sabato 31 dicembre 2016

Vedere cosa si vuol vedere o della focalizzazione

La foto qui riprodotta, piuttosto famosa per l'effetto particolare ottenuto dal tempismo del fotografo, è interessantissima anche per altri motivi.
Questa foto è infatti utilissima per spiegare il concetto di focalizzazione. La focalizzazione, in una narrazione di qualsiasi tipo, è il punto di vista che assumiamo per raccontare i fatti, punto di vista che ci permette di vedere e conoscere alcuni fatti e altri no, o addirittura tutti i fatti narrati e i pensieri dei nostri personaggi.
Se per esempio guardassimo questa scena da una finestra, che ci permettesse di osservare solamente la parte centrale della foto, osserveremmo questo:
Il nostro punto di vista sarebbe limitato, saremmo così guidati a pensare alla foto come la ripresa di una scena romantica di fronte ad una strada dai manifesti piuttosto particolari.
Ancora, se il nostro punto di vista, sempre regolato da una piccola finestrella, fosse spostato un po' più a destra, vedremmo questo:
Due passanti che si incrociano su di un marciapiede, estranei tra di loro, in quello che sembra un paesaggio sudasiatico. Non sappiamo cosa pensino i due protagonisti della scena, se desiderino incontrarsi, se stiano pensando ai fatti loro: qualcosa possiamo dedurla dall'espressione di lui, da quello che osserviamo del suo aspetto, possiamo per esempio ipotizzare che lui abbia adocchiato lei per qualche motivo che noi ignoriamo. In questi casi il nostro punto di vista assume l'aspetto di una focalizzazione esterna.
Proviamo a cambiare prospettiva:
Cosa sta osservando il cane? In questo caso il fotografo sembra volerci fare concentrare su ciò che del paesaggio il cane si concentra ad ammirare, cioè l'immagine dei due elefanti il nome di un prodotto industriale.Il racconto prodotto da questa immagine ci porta ad osservare i fatti secondo la prospettiva di un personaggio ben preciso. In questo caso chiameremo questa prospettiva focalizzazione interna.
E se invece possiamo inquadrare contemporaneamente tutto?
In questo caso, cioè nel caso in cui possiamo contemporaneamente osservare la scena secondo una prospettiva omnicomprensiva e che ci permetta anche di conoscere il pensiero dei personaggi che agiscono si chiama focalizzazione zero, comunemente nota come la prospettiva del narratore onniscente. È il modo di raccontare di tanti romanzi, noti e non, come I promessi sposi. Tuttavia non è il modo di osservare la realtà più frequente, anzi. Si pensi alla difficoltà che ciascuno di noi incontra nel tentare di far capire ai nostri interlocutori il nostro punto di vista: questa difficoltà dipende dal fatto che ciascuno di noi tende a considerare la propria prospettiva di osservazione come una prospettiva altra, esterna se non addirittura onniscente. E così il problema del passaggio dai punti di vista personali a quelli esterni o ad una prospettiva onnicomprensiva è uno dei nodi più urgenti nell'epoca della post-verità.






