lunedì 20 luglio 2015

Degli umanisti e dell'orrore del dato oggettivo

È difficile dire perché oggi mi sia venuta voglia di parlare di umanisti. A dire la verità, il caso specifico è abbastanza meschino, una cosa da nulla che però ti spinge a riflettere sui massimi sistemi. Capita così sui social network di ritrovarti a litigare con una collega, dottoranda a Cambridge, critica letteraria; litigare su tutt'altro che la letteratura, eppure essere colpiti dal modo di ragionare, dall'inconsistenza delle risposte e del metodo. La realtà interpretata esclusivamente attraverso le impressioni, il disconoscimento del valore del dato oggettivo. Di cosa si discuteva? Del livello della disoccupazione in Italia: secondo la collega, critica letteraria, la disoccupazione nel nostro paese raggiungeva la cifra stratosferica del 50%. In principio con le buone, poi con altri metodi, ho cercato di far capire alla collega che la disoccupazione in Italia raggiunge circa il 12,5% dei possibili lavoratori, certo con quote molto più alte per i giovani tra i 16 e i 35 anni


Purtroppo non c'è stato niente da fare: la collega era una critica letteraria, quindi aveva ragione. A prescindere. Ora, i miei lettori sanno che la mia formazione è quella di un archeologo, e in archeologia gli umanisti sono strani: bella l'interpretazione, la bellezza, l'estetica, ma senza i dati concreti non si fa archeologia. Hai voglia a disquisire dell'arte di Fidia, ma, in primis, bisgona avere dati per sapere chi fosse Fidia, presso quali città e botteghe avesse lavorato, su cosa; e poi, magari, essere certi, grazie a dati verificabili, che quella statua o quel bassorilievo sono di Fidia, perché per esempio il drappeggio, il taglio degli occhi, la posizione delle figure, i rimandi iconografici insomma assieme ai dati di contesto, per esempio la datazione dello strato di rinvenimento e del sito, ci conducono a tale conclusione. È un lavoro certosino, che richiede metodo, poche questioni.

Se fino a qualche decennio fa parlare di letteratura era incredibilmente cool, oggi invece di libri non si mangia: a stento ci riesce qualche scrittore, non i critici, che per sopravvivere devono comunque fare altro, all'interno delle università o delle case editrici. Nell'ambiente culturale nostrano non è poi infrequente che fra critico letterario e scrittore si instauri un conflitto d'interesse, dovuto alla consuetudine, all'appartenenza agli stessi ambienti e posti di lavoro. Insomma, un circolo ristretto in cui, come già ai tempi di Montale, lo scrittore sa chi lo recensirà, sa che questo lo recensirà bene o male anche in base a quella che sarà l'atteggiamento dello scrittore stesso, giornalista o universitario, verso la futura pubblicazione del critico. Un bel circolo vizioso.
A questo limite del sistema culturale italiano, si aggiunge poi la democratizzazione della cultura come metodo, che ha di fatto livellato il valore dei giudizi, mettendo nello stesso calderone il critico, il blogger, il giornalista e l'utente dei social. Come dice Martin Amis (link) la critica letteraria, intesa in senso classico, è ormai una creatura morente. 

La reazione di una parte della nostra critica letteraria è di autodifesa: la critica diventa a sua volta narrazione, si allontana sempre di più dal dato nudo e crudo, per scandagliare lo scoop, l'indiscreto, l'inusitato, o per raccontare l'impressione soggettiva del critico. Alla fine della fiera, del libro, dell'autore recensiti o analizzati rimane ben poco, ciò che conta è la soggettività del critico: una forma estetizzante ed elitaria della reazione del dilettante da social nei confronti del testo complesso.
A cosa è dovuta questa involuzione della critica, o, più complessivamente, del sistema degli umanisti del nostro paese?

