giovedì 8 dicembre 2022

La meritocrazia come cancro della società


Di recente in Italia si è tornato a parlare tanto, e spesso a sproposito, di merito. Come ad alcuni è noto, il concetto di merito è effettivamente citato nella nostra Costituzione. Invece non compare la meritocrazia, che è a tutti gli effetti una distopia comparsa qualche tempo dopo la promulgazione della nostra legge fondamentale. 

Riguardo alla meritocrazia, mi sento di affermare che essa è un cancro per la società moderna. Mi si obietterà che non si possono escludere la valutazione e la premialità del merito, perché il merito infatti consente di valorizzare le competenze alte in settori specialistici. Tuttavia criticare la meritocrazia non vuol dire negare il merito, infatti si può riconoscere il merito, specificando che l'aver acquisito merito in settori specialistici non vuol dire essere ontologicamente meritevoli, come persone, o l'esserlo in toto e per sempre. Uno dei rischi dela meritocrazia è infatti noto come sindrome Dunning-Kruger, ovvero la tendenza a sopravvalutare le proprie competenze: l'essere meritevole e preparato in un certo settore finisce per convincermi e convincere di essere meritevole e preparato sempre e comunque, cosa evidentemente non probabile né plausibile (né augurabile). Del resto criticare la meritocrazia vuol dire ipotizzare che non sempre è necessario o utile favorire la competizione: riconoscere il merito, infatti, presuppone anche riconoscere i demeriti, e distinguere fra meritevoli e non meritevoli finisce per gerarchizzare, stigmatizzare, favorire la competizione sulla collaborazione.

Del resto dalla rivoluzione cognitiva il nostro sviluppo si è fondato sulla capacità di collaborare, più che sull'emergere di singoli individui meritevoli: la nostra società si è fondata sulla possibilità di collaborare con cerchie sempre più estese di persone, di non essere in perenne competizione con gli individui sconosciuti con cui, anzi, collaboriamo anche solo indirettamente, senza averli mai visti in viso o conoscendone il nome; inoltre non esiste il merito individuale senza un sostrato collaborativo che consente lo sviluppo, la fruizione e la diffusione dell'azione del "meritevole"; del resto storicamente, anche solo guardando al Novecento, le società contemporanee che più hanno tentato di valorizzare il merito in chiave meritocratica sono state quelle che hanno creato maggior diseguaglianza sociale (gli USA di Reagan, lo UK di Thatcher); nel passato quando la competizione fra le élite è divenuta patologica, ovvero tesa all'emersione dei singoli e improntata sull'incapacità di generare una collaborazione interclasse e fra più classi sociali, essa ha generato la morte dello stato: si guardi alla crisi della democrazia ateniese nel IV secolo a. C. o alla crisi della repubblica romana nel I secolo a. C.. Tutto ciò porta a dire che uno stato che voglia essere totalmente meritocratico spinge ad una competizione estrema, eliminando il sostrato collaborativo, con strumenti come brevetti o i segreti industriali, a causa della mancata collaborazione fra le accademie e i centri di ricerca, della competizione fra le scuole e i centri di formazione anziché la condivisione delle buone pratiche, con la competizione per accaparrarsi fondi e personale qualificato, lasciando sempre più indietro i territori e i centri svantaggiati, con la concentrazione sulla valorizzazione del singolo anziché sul miglioramento collettivo. 

In più una società fondata sull'esasperazione del concetto di merito presuppone una visione miope, perché non osserva la discriminante sociale, l'essere nato nel luogo giusto e nella famiglia o nel ceto sociale giusto, non osserva la discriminante temporale, l'essere nel posto giusto nel momento giusto, non osserva persino l'azione della pura casualità. Insomma la meritocrazia non assomiglia a nessuna legge sociale ed evolutiva conosciuta da Darwin ad oggi. Così facendo la meritocrazia finisce per alimentare le diseguaglianze anziché contrastarle: infatti nella società meritocratica risulta meritevole chi statisticamente parte da una condizione di partenza favorevole, e così facendo, come detto, la meritocrazia finisce per stigmatizzare e introiettare sull'individuo mancanze che spesso sono semmai della società.