venerdì 30 dicembre 2016

La potenza della parola è tutta qui



Ok, apparentemente è una boiata, eppure questa scritta su di un muro (e non mi chiedete dove sia stata fotografata né se si tratti di un fake, perché non lo so) è una delle cose più potenti che ho letto ultimamente.
Certo, forse dipende anche dal fatto che in questo periodo, complice il marmocchio in casa e il lavoro triplicato a scuola, le letture "per puro svago" si sono ridotte al minimo. Tuttavia in queste due frasi avviene qualcosa di grandioso, qualcosa che solo l'uso della parola, benché casuale o dilettantesco, riesce a creare.
Di per sé si tratta di un gioco retorico abbastanza semplice. Attraverso l'inversione sintattica di due elementi della frase, ovvero l'attributo bella e il complemento di specificazione di merda, si crea un costrutto fortemente ironico, in cui sono le espansioni ad arricchire e completare in maniera paradossale gli argomenti dei verbi, ovvero ciò che realmente è portatore del significato centrale delle frasi. Infatti il nucleo del ragionamento, costruito attraverso i predicati (non) lasciare e rovini, il secondo dei quali regge gli argomenti giornata e vita, porta ad un confronto tra un singolo e minimo giorno e un'intera esistenza. Questo confronto potrebbe essere drammatico, epico, analitico; invece diviene paradossale, e lo diviene grazie, a punto, all'inversione dell'attributo bella, che andrebbe logicamente associato a vita, e del complemento di specificazione di merda, che ci aspetteremmo accanto a giornata.
Insomma, lo spostamento di due espansioni, nello specifico una singola parola e un sintagma, rivoluziona un ragionamento, portando alla risata e al paradosso.
Ma c'è ancora di più. Per usare delle categorie, volendo, pirandelliane, se passiamo dal comico all'umoristico, possiamo notare come nel periodo non lasciare che una bella giornata rovini la tua vita di merda, facilmente passeremo dall'aspetto denotativo all'aspetto connotativo: cosa ci fa venire in mente il sintagma bella giornata? E cosa il sintagma vita di merda? Insomma, ogni lettore inizierà a viaggiare, superando l'aspetto più assurdo di questa frase complessa, per tentare di immaginare cosa possa stare dietro quelle parole. E nell'atto stesso dell'immaginare quelle belle giornate e quelle vite di merda, esse prenderanno vita, forma, anche se momentanea e immaginaria. 
In questo prendere vita e forma delle parole, con una potenza ben superiore rispetto a quanto siamo disposti a riconoscere, il graffitaro o chi per lui avrà vinto sulla nostra razionalità, avrà causato in noi la sospensione di incredulità. Avrà, è bene dirlo, fatto letteratura.

Edit: il buon prof. Morandin osserva che il di merda non è tanto da considerare un complemento di specificazione, quanto un complemento di materia o, forse meglio, di qualità. Personalmente propendo per la seconda ipotesi, ma, sottigliezze logiche a parte, questa precisazione nulla toglie al ragionamento sopra esposto riguardo allo slittamento sintattico e semantico che realizza il paradosso letterario di questa frase complessa.

Roba da nerd: Macross Plus


Come sanno i miei lettori, di tanto in tanto l'adolescente che è in me tenta di uscire fuori, battere un colpo e fare vedere che è ancora vivo e vegeto, anche sotto i peli e i capelli che si fanno brizzolati (forma cordiale per dire bianchi). Quando questo adolescente prende il sopravvento (da non confondere con il fanciullino mezzo pervertito di Pascoli) devo categoricamente tuffarmi in una delle mie passioni ormai lontane: videogiochi, narrativa o cinematografia fantasy o fantascienza, manga e anime. E non c'è verso, o lo faccio o mi viene la tachicardia, divento un rompiballe indescrivibile, da rischiare la richiesta di divorzio della mogliera; meglio essere accondiscendente verso l'adolescente inside, insomma.