Malgrado il progressivo riavvicinamento tra le due culture, quella scientifica e quella letteraria, a partire dalle riflessioni di C. P. Snow (link) c'è ancora, nella provinciale Italia, la tendenza da parte degli umanisti al rifiuto del dato oggettivo. Si pensi a come tutt'oggi si rigettino gli studi dello strutturalismo e a quanto breve sia stata la vita di questi studi nel nostro paese. Il problema non è di poco conto: il dato oggettivo è faticoso, richiede una metodologia solida, e soprattutto, nei limiti delle scienze umane (definizione che sempre più pare fuorviante) richiede il principio di confutabilità: un fatto è tale se verificabile, altrimenti si tratta di opinione. Ora, prima di proseguire, va detto che per le scienze umane tutto questo discorso è molto complesso, è da definire fino a che punto l'artista, il letterato, l'umanista possano occuparsi di fatti oggettivi; è vero che se studio una poesia posso definire oggettivamente se si parla di versi liberi o no, quante sillabe li compongono, quali figure retoriche vengono adoperate, qual è la struttura metrica, ma tutto ciò non mi dirà se si tratti di una bella poesia. Tutto vero: ma intanto quei dati oggettivi saranno serviti quanto meno a definire se e in che modo l'autore conosceva certe regole e strutture del genere che sta interpretando a suo modo, se e in che modo stia facendo riferimento a suoi contemporanei o a predecessori, in che modo voglia rompere gli schemi. Tutti dati accessori, certo, per giungere infine alla domanda fatidica: questa poesia è bella? Perché? Cosa mi lascia?

Se il principio metodologico appare, tutto sommato comprensibilmente, sconosciuto dalla grande massa della popolazione, non è invece giustificabile che sia così per chi si proclama intellettuale. Non è questione di gusti: la scienza richiede la verificabilità dei dati, altrimenti non si fa scienza, si fa altro. O si capisce questo, o l'umanista come figura andrà a morire, perché a porre la fatidica domanda, questa poesia è bella o è brutta, ci arriva anche il dilettante; è questione di senso, perché l'opinione del critico deve essere più fondata della mia? Perché lui possiede un metodo che io non ho.
Come dice Amis, la democratizzazione della cultura rischia di far fuori il talento, sia per quanto riguarda gli scrittori, ma anche per quanto riguarda chi studia la cultura. Ecco, questo mi sembra il punto: nel momento in cui disconosciamo il valore del dato oggettivo, verificabile, della critica e dello studio delle fonti, mettendo tutto sullo stesso piano, ecco che legittimiamo l'equivalenza dei pareri, del competente, del dilettante e dell'ignorante. Ma da questa equiparazione è la cultura che ha da perdere, perché se tutto può essere cultura materiale e popolare, non tutto è cultura alta, ricerca, sperimentazione.

Tornando alla collega, la tizia dei social, tanto per farvi ridere, sappiate che, messala di fronte ai dati oggettivi, sono stato accusato di molestarla. Ah, ovviamente, la causa della disoccupazione al 50%, per la collega, sono gli immigrati. E chi sennò.

martedì 14 luglio 2015

Satoru Iwata e il Nintendo style


“Sul mio biglietto da visita c’è scritto che sono presidente d’azienda. Nella mia testa sono uno sviluppatore di videogame. Ma nel mio cuore sono un giocatore”

Il presidente della Nintendo Satoru Iwata, successore di Hiroshi Yamauchi, è morto giorno 11 Luglio del 2015. Iwata, come il suo predecessore e il geniale Shigeru Miyamoto, è stato l'artefice di quello stile impalpabile che caratterizza le creazioni della Nintendo. Venuto su nella Hal Factory, Iwata è stato il creatore assieme a Masahiro Sakurai di uno dei personaggi più iconici della grande N, Kirby, il "coso" rosa, carino e coccoloso, protagonista di numerose avventure a partire dal 1992. Kirby è diventato con Mario e altri personaggi uno dei capisaldi delle line up di videogiochi Nintendo.

Iwata assurge alla presidenza della Nintendo nel 2002, in un periodo di crisi: dopo i fasti del Super Famicom e del Gameboy, l'azienda ha vissuto il mezzo fallimento del Nintendo64, macchina superiore alle rivali dal punto di vista hardware ma limitata dall'uso delle cartucce. L'erede del Nintendo 64, il GameCube, malgrado un hardware di tutto rispetto soffre il battage publicitario della PS2 e della XBox. Tuttavia con Iwata alla presidenza Nintendo incrementa del 40% le vendite della sua macchina, mantenendo un suo stile originale. 

