Di AI, presidenti degli USA e del linguaggio
Uno dei leitmotiv della polemica contro il politicamente corretto e il linguaggio inclusivo, anche da sinistra, è il mantra del "vi occupate di parole e non di fatti", spesso a sottintendere che discutere del linguaggio con cui chiamiamo cose e persone sia ininfluente e che si vuole colpire discriminazioni e storture della società bisogna guardare altrove. Questa impostazione soffre di almeno due grossi problemi, uno di carattere metodologico, l'altro epistemico.
Il primo: in maniera molto banale, occuparsi del linguaggio con cui parliamo della realtà non impedisce contemporaneamente di occuparsi anche della realtà; l'una cosa non esclude a priori l'altra, e creare false dicotomie non serve a risolvere i problemi, serve solo a marcare il territorio della propria azione rivendicandone una superiorità morale rispetto ad ogni altra azione possibile.
Il secondo: è da Wittgenstein in poi che almeno una parte della riflessione sul linguaggio e sulla sua relazione con la logica informale evidenzia come la similitudine della lingua specchio della realtà non funzioni. Con la logica noi conosciamo i fatti, ma non i fatti in sé, bensì in relazione tra di loro; con la lingua li comunichiamo attraverso uno strumento intersoggettivo, contemporaneamente convenzionale e personale. Ma quello strumento filtra la successiva conoscenza della realtà che proviene dalle nuove scoperte e dalle nuovi atti comunicativi, sicché la logica che conosce la realtà viene guidata dal linguaggio. E così pensabile e dicibile si incrociano nel parlabile.
Insomma, si può e si deve lavorare sul linguaggio e sulla realtà in contemporanea, anche perché la realtà ovviamente influenza la lingua, ma come vediamo la realtà è delimitata dalla lingua.
Ora, tutto ciò è ancora più chiaro se si guarda al profondissimo marasma che sta accadendo negli USA. Molti dei primi atti esecutivi di Trump sono, a tutti gli effetti, atti linguistici con l'unico scopo di plasmare e delimitare la realtà di cui gli americani parleranno e che gli americani conosceranno nei prossimi anni. Nel momento stesso in cui Donald Trump vieta l'uso dei termini legati agli studi di genere e al razzismo sistemico vuole impedire che si leggano connessioni di fatti nella realtà che un linguaggio non censurato permetterebbe di parlare. In negativo, Trump dimostra che avere cercato un linguaggio inclusivo, avere adoperato termini nuovi per definire il razzismo stava e sta contribuendo ad elaborare nuove visioni della realtà americana. E lo vieta.
Ancora, l'evoluzione rapidissima delle AI mostra quanto sia fitta e complessa la relazione tra linguaggio e realtà. Per capirci, ingegneri e informatici non avrebbero fatto le LLM senza linguisti d filosofi. Se guardiamo ai LLM, Large Language Models, ci accorgiamo di come molti di questi modelli nascano da una visione del linguaggio come specchio della realtà (o di come molti utenti li adoperino a partire da questa visione). Ma il risultato è che, invece, questi modelli, privi di una visione della realtà che colleghi fatti, adoperano significanti in maniera realmente ignara di significati e referenti. In pratica le LLM si comportano come quell'alunno che non ha studiato, non padroneggia i contenuti, ma ha sentito qualcosa dalle interrogazioni precedenti ed è bravo a costruire testi: finirà per dire delle cose apparentemente anche coerenti e ben formulate, ma con una pochezza di contenuti approfonditi disarmante. Perché alle LLM manca la conoscenza relazionale dei fatti. Infatti Meta sta lavorando ad una LCM, Large Concept Model, un modello che vorrebbe fondarsi su concetti (frasi, non più morfemi o fonemi). Ancora una volta però sembra che prevalga la similitudine del linguaggio specchio della realtà, mentre ci servirebbe un paradigma diverso, per il quale l'AI possa formulare linguaggio soltanto dopo aver esperita la realtà. Rimane il fatto che la non perfetta coincidenza tra linguaggio e realtà, già vista da Wittgenstein, viene ulteriormente confermata.
Insomma, destra americana e tecnologie stanno dicendo a molti tra di noi che avevamo ragione: solo che spesso siamo poco furbi per accorgercene.
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