In questo caso, nelle serate veronesi di sosta dalle attività didattiche, causa festività cristiane, tra un pacco di verifiche e l'altro che mi ritrovo a correggere, mi sono dedicato alla visione dei quattro OAV che compongono la serie di Macross Plus. Per farla breve sulla trama:
Trama: Anno 2040. Sono passati trent'anni dalla grande guerra tra Umani e Zentradi. Sulla colonia spaziale Eden prende il via il Progetto Supernova che prevede il collaudo e il confronto di due nuovi modelli di caccia spaziali: YF-19 delle Industrie Shinsei e YF-21 della General Galaxy. L'aereo che supererà tutti i test verrà scelto come velivolo per le forze militari. Per uno scherzo del destino i due piloti chiamati per i test sono Isamu Alva Dyson ed il mezzosangue Zentradi Guld Goa Bowman, amici di gioventù poi separatisi a causa di alcuni contrasti. Dissapori che aumentano con il ritorno di Myung Fang Lone, di cui entrambi erano innamorati e che fu la causa della loro separazione. Myung, nel frattempo, è diventata la manager della più celebre idol virtuale dello spazio: Sharon Apple. Ora, dopo il ritorno della ragazza, le tensioni fra i due piloti aumentano, sfociando in un confronto aereo che mette a rischio l'intero progetto. Però, nonostante i loro dissapori, quando Sharon Apple va fuori controllo, mettendo in pericolo Myung, Guld e Isamu uniscono le forze per salvare la ragazza. (fonte Animeclick)
Ora, quella che serguirà non è una vera e propria recensione, semmai si tratta delle impressioni che la serie mi ha lasciato.
Il comparto grafico è indiscutibilmente di ottimo livello: le animazioni, soprattutto per quanto riguarda i mech e le battaglie aeree, lasciano una piacevole sensazione di meraviglia nel lettore. il disegno dei personaggi è però banale, eccessivamente in linea con quanto visto e stravisto in tanti anime degli anni '90.
Il comparto sonoro originale della serie è invece stupefacente, in particolare l'accompagnamento musicale, in puro stile narrazione cyberpunk, colpisce l'orecchio dello spettatore lasciandolo ammaliato e, soprattutto, è eccezionalmente funzionale allo svolgimento della trama.
Per quanto riguarda la trama, a punto, ho letto in rete giudizi contrastanti. Pur non trattandosi di un capolavoro, il lavoro fatto sulla sceneggiatura di Macross Plus, secondo i dettami della saga, è più che ragguardevole. Le sequenze d'azione, neanche celatamente ispirate a Top Gun, catturano l'attenzione ma, e qui sta la buona riuscita della serie, senza perdere di credibilità passano in secondo piano rispetto al vero filo narrativo degli episodi, il confronto fra i protagonisti della serie, alle prese con un passato e dei fallimenti mai rielaborati davvero. Il triangolo amoroso certo non brilla per brio o originalità, eppure in un'opera del genere rimane tuttavia coraggioso prediligere la caratterizzazione dei personaggi alle battaglie aeree. Il tutto mentre la descrizione del contesto che ne viene fuori, quella di una popolazione terrestre persa tra la contemplazione sterile della natura e l'immersione asociale e asincrona nella tecnologia, tratteggia un ambiente di riferimento che ha tanto a che spartire con la migliore narrazione cyberpunk.
Alcuni passaggi logici nello sviluppo della trama non sono molto chiari allo spettatore che non conosca la serie originale di Macross, soprattutto nel quarto episodio, ma queste sbavature non impediscono la fruizione della serie che, nel complesso, è ampiamente godibile.

venerdì 9 dicembre 2016

E questo sarebbe uno statista?

Penso che Matteo Renzi dovrebbe prendere atto del suo fallimento come uomo di stato, pernderne atto, e lasciare la scena politica. Lo dico senza astio, ma da elettore di sinistra e, più ancora, da italiano. Penso che nella vita occorra, di tanto in tanto, fermarsi e ricapitolare, vedere cosa si è fatto bene e in cosa si è sbagliato, tirare le somme, e capire se per quel lavoro che si sta svolgendo si è realmente portati o se si sta prendendo delle cantonate mostruose. Nel secondo caso, per il bene proprio, della propria dignità, e soprattutto per il bene della comunità, sarebbe bene cambiare strada e iniziare a fare altro.
Ecco, se Matteo Renzi osservasse questo suo "stint" da Presidente del Consiglio o, allargando, il suo periodo da segretario del PD, osservasse seriamente e serenamente intendo, non potrebbe non riconoscere come pochi statisti hanno collezionato la sua mole di disastri nella loro storia.
Già a partire dalla sua elezione a segretario, veicolando un linguaggio avventato, quello della rottamazione, l'idea bambinesca dell'innovazione sempre e comunque bella e di un passato sempre e comunque stupido e da buttare perché ottuso. Continuando con la presenza cialtronesca sui media, sui social, uscite irrisorie contro l'avversario, mai rispettato, sempre maltrattato (con una maleducazione comparabile solo ai più beceri grillismi e legihsmi), ocn il cappello sugli "stai sereno" o sui "ciaone", con i silenzi sui "fuori fuori" e sugli insulti del ministro dell'istruzione ai suoi dipendenti, con gli "li asfaltiamo" su quelli che sarebbero degli alleati. Ancora, con una riforma della scuola che ha irriso i dipendenti pubblici che colpiva (per cui questo blog non può essere tacciato di bonaria complicità o sommaria empatia), il clientelismo dei Faraone e dei De Luca accettato come prezzo da pagare per il successo, il compromesso al ribasso sulle unioni civili, la svendita del diritto al lavoro in nome di qualche voucher riguardo all'articolo 18.
Soprattutto, con l'appropriazione indebita del tentativo di riforma costituzionale, tentativo che andava riconosciuto impossibile nelle maniere legittime per una riforma costituzionale, ovvero la massima condivisione possibile; il tentativo invece di cucirsi addosso ad ogni costo il titolo di padre della patria e uomo della speranza, costruendo nel frattempo una impalcatura dello stato che avrebbe consegnato un popolo confuso nelle mani di un potere totalitario. Il tentativo plebiscitario sulla falsariga della Brexit di Cameron, con il risultato di aver rafforzato le ondate populiste nel paese. La pessima gestione della crisi di governo ora, e il colpo definitivo alla stessa esistenza del PD.