Tuttavia è con le due macchine successive che Iwata attua la rivoluzione silenziosa della grande N. Iwata decide di smettere la rincorsa all'hardware più potente che contraddistingue la lotta tra Sony e Microsoft, cercando di concentrarsi su un'esperienza videoludica innovativa e aperta alle famiglie. Nascono così il NintendoDS e soprattutto la Wii, macchine con cui l'idea stessa di videogioco si modifica, secondo un modello più immersivo rivolto ad un pubblico più ampio rispetto a quello tradizionale. 

Questa scelta si risolve in un notevole successo di pubblico; tuttavia Iwata e la grande N verranno aspramente criticati per l'essersi rivolti ai cosiddetti videogiocatori casuali. Inoltre, con l'evoluzione del mercato dei videogiochi e l'entrata in scena degli smartphone, Iwata e la Nintendo non saranno capaci di cogliere l'occasione che gli si pone davanti.

Così al successo del DS non seguirà un pari successo del successivo 3DS, in un mercato del videogioco mobile dominato dagli smartphone, e l'erede della Wii, la WiiU, una macchina a metà tra la console casalinga e un tablet, non raggiungerà il successo di vendite, malgrado una line up di videogiochi che negli ultimi due anni ha visto la presenza di numerosi capolavori, al contrario del repertorio stantio delle macchine concorrenti.

Iwata, colpito da neoplasia biliare, lascia in eredità l'apertura della Nintendo al mercato mobile, con i primi titoli previsti per il 2016 - 2017, e il progetto di una nuova console, il Project NX, con cui Nintendo intende rivoluzionare nuovamente il mercato rivolgendosi all'idea di un connubio tra videogiochi e qualità della vita.

Iwata lascia inoltre un'azienda con i conti in ordine: un lascito di non poco conto, considerato che l'azienda che aveva ereditato era fortemente a rischio fallimento. La sua è stata un'azione di armonizzazione, accorpando sedi e razionalizzando, lasciando dietro il ricordo di un manager gentile.

Lo stile di Iwata e quello della Nintendo sono sopravvissuti alla guerra dei bit tra Sony e Microsoft: un gioco che voglia coinvolgere le famiglie, che sappia divertire, che offra una gradevole esperienza videoludica, né troppo breve né troppo difficile, in un misto di impegno e divertimento. I suoi personaggi lo piangono così.











lunedì 13 luglio 2015

Umberto Curi, la democrazia ateniese del V secolo e l'Europa di oggi



Proprio oggi il Corriere Della Sera pubblica un articolo di Umberto Curi, che trovate in basso, in cui il filosofo cerca di dimostrare l'errata attribuzione della democrazia, come la concepiamo, alla Grecia antica, ovviamente, nello specifico ad Atene. Per un ragionamento più dettagliato sulla nascita della democrazia ateniese vi rimando ai seguenti link e post. Quello che qui interessa è fare notare come il filosofo compia nella sua disamina storica degli evidenti errori di metodo, per stabilire poi se questi errori siano o meno voluti e se inficino o no la sua teoria.
Partendo dalla prima questione, Curi sostiene che la parola democrazia nasca con valore spregiativo alla fine del V secolo: l'affermazione, di per sé corretta, non risponde tuttavia completamente alla questione di fondo, ovvero cosa sia la democrazia ateniese e come venisse rappresentata da chi ne era fautore. Stando alle fonti primarie al riguardo, Erodoto e Tucidide in primis, il regime politico inaugurato dalla riforma di Clistene non veniva denominato democrazia, ma con un termine più generico per noi, ovvero "politeia", un qualcosa a metà tra costituzione e cittadinanza. Tale termine ha origine ben prima della parola democrazia, ed è con questo termine che i cittadini ateniesi si riferiscono al sistema di regole, tradizioni e leggi scritte secondo cui la loro città viene governata. Il termine democrazia, semmai, appartiene all'analisi posteriore, quella, a punto, di filosofi politici come Platone, Aristotele, o di politici in senso stretto, come potrebbe essere l'autore della Costituzione degli Ateniesi, possibile opera di oligarchi come Senofonte o addirittura di uno dei Trenta Tiranni, forse Crizia. Insomma, il termine democrazia, spregiativo, ha origine fra gli oppositori politici di questo sistema, ricchi possidenti, filosofi o addirittura governanti filospartani. Ciò, nondimeno, non diminuisce di per sé il valore del regime politico a cui questi uomini si opponevano, anzi ne avvalora le caratteristiche, più direttamente rivolte ad una partecipazione popolare, sebbene con le limitazioni già dette nei precedenti post.
Continuando nella disamina dell articolo di Curi, emerge come la scelta delle fonti sulla politeia ateniese sia quanto meno parziale, e soprattutto, fuorviante: mancano per esempio le voci degli storici che con quella politeia e quella città si erano confrontati nelle loro analisi storiche. In particolare, nessun cenno viene fatto ad Erodoto e Tucidide, che della nascita e dell'evoluzione della politeia ateniese, fino al tragico errore della Guerra del Peloponneso, erano stati i principali studiosi. Insomma, la prospettiva da cui viene analizzata la democrazia ateniese, senza tra le altre cose spiegare ai lettori come funzionasse, è parziale e fuorviante. Per di più, è una prospettiva ideologica. Viene infatti abbracciata la prospettiva degli "aristoi", i migliori, senza specificare che per aristoi in Grecia si intendevano i rampolli delle famiglie nobiliari, contro il "demos", il popolo, i "kakoi", i peggiori, coloro che per vivere saranno costretti al lavoro. Questa prospettiva, ideologica, viene adoperata per sminuire, è chiaro, la portata della Rivoluzione ateniese, ma sono proprio la prospettiva fortemente ideologizzata, la scarsa disamina delle fonti, la parziale analisi linguistica ad inficiare la validità scientifica dell'articolo di Curi.

