazione dei fatti. non sono mai i fatti così come sono realmente accaduti, se mai sono esistiti, ma il tentativo di dare un ordine e un senso a qualcosa che forse un ordine e un senso non ha. Possiamo decidere di dare un ordine e un senso strutturalmente conservativi, chiedere ai nostri alunni di non avere più dubbi. Possiamo dire loro che ciò che vuole e crede la maggioranza è sempre il meglio; e sperare di essere sempre parte di quella maggioranza.
Al di là di ogni verità posseduta nella tasca dei pantaloni, sulla questione "gender" o dell'identità sessuale esiste un dibattito, orientato da diverse istanze: è lecito chiedere che la scuola si chiami fuori da questo dibattito, faccia finta che questo dibattito non esista, per continuare a tramandare nozioni vecchie di millenni? È lecito farlo su argomenti come l'evoluzionismo, il confliggere di fede e ragione, le storture della nostra storia politica recente e antica, le ipocrisie sui diritti individuali, l'inconsistenza dei diritti naturali, del diritto alla proprietà, delle pratiche e convenzioni più condivise? Porre dubbi vuol dire sempre e soltanto voler distruggere? E se una cultura non è capace di resistere al dubbio, su che fondamenta poggia la sua solidità?

mercoledì 16 dicembre 2015

Per una didattica modulare delle lettere nella Scuola Secondaria di II Grado



Da anni ormai mi batto per una didattica modulare per quanto riguarda l'insegnamento delle lettere e di storia nella Scuola Secondaria di II Grado. Penso che, se ben pensata, una struttura a classi aperte possa essere il modo migliore per sfruttare il recente Organico del potenziamento, senza creare docenti di serie A e serie B all'interno dell'organico delle scuole. Sono assolutamente contrario alle fasce di livello, comode solamente per una didattica per le competenze espressione della sua interpretazione più gretta (ovvero quella per cui le competenze servano solo per competere, meglio, nel mondo del lavoro). Non così le classi aperte: ad esempio io le assocerei ad una didattica modulare, cosa che, tra l'altro, consentirebbe con una turnazione continua di far girare i docenti fra biennio e triennio nel corso degli anni in maniera meno traumatica, più organica ed eviterebbe di sprecare competenze dei docenti assunti sull'organico di potenziamento. Faccio un esempio: nell'anno 20** ho 15 docenti di lettere da distribuire tra triennio e biennio. Di questi 5 potrebbero occuparsi di moduli disciplinari di grammatica per il biennio, 10 di moduli disciplinari di narratologia-testo narrativo, teatro, testo poetico-lirica, testo poetico-epica tra biennio e triennio (è un esempio eh, uno dei tanti fattibili). I gruppi classe si muoverebbero a seconda dei moduli da svolgere nella singola annata, quindi non saremmo più strettamente legati al singolo gruppo classe, ma agli argomenti da svolgere e alle competenze da raggiungere, cosa che permetterebbe anche di modulare in maniera più flessibile il monte ore. L'anno dopo, per turnazione, chi si è occupato di grammatica, per esempio, va ad occuparsi di testo narrativo; chi ha fatto testo narrativo, va sul testo poetico (come per le posizioni sul campo a pallavolo).
Alcuni moduli (grammatica; narratologia-testo narrativo; teatro; testo poetico-lirica; testo poetico-epica) sarebbero obbligatori nel corso dei cinque anni - non è immaginabile che italiano divenga un insegnamento opzionale - mentre altri moduli potrebbero essere opzionali, fermo restando che ogni alunno dovrebbe comunque svolgere, tra biennio e triennio, dei moduli opzionali per completare il suo percorso. Con questi moduli opzionali ma obbligatori nel complesso si potrebbero valorizzare le specificità degli insegnanti: se ho nel corpo docenti uno storico questo potrebbe costruire un modulo opzionale sul metodo storico, o un corso monografico; se ho un giornalista potrebbe venire fuori un modulo sull'editoria; se ho uno scrittore un modulo sulla scrittura creativa. Le opzioni potrebbero essere tantissime, moduli di letteratura comparata, moduli paralleli letteratura-linguaggio audiovisivo, moduli con approfondimenti sulla storia dell'arte piuttosto che sulla filosofia. In tutto ciò almeno eviteremmo che i docenti di potenziamento finissero per fare i tappabuchi o progetti fumosi fatti tanto per non fare stare i colleghi in sala insegnanti in attesa del Messia.
Ulteriormente: un sistema modulare, al triennio, mi permetterebbe di scandire nuovamente l'insegnamento della letteratura, partendo non dal mero ordine cronologico, ma dalle reali capacità di interpretazione degli studenti. Oggi come oggi al terzo anno delle superiori iniziamo lo studio della letteratura italiana con argomenti del tutto incomprensibili per gli studenti, come la poesia del '200. Il risultato è che, per amor di programma, svolgiamo l'argomento, ma male. Con una didattica modulare potremmo invece partire da argomenti più fruibili, come il testo narrativo, per passare via via a testi più tecnici per esempio il testo teatrale, il testo epico fino alla lirica; il tutto andrebbe raccordato con moduli a carattere comparativo e cronologico, per non perdere la visione storica che accompagna lo studio della letteratura. Un modo insomma per coniugare capacità degli studenti, disponibilità degli organici e necessità dei programmi.