Guardando a tutto ciò, come si può rimanere impassibili? Come pensare di accettare nuovamente un incarico da Presidente o di rimanere segretario del partito? Come, se non per un'abnorme vena narcisistica e per un ipertrofico concetto di sé?

Il segretario del PD Matteo Renzi faccia un favore a noi tutti, conduca all'approvazione di una legge elettorale, convochi il congresso del PD e dia le sue dimissioni dalla politica, perché in questo settore ha già fatto troppi danni perché li sopporti una sola generazione.

Qiundi i Veneti sarebbero minoranza etnica, ovvero della riscrittura dell'identità fondata su falsi storici e su metodi fascisti

Quindi i Veneti, cioè gli abitanti del Veneto (che, ricordiamolo, non coincide affatto con i confini del Veneto attuale, ma vallo a spiegare a Zaia e Maroni) sarebbero minoranza etnica da tutelare, a partire dalla lingua veneta. Almeno questo è quello che crede e ha votato la giunta regionale del veneto, approvando la legge regionale 116/2016.
Una maggioranza di 27 fini linguisti, evidentemente, che sono riusciti dove ha fallito la linguistica nel corso dei decenni. Infatti il dibattito su cosa sia realmente la lingua veneta è ancora aperto: tutto sta nel trovare una definizione per lingua e dialetto.
Se consideriamo le mere condizioni politiche, una lingua è tale finché è considerata ufficialmente lingua di uno stato, altrimenti ne diviene dialetto (e questo è stato lo status del veneto fino ad oggi) a meno che non sia riconosciuta la forte componente identitaria di quella favella; tuttavia quest'identificazione nella parlata non è sufficiente per definirla lingua, dato che occorrono delle regole grammaticali codificate, una tradizione di testi scritti, e soprattutto, la produttività linguistica, ovvero la capacità di produrre nuove parole e regole grammaticali per adattare il linguaggio al presente. Venendo meno anche solo uno di questi casi, correttamente si dovrebbe parlare di dialetto.
Nel caso del Veneto, all'annessione di questi territori nel 1866, sul dialetto della Serenissima Repubblica di Venezia (che era già annoverata come dialetto nell'Impero Austro Ungarico) si sovrappone la lingua italiana appena codificata dalla commissione presieduta niente meno che da Alessandro Manzoni (e fondata su una tradizione un attimino più ricca e importante, senza nulla togliere al grande apporto dato da autori come Goldoni e Ruzzante alla cultura italiana).
Ora la Regione Veneto, facendo appello alla Convenzione del 1997 con cui l'UE tutela le minoranze linguistiche, legifera sul riconoscimento della lingua veneta che, ad onor del vero, nel 1976 veniva definita tale dall'UNESCO. Con una serie di problemi: proprio perché improduttivo, il dialetto veneto, sebbene tutt'ora molto parlato e compreso dai dialettofoni regionali, è improduttivo, tanto che per nominare un qualsiasi aggeggio nato negli ultimi due decenni ha bisogno di avvalersi di parole della lingua italiana pronunciate alla veneta. Inoltre, sempre essendo rigorosi, non esiste alcuna codificazione della grammatica della lingua, del resto frastagliata in una miriade di dialetti locali con uno prevalete per ragioni storiche, il veneziano. Ma se a prevalere sono le ragioni storiche ed identitarie su quelle linguistiche, per paradosso, perché Veronesi e Padovani dovrebbero accettare il veneziano come lingua regionale, malgrado il passato prestigioso della loro storia comunale prima ancora della Serenissima e della sua espansione? Se parliamo invece di ragioni linguistiche, di che diamine di lingua stiamo parlando? Del veneto del 1976? E negli ultimi 40 anni cosa è successo? Perché i dati sulle competenze linguistiche nella comprensione della lingua italiana che, con i testi INVALSI, premiano (meritatamente?) il Veneto vengono citati (a sproposito) quando conviene millantare la buona amministrazione della regione, e vengono dimenticati quando si vuole affermare il veneto come presunta lingua madre dei giovani indigeni?