Cui prodest, infine, quest'articolo? Quello che è in atto è, senza giri di parole, un tentativo di riposizionamento dell'UE e nell'UE, anche dal punto di vista culturale. Ciò a cui assistiamo è una forma di revisionismo storico, di per sé legittimo, ma fondato su un ragionamento più filosofico che storico. Tra il 512 e il 507 ad Atene si fonda un governo che, con specifiche particolari, porta ad una distribuzione delle cariche del tutto innovativa e largamente legata al rimescolamento delle tribù e alla diffusione del potere. È una democrazia diversa dalla nostra, e filosofi vicini alle oligarchie come Platone, Aristotele e l'autore della Costituzione degli Ateniesi la contesteranno, sia con argomentazioni valide che pretestuose, spesso filospartane. Ma democrazia era ed è, la prima, e quella di Curi è una ricostruzione che vuole sminuire la portata della Rivoluzione ateniese per rivalutare, implicitamente, le democrazie moderne fondate sul giusnaturalismo.

Il mio è un ragionamento da storico. Se l'intenzione era dimostrare che la democrazia moderna si fonda su principi diversi da quelli della democrazia diretta ateniese, allora la tesi è stata sostenuta in maniera approssimativa. Basterebbe far notare che le nostre cariche sono elettive mentre ad Atene si procedeva per sorteggio, ad eccezione degli strateghi. Ma qui si fa un lavoro diverso, ripeto, di per sé legittimo, ma non per questo valido. Manca per esempio l'uso delle fonti storiche favorevoli alla riforma democratica di Clistene. E questo induce a pensare che il lavoro a cui vuole tendere realmente l'articolo non sia sul legame con quella democrazia, ma un tentativo pretestuoso di negare il valore stesso di quella democrazia, in favore invece delle forme democratiche di matrice illuminista e idealista moderne.


mercoledì 8 luglio 2015

Su Umberto Eco, Tsipras e la manica di imbecilli da Web (o della complessità)



Su Umberto Eco e la storia degli imbecilli sul web tanto si è scritto e detto. Per chi non ricordasse, basti leggere per esempio l'articolo su La Stampa di Torino.  Non ho di certo la voglia o la possibilità di commentare, per condividere o smentire, le posizioni di Eco. Quello che qui mi interessa è piuttosto un ragionamento più ampio sul rapporto tra web e complessità.