domenica 6 dicembre 2015

Leggere Amleto

Amleto  è annoverato fra i drammi maggiori diretti da William Shakespeare. La storia del principe ereditario del trono di Danimarca e della sua sciagurata famiglia è per molti aspetti emblematica, e tuttavia difficillmente si dedica spazio alla lettura di questo testo, preferendo, come ovvio e immaginabile, fruirne durante le rappresentazioni teatrali, le messe in scena, perfino le trasposizioni cinematografiche.
Eppure il testo dell'Amleto di Shakespeare è innnanzi tutto un bel testo da leggere, che ha tanto da dare al lettore che voglia dedcarsi ad esso con pazienza ed attenzione. Infatti la lettura dell'opera richiede tempo, paradossalmente di più rispetto alla fruizione dal vivo. Forse perché i versi shaskespeariani sono talmente levigati da richiedere attenzione e cura ai dettagli anche da parte del lettore, o forse perché la lettura dona il tempo per far caso ai rimandi metatestuali, alle citazioni letterarie, o anche solo alla caratterizzazione dei personaggi. Giganteggia certo Amleto, l'eroe del dubbio, scisso, frastagliato, innamorato che non ama, vendicatore che non prova lo sdegno di Medea o l'ira di Oreste. Amleto è l'eroe che può ma non sa di volere, capace di dubitare di tutto, compresa la rivelazione ascoltata dallo spettro del padre morto. Ma nel dramma, emergendo ancor di più nello scritto, giganteggia anche Claudio, il re che potrebbe essere giusto ma non sa esserlo: Claudio ha tutte le doti per essere un buon re, vede il giusto, ha le doti retoriche e il carattere, persino il senno per poter guidare al meglio la Danimarca. Ma Claudio non sa non essere colui che ha macchianto contro il fratello, colui che ne ha sposato la vedova per assurgere al potere. Claudio sa, e non può non sapere, perché Amleto lo odia.
Di fronte a questi personaggi, le altre maschere che fanno da contorno scompaiono. Amleto è tutto in questo confronto, tra un figlio che dice di amare il proprio padre, e tuttavia non crede le sue parole, e un fratello che ha ucciso il suo re per prenderne il posto. Al centro tra questi due opposti speculari c'è la morte, come soluzione ambigua per ogni dramma della miseria umana, il morire, forse sognare che, nella sua vaghezza, muove ogni cupio dissolvi dei due antagonisti e delle marionette da essi manovrate, come Laerte. Lontano, in disparte, un conquistatore vendicativo, quel Norvegia che rigenererà lo stato dopo il bagno di sangue che ne disegnerà l'esisto.


sabato 5 dicembre 2015

Ma di che guerra stiamo parlando?