Progressiva eliminazione del sostrato collaborativo che ogni società sottintende; discriminazioni sociali che, lungi dal combattere, la meritocrazia genera; introiezione sul singolo individuo di mancanze della società. Per tutto questo la meritocrazia, intesa come tensione patologica verso la valutazione, legittimazione e premiazione di un merito, statisticamente del resto poco significativo e confinato agli interessi e alle valutazioni delle classi sociali dominanti, per tutto questo, si diceva, la meritocrazia appare un cancro anziché una cura per i mali della società. Non un farmaco, bensì un veleno, da evitare, pena la morte della società stessa.



sabato 3 dicembre 2022

Lezioni di propaganda, Edoardo Novelli


 

Lezioni di propaganda di Edoardo Novelli è un volume pubblicato nel 2010 per Le Monnier. Il titolo del volume può essere fuorviante: non si tratta di lezioni sulla propaganda, quanto di un'antologia di brani, tratti dalle opere di propagandisti, filosofi, pensatori e politici, che in qualche modo hanno a che fare al modo di fare e concepire propaganda da parte di questi autori. Il lettore che dovesse approcciarsi al libro come ad un manuale di propaganda, non troverebbe ciò che cerca fra queste pagine. Il lettore invece che volesse sapere cosa pensavano della propaganda, come andasse immaginata autori come Mazzini, Mussolini, Hitler e Malcom X, troverebbe in questo volume pagine scritti interessanti. Mancano però degli esempi di propaganda, ciò che più ci aspetterebbe: nessun discorso pubblico, nessun manifesto, nessun pamphlet. Solo riflessioni sparse.

Preso per quel che è, quindi, si tratta di un libro interessante, ben scritto e documentato, con l'avvertenza di non farsi ingannare da un titolo forse fuorviante.

Prima lezione di antropologia, Francesco Remotti


 Prima lezione di antropologia, di Francesco Remotti, è un'opera pubblicata nel 2013 per l'editore Laterza.  In questo volume l'autore discute della definizione stessa, o meglio, delle definizioni di antropologia nel tempo e nello spazio. In seguito, dimostrati i diversi piani dello studio antropologico, Remotti esplica come il bisogno dello studio antropologico nascca dalla naturale incompletezza dell'uomo, e dal suo bisogno di rimediare alla sua incompletezza biologica attraverso lo sviluppo culturale. A questo punto vengono proposti una serie di esempi, quasi degli studi di caso, atti alla dimostrazione di merito e di metodo di quanto affermato precedentemente. In questo senso il volume, più che un'introduzione alla disciplina, è una dimostrazione di metodo. 

Remotti ha l'abilità di introdurre alle questioni antropologiche ed etnografiche, in particolare, alla storia della disciplina e alle questioni tutt'ora aperte nel suo sviluppo. Alla lettura, la seconda sezione appare più scorrevole ed interessante della prima, pur necessaria per porre le questioni di metodo sopra accennate. Comunque una lettura consigliata a tutti coloro i quali volessero introdursi all'antropologia.

lunedì 21 novembre 2022

Epica e parodia: proemi a confronto da Omero ad Ariosto


Mettere a paragone i  proemi di quattro grandi pomei epici può dirci tanto dell'evoluzione del genere, ma anche della temperie culturale che conduce alla stesura di quelle opere. Volendo tracciare un parallelo tra Omero, Virgilio e Ariosto, emergeranno differenze, similarità, echi, riprese e rovesciamenti che diranno tanto degli uomini e delle epoche.

Partendo dall'Iliade, leggiamo: 

Cantami, o Diva, del Pelíde Achille

L’ira funesta che infiniti addusse

Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco

Generose travolse alme d’eroi,

E di cani e d’augelli orrido pasto

Lor salme abbandonò (così di Giove

L’alto consiglio s’adempía), da quando

Primamente disgiunse aspra contesa

Il re de’ prodi Atride e il divo Achille.