Prendiamo il referendum greco del 6 Luglio: il web s'è scatenato in una folla di sfegatati schierati per il sì o per il no della Grecia verso il piano proposto dai creditori. Ma quanti, non dico fra i Greci, ma fra i tifosi dei due schieramenti, sanno realmente cosa prevede il piano proposto dai creditori? Quanti conoscono le eventuali conseguenze per la Grecia? Quanti fra quelli che invocano provvedimenti simili per il nostro paese, sanno cosa realmente potrebbe accadere uscendo dalla zona Euro, o addirittura dalla UE? Basti pensare alle posizioni espresse in ogni dove dalla Lega Nord e dai suoi sostenitori: un convinto No come scelta per il referendum, per poi scoprire che in fondo la Lega dà ragione ai creditori, considerando la Grecia e i Greci un paese di insolventi e fannulloni, e urlando in ogni salotto televisivo come non ci si debba più azzardare a prestare denaro agli Ellenici. Se questa posizione ricorda a qualcuno il classico "Aiutiamoli a casa loro", esatto, avete ragione.

Esiste, e su questo ha ragione Umberto Eco, un malcelato fastidio nell'opinione pubblica nei confronti di un tema, quello della complessità. Eppure, perché un problema possa essere risolto, occorre prima ammettere che esiste. Di fronte alla crisi greca gli Italiani si sono scoperti economisti; di fronte all'avanzata (?) del califfato, gli Italiani si sono scoperti esperti di Islam; di fronte all'educazione all'affettività gli Italiani si sono scoperti antropologi tanto da discettare di famiglia naturale e di stepchild adoption. La questione non è la legittimità della discussione, ci mancherebbe; semmai il problema è il mancato riconoscimento delle competenze delle autorità (da auctoritas, latino, il saperne di più) nelle singole materie. Vengono in mente le parole di Orfini, di qualche mese fa, quando "scoprì" che nei governi tecnici si erano alternati delle pippe. Il punto è che la complessità non permette soluzioni semplici, non permette tifoserie. La complessità non dovrebbe usare l'indicativo, il modo della certezza, ma il congiuntivo, il modo del dubbio. Complessità non vuol dire non decidere, ma sapere che non per forza la decisione darà gli esiti previsti o sperati, perché non tutte le variabili sono intellegibili.

Di fronte alla complessità, al labirinto di Borges, alle città di Calvino, alla biblioteca di Eco, nel Ventunesimo secolo ci siamo scoperti spauriti, infastiditi. Riscopriamo il realismo perché, ingannandoci, pensiamo che ciò che vediamo, percepiamo immediatamente, a pelle, sia esattamente vero. E ciò che percepiamo a pelle è un incupimento dei tempi (reale? Immaginario? Conta davvero?), un peggioramento della condizione geopolitica dell'Italia e dell'Europa, un impoverimento generale. La nostra prospettiva storica tuttavia non supera il decennio, al massimo i vent'anni. Non guardiamo oltre una generazione, sicché, privi di un passato che sia reale termine di paragone, limitati al presente, ci appiattiamo nel sentire comune. Tifoserie alla mercé del populista di turno, qualsiasi sia il colore della sua casacca.

Bufale e insegnanti, un rapporto patologico

Parlando di rifiuto della complessità e appiattimento su ciò che è fisicamente di fronte a noi, non ci si deve spingere così in là, arrivare fino a problemi talmente vasti e complessi come quelli del debito pubblico e dei piani di ristrutturazione di un paese, o dei suoi rapporti con i suoi partner commerciali e politici. Per rimanere un po' di più ancorati alle bieche questioni di casa nostra, parliamo per l'ennesima volta di scuola. Non di riforma, però, ma di analfabetismo funzionale. E non dell'analfabetismo degli utenti, ma di quello di chi la scuola la fa, ovvero gli insegnanti.

Si guardi l'immagine


Una persona un minimo attenta, specie se si tratta di una persona che dovrebbe insegnare il pensiero critico, dovrebbe guardare questa foto con molta perplessità. Partiamo dal contenuto, un premier che dice una frase così forte sul suo elettorato e che viene riportata da una testata giornalistica. Sicuramente uno scoop, che dovrebbe essere avvalorato da Il Fatto Quotidiano: peccato che su questo giornale non ci sia traccia della notizia. Insomma, anche fosse vera, la notizia perde di credibilità citando una fonte in realtà inesistente. Ma a guardare bene altri elementi dovrebbero insospettire chiunque possieda un minimo senno: pagina 100, per esempio, è l'homepage del televideo, che infatti si presenta così