In questi giorni di intense discussioni, sarà capitato a tutti di sentire parlare di guerra. La guerra sta ovunque, la guerra è stata dichiarata, alla guerra si risponde, non ci possiamo tirare in dietro dalla guerra. Si potrebbe continuare all'infinito.
Ma quando si parla di guerra, di cosa si sta parlando?
Occorrerebbe specificare che la guerra, oltre che una condizione di fatto, è anche uno stato giuridico. In tutti e due i casi, comunque, la situazione attuale è ben lungi da assomigliare alle guerre che abbiamo sempre considerato tali, tanto da far dubitare che, per quanto sta accadendo o potrà accadere in futuro, si possa parlare di guerra.
Guardando alla condizione di fatto, emerge come non esista un campo di battaglia, anzi, a tutti gli effetti non esiste un nemico che e le forze in campo ritengano unanimamente tale. In primo luogo, la guerra verso cui tanti inneggiano, dove dovrebbe combattersi? In Siria? Otterremo la transumanza dei guerriglieri verso la LIbia. Riprenderemmo l'attacco in Libia? I guerriglieri si sposterebbero in Afghanistan o in Africa. Sta di fatto che non esistendo un'entità statale a cui fare guerra è difficile immaginare una guerra in quanto tale.
In secondo luogo, la coalizione che dovrebbe combattere questa guerra è tutto fuorché omogenea: gli USA, oggi a capo di questa coalizione, avevano sovvenzionato negli anni Ottanta i guerriglieri talebani in Afghanistan e hanno permesso la nascita dell'Isis fra le carceri irachene durante la sciagurata guerra prevenva di Bush Jr.; la Francia è stata l'artefice del precipitare degli eventi in Libia, con il semplice scopo di rinegoziare i contratti per le forniture di petrolio, a danno dell'Italia; la Germania, dopo aver affossato l'Europa scopre di avere alleati deboli e riprende in mano delle armi che stavano nascoste nell'armadio dalla Seconda guerra mondiale; la Russia, ufficialmente in guerra contro l'Isis, bombarda in realtà i gruppi d'opposizione al regime siriano, mentre la Turchia, ufficialmente in guerra all'Isis, ne compra il petrolio e seda nel sangue l'opposizione curda; l'Arabia Saudita infne, si trastulla nel finanziare il nemico che dice di voler eliminare. Del resto, almeno la metà dei paesi che dichiarano alla propria opinione pubblica di voler contrastare il terrorismo di matrice islamica, poi non si fa scrupoli a commerciare con esso petrolio e armi.
Ma per quanto riguarda lo stato giuridco della guerra, ciò che c'è di più paradossale è la maggiore chiarezza raggiunta dai terroristi rispetto agli stati nazione che vorrebbero contrastare. Quanto meno va riconosciuto che l'Isis dichiara apertamente i propri nemici, e non si fa problemi a riconoscere che il nemico, avvertito come infedele, non dispone di alcun diritto. Un diritto barbarico, certo, ma dichiarato. Dall'altro lato si grida alla guerra, ma opportunamente non la si dichiara, perché dichiarare guerra implicherebbe riconoscere al nemico uno stato giuridico che oggi nessuno vuole riconoscere all'Isis, quello di avversario, con dei diritti da preservare. Un conto è il prigioniero di guerra, il milite, mio avversario ma che riconosco mio pari, sebbene dalla parte sbagliata; un altro conto è il terrorista, a cui non riconosco alcuna attenuante, che considero un criminale, e a cui quindi non riconosco alcun diritto. Questa è la scelta sino a qui portata avanti da chi oggi decide di contrastare l'Isis, una scelta che contraddice lo stesso diritto che i paesi occidentali dicono di voler difendere.
In ultimo, ma di che guerra poi stiamo parlando? Esiste una guerra nei numeri? Non per i paesi occidentali: guardiamo alla Francia, il paese europeo più colpito dagli attentati terroristici. Negli attentanti francesi sono morti, in un anno, circa ducecento persone. Ora consideriamo, sempre in Francia, la battaglia di Verdun, durante la Prima Guerra mondiale: in sei mesi di guerra morirono, tra tedeschi, inglesi e francesi circa 950.000 uomini; ancora, consideriamo gli schieramenti in campo, per esempio il fatto che secondo gli analisti l'Isis conterebbe di circa 50.000 guerriglieri. Consideriamo solo la prima battaglia sul fronte occidentale, quella del fiume Marna, sempre durante la Prima guerra mondiale: in quel caso, tra francesi, inglesi e tedeschi, a scontrarsi furono poco meno di due milioni e mezzo di uomini. Insomma, cifre ben maggiori.
Alla luce di tutto ciò, quando sentiamo parlare di imminenza della guerra, chiediamoci: ma di che guerra stiamo parlando?