Il proemio dell'Iliade nella celeberrima traduzione del Monti permette di osservare quello che a partire dal testo omerico diverrà il canone del proemio epico: l'invocazione alla musa ispiratrice e la rievocazione dei fatti salienti dell'opera (o, in questo caso, di parte di essi). Il proemio ha quindi la funzione di presentare protagonista e nucleo della trama, stabilire la linea guida che l'ascoltatore/lettore viene invitato a seguire nel prosieguo dell'opera, il filo conduttore, l'ira di Achille, motore di tutte le vicende. Achille ci appare dal proemio come eroe monodimensionale: da lui dipendono le sorti della guerra e degli Achei, dalla sua ira l'infinita strage a cui i compagni sono soggetti.

Proseguendo con l'Odissea, si possono osservare similarità e piccole variazioni.

Musa, quell’uom di moltiforme ingegno

Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra

Gittate d’Iliòn le sacre torri;

Che città vide molte, e delle genti

L’indol conobbe; che sovr’esso il mare

Molti dentro del cor sofferse affanni,

Mentre a guardar la cara vita intende,

E i suoi compagni a ricondur: ma indarno

Ricondur desiava i suoi compagni,

Che delle colpe lor tutti periro.

Stolti! che osaro vïolare i sacri

Al Sole Iperïon candidi buoi

Con empio dente, ed irritaro il Nume,

Che del ritorno il dì lor non addusse.

Deh parte almen di sì ammirande cose

Narra anco a noi, di Giove figlia, e Diva.

Risulta immediatamente osservabile quanto di simile, già canonico, compaia nel proemio: enunciazione del protagonista della vicenda, sunto delle sue vicende principali, a partire dall'episodio più doloroso, quello che conduce alla morte di tutti i compagni del protagonista. In questo caso dal proemio due appaiono i fili conduttori della vicenda: la conoscenza pratica di Odisseo, una sorta di astuta curiosità, e la sofferenza nel periglioso viaggio per il mare, sofferenza che toccherà il protagonista e chi gli sta intorno. Osserviamo come Odisseo appaia dal proemio eroe più sfaccettato di Achille: egli viaggia, e conosce, non può impedirsi di desiderare la conoscenza, ma al contempo soffre, perché il suo viaggio è anche la sua condanna.

Continuando con l'Eneide virgiliana, i cambiamenti appaiono più marcati.

 L’armi canto e ’l valor del grand’eroe

Che pria da Troia, per destino, ai liti

D’Italia e di Lavinio errando venne;

E quanto errò, quanto sofferse, in quanti

E di terra e di mar perigli incorse,

Come il traea l’insuperabil forza

Del cielo, e di Giunon l’ira tenace;

E con che dura e sanguinosa guerra

Fondò la sua cittade, e gli suoi Dei

Ripose in Lazio: onde cotanto crebbe

Il nome de’ Latini, il regno d’Alba,

E le mura e l’imperio alto di Roma. 

Musa, tu che di ciò sai le cagioni,

Tu le mi detta. Qual dolor, qual’onta

Fece la Dea ch’è pur donna e regina

Degli altri Dei, sì nequitosa ed empia

Contra un sì pio? Qual suo nume l’espose

Per tanti casi a tanti affanni? Ahi tanto

Possono ancor là su l’ire e gli sdegni? 

Nel proemio dell'Eneide, qui nella traduzione di Annibal Caro, Virgilio, circa sei secoli dopo Omero o chi per lui, varia lievemente sulla tradizione. In primis, qui l'autore si pone al centro della narrazione: è lui che canta. Canta le armi e l'uomo, Enea che erra, soffre e guerreggia, tutto per volontà di una divinità, Giunone, che nel suo odio per il troiano si fa empia contro un pio. Solo in un secondo momento Virgilio dice che quanto scrive gli viene dettato dalla musa, qui poco più che comparsa, stilema della tradizione. Di Enea sappiamo relativamente poco: il vero motore della vicenda sembra qui Giunone, di cui semmai il protagonista ci appare vittima.

Continuando, infine, con Aristo, emergono le variazioni.  

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l’ire e i giovenil furori

d’Agramante lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte di Troiano

sopra re Carlo imperator romano.