mentre la pagina della politica apparirebbe con questo formato

Insomma, la prima immagine è un discreto fotomontaggio, in realtà abbastanza semplice da smascherare. Eppure su Facebook ha ottenuto un grandissimo successo, con numerose condivisioni da parte di numerosi colleghi, spesso accompagnati da commenti ingiuriosi nei confronti del Primo ministro Matteo Renzi. Un'altra bufala (rimessa in circolo) di queste ore è quella sull'abolizione della prova orale all'esame di maturità. La fonte sarebbe il presunto Corriere del mattino.


Basterebbe leggere l'articolo e guardare i tag in basso nella pagina per accorgersi della bufala, eppure in tanti fra i colleghi non hanno lesinato commenti al titolo della notizia, sdegnati per la fine della scuola pubblica, il basso livello culturale di chi ci governa e l'ignoranza dell'universo mondo.

Sia chiaro, considero Matteo Renzi uno dei peggiori governanti che questo paese abbia avuto, e la sua riforma della scuola è e sarà latrice di una quantità di danni verso l'istruzione pubblica di cui solo pochi sono ancora evidenti, basti pensare alla discussione aperta in queste ultime ore sul dare la possibilità alle famiglie di rilasciare un consenso scritto alla scuola per l'insegnamento dell'educazione all'affettività. Ma tutto ciò non toglie che un vero e mastodontico problema nella formazione e nel reclutamento dei docenti esista. Su questo blog più volte ho sostenuto delle tesi al riguardo, anche sostenendo un concetto poco caro alla mia categoria come quello della valutazione. Ma se basta un semplice e banale fotomontaggio ad aizzare le peggiori belve nascoste nella rabbia di una parte della classe docente italiana, allora il problema, anche senza le folli soluzioni della riforma renziana, va comunque affrontato. E complessità vuol dire anche ammettere che la soluzione non si trova nelle tasche di nessuno, insegnanti o ministri che siano, e che una qualche posizione vicina al meglio possibile può essere solo il frutto di ponderazione e discussione.

sabato 4 luglio 2015

David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più

foto: amazon.it

Una cosa divertente che non farò mai più, di David Foster Wallace, è una cronaca giornalistica: la cronaca giornalistica che Wallace tiene per la Harper's recensendo, o meglio, raccontando una crociera di lusso attraverso i Caraibi.
Non si tratta quindi di un romanzo, non possiamo quindi aspettarci le prodezze narrative a cui Wallace ci abituava. Tuttavia la verve dell'autore riesce a scaturire alla luce anche in questo breve libro, nel racconto dei dettagli e delle sensazioni provate dal filosofo-giornalista-scrittore-nerd-sociopatico-agorafobico. Ci si imbatte così sin dall'inizio in un mondo al confine tra il paradosso, il sarcasmo e l'alienazione. Il turista medio americano, un coacervo di uomini e donne in pensione che si godono i risparmi di una vita, affaristi, giovani palestrati e donnette capricciose, viene descritto, analizzato, compreso e annientato nei suoi tic, nelle sue abitudini, nel suo rapportarsi con il mondo. Tuttavia lo sguardo dello scrittore non può né vuole condannare, essendo lo scrittore stesso un americano con tutti i suoi tic e le sue fobie.
Nel frattempo il lusso, estremo, meccanicamente divertente, calcolato a tavolino per coccolare e viziare il cliente, sempre eccessivo ma mai sufficiente: perché ci deve sempre essere qualcosa in più da provare, qualche esperienza, qualche fantasmagorica attività da scoprire, qualche segreto e anfratto della nave da esplorare.
La fauna dell'equipaggio della nave poi: una gerarchia di sfruttamento, gentilezza costruita, megalomania, varia umanità fino alla più umile.
Nulla esiste davvero nella nave da crociera, tutto finisce esattamente nel momento in cui il viaggio si conclude; ciò che rimane è la sensazione di essere stati viziati, anche a costo di essere maltrattati prima e dopo, in un enorme ingranaggio che si nutre del bisogno di relax dell'umanità, della necessità di uscire dalla consuetudine, anche a costo di voler vedere il lusso lì dove non c'è.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....