giovedì 3 dicembre 2015

Rozzano, Benedetto Croce, Oriana Fallaci e i fondamentalismi


Dopo il caso del dirigente scolastico di Rozzano, gli interventi sul valore del Natale, sul Cattolicesimo a scuola, sul presepe e il crocifisso in classe non si sono fatti attendere. Dai sondaggi effettuati sull'opinione pubblica a partire da un caso montato ad arte (perché di questo si tratta, come chiarito da diverse testate giornalistiche e non, per esempio Butac), viene fuori un'Italia radicalizzata nella sua identità cattolica, fortemente legata all'idea che la cultura italiana si identifica nel Cattolicesimo (finanche l'intero Occidente, ad essere precisi). Fra gli altri, a fondamento di questa idea condivisa addirittura dall'ottantasette per cento della popolazione, viene citato Perché non possiamo non dirci "cristiani" di Benedetto Croce.
Ecco, Benedetto Croce si incacchierebbe alquanto. Per chi non lo sapesse, Croce era un laico, un po' come Montale, sempre tenutosi lontano dalle due croci, quella nera e quella rossa, che parimenti guardava dall'alto in basso. Si potrebbe discutere a lungo dell'Idealismo crociano, del suo valore culturale e dei suoi limiti, ma ciò che qui preme fare è ricondurre le idee del filosofo ai loro limiti. Quando Croce diceva che non possiamo non definirci cristiani intendeva dire che, di certo, la rivoluzione culturale del Cristianesimo ha impregnato profondamente l'Occidente. Finché ci limitiamo a questa idea, non si può non condividere la tesi. Tuttavia, con Croce, ci si ferma qui. Se la storia dell'Occidente si è caratterizzata, negli ultimi duemila anni, anche del Cristianesimo, essa tuttavia non si limita ad esso. Sia perché c'è un prima del Cristianesimo, almeno trentamila anni di homo sapiens in Europa, sia perché ci sono un durante e un dopo il Cristianesimo. Se consideriamo l'eterna dialettica tra tesi, antitesi e sintesi in cui lo stesso Croce credeva, l'Occidente di oggi non è solo il Cristianesimo, bensì la sintesi, contorta e magmatica, del Cristianesimo e della sua antitesi, antitesi che non sta in altre religioni, ma nella negazione del sentimento religioso, relegato ad elemento privato a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento. Dove si trova questa sintesi? La si scorge nei valori, contraddittori anch'essi, proclamati dall'Illuminismo, nella sua estensione relativista che giunge fino ai giorni nostri, fino ai postulati ludici e nichilisti del Postmodernismo. È con l'Illuminismo, lo ripeto, un modello culturale che ci culla ancora oggi, che possiamo dire che, è vero, gli europei non potevano non definirsi cristiani, e tuttavia non lo sono più. O almeno, non lo sono nei presupposti, sebbene continuino ad esserlo nei fatti.

Perché risulta così difficile osservare come i valori dell'Illuminismo, pur nascendo anche da quelli cristiani, li superino, non certo in maniera pacifica o priva di contraddizioni?
Perché non abbiamo gli occhi per osservare. Come nessuna cultura ha gli occhi per osservare se stessa.
Già nel terzo secolo d.C. i Persiani chiamavano l'impero romano come l'impero dei cristiani, eppure i romani stessi faticavano a considerare il Cristianesimo come il tratto culturale che li caratterizzava. Allo stesso modo ogni cultura vive dando valore a certi tratti culturali e ignorandone altri, che tuttavia, nella pratica, possono essere parimenti importanti, se non addirittura fondamentali. Qualsiasi induista giurerà la sacralità delle vacche, nessuno riconoscerà che, in una qualche maniera, anche gli animali sacri vengono fatti morire: eppure accade; in certi quartieri del Brasile le donne sono pronte a giurare che, con l'aiuto di Dio, cureranno alla stessa maniera tutti i loro figli, eppure alcuni di essi, caratterizzati da certi tratti ben precisi, vedranno tassi di mortalità molto più alti della media; la giustificazione sarà sempre la stessa: era incurabile, il Signore se l'è preso per farne un angelo.
Siamo pronti a far valere la nostra visione etica, nel senso antropologico del termine, nell'osservazione dei fanatismi e dei fondamentalismi altrui, ma non ci rendiamo conto di come, di fronte ai nostri fondamentalismi, prevalga la visione emica, empatica, che si riconosce nei valori che dovrebbe studiare. Non abbiamo gli occhi per vedere.

"Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici", la frase scritta da Oriana Fallaci a seguito degli attentati di giorno undici settembre duemilaeuno è l'esempio evidente di questa contraddizione: presa come un mantra dalla gran parte dell'opinione pubblica, questa affermazione non è in grado di spiegare, ma neanche di categorizzare, i fondamentalismi cristiani, seppure essi esistano: si pensi alla chiusura nei confronti delle unioni omosessuali, delle adozioni da parte di coppie di fatto e omosessuali, nei confronti dell'aborto, si pensi al genocidio della minoranza islamica perpetuato in Bosnia e in Kosovo frino agli anni duemila, si pensi alle azioni di gruppi radicali negli USA o in Sud America, si pensi ai gruppi di terroristi africani nell'Africa centrale, alla persecuzione contro la popolazione musulmana sistematicamente portata avanti dalla Russia di Putini, infine si ricordi l'attentato di Anders Breivik in Norvegia, il più grave atto terroristico, dopo l'attentato del Bataclan, realizzato in Europa a partire dalla Seconda guerra mondiale.. Sono tutte situazioni che fanno il palio con i fondamentalismi di qualsiasi altra religione, ed elencarli in maniera analitica non vuole ridurre l'importanza del fondamentalismo islamico o di quello di altre fedi o ideologie, ma ricordare che i fondamentalismi si annidano dentro ogni cultura, e che solo un atteggiamento critico, capace di relativizzare, di mettere in discussione certezze secolari può fungere da medicamento contro i colpi che ogni estremismo può portare alla comune convivenza.

Si può rispondere al fondamentalismo con un fondamentalismo simile e contrario? È quello che una parte di Europa sta pensando di fare, a partire da chi vorrebbe costellare i nostri luoghi pubblici di simboli religiosi. Penso ai Salvini, Gelmini, La Russa, Gasparri, ma penso anche a giornalisti come Messori che, nel suo commento pubblicato su il Corriere Della Sera, catalogano ogni tentativo di affermare un'Europa diversa e lontana da ogni fondamentalismo religioso come segno di debolezza. Ecco che impedire che dei non docenti vengano ad insegnare canti di una religione a scuola pubblica e laica diventa attentato  ai valori identitari, cedimento. Ma quali valori identitari? Valori, quelli cristiani, che non sono gli unici, come già detto, né, ormai quelli predominanti in Europa. Se proprio volessimo non mostrarci deboli, dovremmo avere il coraggio di proseguire nel nostro percorso, già avviato quattrocento anni fa con le scoperte di Copernico e Newton e con il metodo di Galilei, e giungere alla conclusione che nessun valore religioso potrà e dovrà segnarci come collettività, che quei valori dovrebbero essere simboli privati per essere realmente credibili. Mi avrebbe fatto piacere leggere commenti razionali, di uomini che, di fronte alla follia religiosa, rispondono con la tolleranza della ragione, riconoscendo come non è imponendo un simbolo sull'altro che si fa integrazione, ma accogliendoli tutti in una cultura ragionata, o ponendoli tutti nella sfera privata. Mi avrebbe fatto piacere che Messori, anziché cercare consensi, avesse chiesto la presenza di una Costituzione in ogni classe, avesse gridato allo scandalo non vedendo affissi ai muri dei nostri luoghi pubblici la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Valori che dovrebbero davvero caratterizzare l'uomo in quanto tale, a prescindere dalle fedi e dai credi politici. Ma non abbiamo gli occhi per vedere.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....