Le ragioni politiche di questa forzatura sono evidenti: la Regione Veneto, nella persona del suo presidente Zaia, sta cercando in tutti i modi di assecondare le spinte indipendentiste, forte dell'ondata populista che attraversa l'Europa. La partita si gioca proprio sul piano della formazione e dell'identità, passando attraverso la riscrittura del Risorgimento, epoca in cui i veneti, quando hanno potuto, hanno aderito pacificamente all'annessione (lo dimostrano l'assenza di qualsiasi forma di resistenza, come è stato invece il brigantaggio meridioanale, e la partecipazione di massa alle guerre garibaldine di numerosi volontari provenienti da queste terre), continuando con i silenzi sui fondi travasati dai piani per il Mezzogiorno verso il Veneto dagli anni '50 agli anni '90 (a partire dal Piano Marshall), concludendo con il paradosso dei paradossi, ovvero il riferirsi ad una Convenzione dell'UE, che non riconosce affatto la lingua veneta come tale, e che è nata per tutelare le minoranze etniche, Rom, Sinthi etc, che più sono vittima proprio in Veneto.
Non regge il paragone con il Sud Tirolo: è evidente a chiunque abbia studiato almeno due pagine di storia contemporanea come le modalità dell'annessione del Trentino e delle regioni tedescofone siano state del tutto diverse, come è evidente la mancanza di onestà intellettuale di chi millanta fantomatici regni del Bengodi sotto la dominazione austriaca, quando il Veneto era invece soggetto alla più alta tassazione dell'Impero e quando i parlanti veneto erano soggetti, lì sì davvero, a persecuzioni e discriminazioni. Né ha alcun fondamento la giustificazione tante volte sentita dagli indipendentisti veneti, allorché sostengono che mai la Serenissima ha dato il suo consenso all'annessione al Regno d'Italia. È evidente come una simile evenienza non abbia avuto luogo in primis perché la Serenissima non esisteva più già dal trattato di Campoformio del 1797, la svendita di Napoleone agli Austriaci, ben 69 anni prima dell'annessione all'Italia.

Insomma, in Veneto si assiste oggi ad un tentativo di ridefinizione etnica su base nazionalista, razzista e populista, fondata su una serie di falsi storici e culturali, sul disprezzo per il dibattito scientifico (emblematiche le posizioni dell'assessore Donazzan sulla presunta teoria gender). Atti legislativi che verranno plausibilmente cassati dalla Corte Costituzionale ma che, intanto e nel futuro, meritano una reazione di disobbedienza civile, lì dove si vorrebbe imporre la riscrittura della storia e della cultura della nazione, anche limitando sempre più la libertà d'insegnamento con iniziative unilaterali e lontane da reali ragioni pedagogiche, come la settimana dello sport imposta a tutte le scuole, che per i suoi connotati potrebbe benissimo chiamarsi settimana Balilla.

sabato 3 dicembre 2016

Battaglia di Kadesh: fonti e ricostruzione



FONTI:
Per i documenti citati: https://www.academia.edu/3642893/LA_BATTAGLIA_DI_QADESH_2006_
Per la ricostruzione in 3D: https://www.mozaweb.com/it/Extra-Modelli_3D-Battaglia_di_Kadesh_1285_a_C-109429

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....