2

Dirò d’Orlando in un medesmo tratto

cosa non detta in prosa mai né in rima:

che per amor venne in furore e matto,

d’uom che sí saggio era stimato prima;

se da colei che tal quasi m’ha fatto,

che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,

me ne sará però tanto concesso,

che mi basti a finir quanto ho promesso.

Sono passati quindici secoli, e il poeta nato a Reggio Emilia si prova in un genere che ha ormai all'attivo due millenni di storia. Il poeta vive in un secolo in cui l'Italia sta attraversando sconvoglimenti radicali; un secolo che ha ereditato dall'Umanesimo il gusto per la riscoperta forma classica, ma che inizia a concepire il dubbio che sarà cifra della modernità. Ecco quindi che già dai primi versi i fili conduttori della vicenda divengono molteplici, intrecciati tra di loro in maniera fitta, quasi contorta, attraverso quello che è il più celebre chiasmo della nostra letteratura.  C'è un eco virgiliana nel primo verso, ma se Virgilio aveva detto di cantare le armi - ovvero gli eserciti -  e l'uomo che li guida, qui Ariosto, nel primo dei numerosi rovesciamenti del genere presenti nel poema, ci dice che canterà le donne, i cavalieri - messi in seconda posizione - gli eserciti e gli amori: il campo semantico delle "opere femminili" e quello delle gesta maschili si intrecciano, proseguendo ancora nel verso successivo. Non compare il protagonista della vicenda; in effetti,  a partire dai primi versi non sappiamo se ne esista o no uno. Solo nella seconda ottava compare Orlando, ma di lui scopriamo il tratto meno eroico, la sua follia. Soprattutto, viene meno l'invocazione alla musa; compare qui, sì, una donna, ma non più in funzione positiva - non è colei che detta la vicenda al senno del poeta - semmai in funzione parodica - è colei che il senno va limando, che priva il poeta dell'intelletto che servirà a cantare la vicenda. Già Ariosto ci ha detto tutto della sua opera: corale, multiforme, epica e rovesciamento del genere, fatta di eroi che di eroico hanno poco e comunque meno di quanto vorrebbero; tanto gli eroi dell'epica classica sono monodimensionali, tanto il loro unico limite è la hybris, tanto quelli di Ariosto sono già in partenza umanissimi e vinti dalle vicende del mondo. Un genere di personaggio che di lì a qualche decennio sfocerà nell'eroe del dubbio, Amleto, o nella sardonica follia del Don Chisciotte.

lunedì 10 ottobre 2022

Lettera ad una professoressa, Lorenzo Milani


Lettera ad una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani è un'opera di saggistica che colpisce gli insegnanti che la leggano, oggi come ieri. Colpisce dell'opera la lucida analisi che mette in relazione la dispersione scolastica e condizioni sociali di partenza degli studenti - aspetto tutt'oggi trascurato da molti critici del sistema scolastico -, evidenziando come gli stessi risultati scolastici dipendano spesso dalle condizioni di nascita e dai risultati attesi dagli insegnanti: se oggi anche in Italia si parla largamente di distorsioni della valutazione, di effetto alone, di iperstereotipia e di effetto Pigmalione è anche per l'impatto che l'opera di Milani ha avuto. Ne viene fuori un mondo degli insegnanti che nel nostro paese, ieri, più che ambire a modificare la realtà che lo circondava, ne dava notarilmente conferma: il poverò è ignorante perché il povero è ignorante e non può essere altrimenti.

Gianni è milioni

La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.

La vostra «scuola dell’obbligo» ne perde per strada 462.000 l’anno.t A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli. Non noi che li troviamo nei campi e nelle fabbriche e li conosciamo da vicino.

I problemi della scuola li vede la mamma di Gianni, lei che non sa leggere. Li capisce chi ha in cuore un ragazzo bocciato e ha la pazienza di metter gli occhi sulle statistiche.

Allora le cifre si mettono a gridare contro di voi. Dicono che di Gianni ce n’è milioni e che voi siete o stupidi o cattivi.

Ci sarebbe da chiedersi: e oggi? Certamente oggi i dati della dispersione scolstica si sono grandemente abbassati, il legislatore ha imposto che l'obbligo scolastico non sia più di 8 anni ma di 10, ha esteso l'obbligo formativo. Eppure c'è da chiedersi se le stesse distorsioni di sessant'anni fa non agiscano ancora nella valutazione degli insegnanti.  È indubbio che ci siano ancora colleghi che vorrebbero poter urlare all'ignorante che è tale e che tale rimarrà, senza doversi porre le due fatidiche domande: come mai l'ignorante è tale e cosa io che insegno ho fatto davvero per lui. È molto più semplice recriminare contro le ingerenze del sistema, del legislatore, dei genitori, del gender, dei poteri forti...

Va anche detto che non tutto ciò che Milani propone risulta oggi condivisibile: la visione dell'autore è dichiaratamente classista, nel senso che s fonda sulla lotta di classe, messianica e antimoderna. Per Milani le scienze e le arti sono cose inutili, da ricchi, non adatte all'insegnamento nell'età dell'obbligo. Nell'età dell'obbligo vanno forniti esclusivamente saperi "utili". Però Milani esclude in questo modo qualsiasi forma di confronto con l'altro da sé: verrebbe da dire che rinchiude il povero nella stessa prigione da cui lo vuole fare evadere. Riprova ne è l'apprezzamento dell'autore per la scuola del doppio canale. Milani non pensa di dover far raggiungere ai figli dei poveri un sapere superiore, semplicemente perché non riconosce alcuna superiorità al sapere figlio dell'accademia e delle arti. Il sapere che ha in mente Milani è schiacciato sul presente: lui che è figlio di una cultura storicistica sembra abiurare alla necessità della comparazione diacronica.

Comunque sia l'opera è potentissima nella sua parte destruens: si leggano le pagine sull'insegnamento dell'Educazione civica e le si compari con il benaltrismo di tanti colleghi ancora oggi:

educazione civica

Un’altra materia che non fate e che io saprei è educazione civica.

Qualche professore si difende dicendo che la insegna sottintesa dentro le altre materie. Se fosse vero sarebbe troppo bello. Allora se sa questo sistema, che è quello giusto, perché non fa tutte le materie così, in un edificio ben connesso dove tutto si fonde e si ritrova?

Dite piuttosto che è una materia che non conoscete. Lei il sindacato non sa bene cos’è. In casa di un operaio non ha mai cenato. Della vertenza dei trasporti pubblici non sa i termini. Sa solo che l’ingorgo del traffico ha disturbato la sua vita privata.

Non ha mai studiato queste cose perché le fanno paura. Come le fa paura andare al fondo della geografia. Nel nostro libro c’era tutto fuorché la fame, i monopoli, i sistemi politici, il razzismo.

Ancora, si leggano le pagine e pagine sui maestri e le maestre incapaci di mettere in discussione la propria didattica, i propri criteri di valutazione. Milani mette in dubbio il fine stesso della didattica e della valutazione tradizionali:

arrivisti a 12 anni

Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse non esiste, forse è volgare.

Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null’altro.

Dietro a quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale. Il diploma è quattrini. Nessuno di voi lo dice. Ma stringi stringi il succo è quello.

Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere già arrivisti a 12 anni.

A 12 anni gli arrivisti son pochi. Tant’è vero che la maggioranza dei vostri ragazzi odia la scuola. Il vostro invito volgare non meritava altra risposta.

Ultima nota: quando si dice che Lettera ad una professoressa è libro di Lorenzo Milani si dice un'inesattezza: sono i ragazzi di Milani ad aver scritto l'opera, coordinati dal loro don ormai quasi sul letto di morte. Lettera ad una professoressa è opera di scrittura corale, in cui gli studenti di Milani hanno disseminato le loro competenze e la loro richiesta di chiarezza, dalla scuola, dallo Stato, dal mondo adulto.

Insomma, Lettera ad una professoressa è ancora oggi un libro che colpisce, che mette in discussione l'insegnamento, che scopre la lotta di classe dove non la si vuole vedere, anzi, dove la si vuole nascondere o obliare sotto la distopia del merito.

 

domenica 2 ottobre 2022

Epica e parodia: Orlando e Aiace

Quando nel 1516 Ludovico Ariosto conclude la prima edizione dell'Orlando furioso, la crisi che caratterizzerà Italia ed Europa tra Cinquecento e Seicento è agli inizi. In Italia è già avvenuta la discesa dell'invasore francese; la scoperta delle Americhe sta iniziando a spostare il baricentro economico verso le coste oceaniche; di lì a breve a Wittenberg compariranno le 95 tesi di Lutero.

In questo contesto, Ariosto riprende una tradizione, quella epico-cavalleresca, tornata alla luce in Italia nel secolo precedente. L'epica cavalleresca tentava di tenere assieme la tradizione cortese e lla riscoperta dell'epica classica; questo amalgama si inverava nell'ideale umanistico dell'uomo misura di tutte le cose perché immagine e somiglianza di Dio, rappresentato dagli eroi protagonisti dei canti. Orlando in primis.

Quando però Ariosto mette mano al genere è ormai difficile credere ciecamente a questo ideale: troppi eventi hanno messo in discussione l'idea che intelletto e azione possano regolamentare ordinatamente il mondo: gli anni di pace dopo gli acccordi di  Lodi parevano aver regalato una costruzione razionale ll'Italia, mentre si scopriva ora la debolezza delle signorie della penisola; la scoperta di un nuovo continente avveniva per errore, e metteva in luce che non tutto è contenuto nelle sacre scritture.

Contestando l'ideale stesso dell'eroe classico, Ariosto finisce per riprendere il genere dell'epica cavalleresca, trasformandolo. La struttura dell'opera non appare più lineare, si divide in tre filoni costellati da mille rivoli intrecciati; l'intrecciarsi delle vicende, il loro rovesciamento, ci viene anticipato già nelle prime ottave, con il celebre chiasmo dei primi due versi e con l'allontanamento dell'invocazione alla musa ispiratrice, posposta alla seconda ottava e, nuovamente, rovesciata nella richiesta alla donna amata di lasciare all'autore il sennno necessario per proseguire nell'opera; soprattutto, gli eroi si scoprono uomini comuni in balia degli eventi esterni e di passioni tutte interne, dei loro limiti in quanto esseri umani. Insomma, Ariosto finisce per fare spesso la parodia dell'epica, nel senso etimologico del termine: cammina accanto all'epica, nei riusa i topoi, ma per dire altro, talvolta l'opposto.

Un esempio concreto è il riuso del topos della follia dell'eroe. Ariosto riprender l'immagine di Orlando innamorato da Boiardo, ma lo porta agli estremi. Gà nell'epica classica però incontriamo il tema della follia dell'eroe: si pensi per esempio all'Ercole furente e, più ancora, alla follia di  Aiace.

Proprio il confronto con Aiace può risultare utile a capire ciò Ariosto realizza. Cos'è infatti la follia? Essa è uno stato di alterità, il rovesciamento della realtà, l'incrocio tra reale e immaginario, lo scarto dalla norma, l'irrazionalità che svela l'inganno della ragione. Dirà Erasmo da Rotterdam che la follia mette in luce la contraddizione della saggezza, perché solo il folle sfida e oltrepassa i limiti che i saggi conoscono senza averne fatto esperienza: insomma, solo il folle è saggio.

Date queste premesse, si può confrontare la follia dei due personaggi. Se per Orlando essa è causata dall'amore, ovvero da un sentimento che nasce e cresce nell'animo del personaggio. È vero che quando Astolfo si impegnerà nella ricerca del senno dell'eroe, Giovanni Evangelista dirà che la follia di Orlando sia stata voluta da Dio per punirlo del suo eccesso di amore, ma questo intervento in fin dei conti riprende l'idea che la causa ultima della follia di Orlando è Orlando stesso e il suo amore smisurato.  La follia di Aiace è voluta dalla divinità. Aiace, a contesa con Odisseo per le armi del defunto Achille e quindi per la preminenza fra gli eroi greci, viene punito e umiliato da Atena, punito per non aver voluto il suo soccorso in battaglia, umiliato e distrutto come eroe per il puro gaudio della divinità, mostrandoci il concorrente di Aiace, Odisseo, atterrito per la violenza e profonda cattiveria del dio.

Nel momento della sua follia Orlando uccide e distrugge ciò che gli capita a tiro, uomini e bestie, non distinguendo le une dalle altre; nel momento della follia Aiace uccide greggi e armenti convinto che siano gli eroi greci su cui vuole vendetta.

Qui però emerge la differenza fra i due eroi che sottende una diversa concezione da parte di Ariosto: quando Orlando recupera il senno grazie all'interventto dii Astolfo, ritorna al suo ruolo di eroe, il suo onore non è compromesso, ne giunge invece la consapevolezza che l'eroe non è altro che un uomo come gli altri, di certo non infallibile, spesso vittima di agenti esterni e di passioni interne. 



Quando Aiace rinsavisce, invece, ha immediatamente chiaro che il suo onore è perduto, perché esso deriva dall'essere stato padrone delle proprie azioni, della propria forza smisurata; nel momento in cui Aiace finisce vittima dello strapotere di Atena, il suo status stesso di eroe è venuto meno. La scelta di Aiace è consequenziale: l'unico modo per recuperare lo status di eroe è riaffermare, contro la divinità, il poossesso delle proprie scelte. Per questo Aiace conficca la spada sul suolo e vi si lancia sopra suicidandosi, come ci raccconta Sofocle nella sua tragedia.

Quindi, se Aiace è, anche nell'esito tragico, eroe classico che riafferma il pieno possesso di sé, Orlando è al contrario eroe della crisi, che nel momento di massima espressione della propria potenza di fa quasi figura tragicomica, solo per scoprire infine di non essere altro che pedina nelle mani di forze per lui incontrollabili.




Bibliografia

Brillante, C. (2013). La morte di Aiace in Sofocle e nei poemi del ciclo epico. Quaderni Urbinati Di Cultura Classica, 103(1), 33–51. https://www.jstor.org/stable/44740659?read-now=1#page_scan_tab_contents

Floris, G. (2020). Parodia del mito nel Furioso. Cahiers d’études Romanes, 40, 13–31. https://doi.org/10.4000/etudesromanes.10288

martedì 20 settembre 2022

Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar



 Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar esce per la prima volta nel "lontano" 1951. Il romanzo riprende il filone del romanzo storico, figlio di profondo studio della letteratura storiografica a cui l'autrice può attingere. 
Il romanzo, scritto in prima persona, assume la forma di una lunga lettera dell'imperatore morente al futuro imperatore Marco Aurelio. Attraverso questa scrittura all'apparenza intima e personale l'autrice traccia un quadro della Roma del II secolo d. C. all'apice della sua forza e della sua grandezza, sotto l'imperatore che più a lungo, dopo Ottaviano, ne aveva saputo fino a quel momento garantire la pace. Al contempo il romanzo disegna il profilo dell'imperatore e in questo maggiormente si osserva la distanza tra la cultura storiografica dell'autrice e gli studi più recenti su Adriano e sulla sua epoca. Ugualmente Yourcenar non può attingere a tante conoscenze sulla cultura materiale romana che affioreranno dagli studi archeologici dei decenni successivi.

Nondimeno il romanzo mantiene la sua potenza: è vero che a tratti l'idealizzazione della figura dell'imperatore Adriano arriva ad essere stucchevole, ma lo scritto si mantiene vivo e vitale nel rapportro tra Adriano e la figura di Antinoo, così come nel delineare l'incarico di imperatore come magistratura e responsabilità, affrontata non con l'ascetismo degli stoici, bensì semmai con un pragmatico gusto del vivere.

Vale la pena di leggere questo romanzo a settant'anni dalla sua pubblicazione? Complessivamente sì, ma con un'avvertenza: ciò che oggi funziona meglio dell'opera è ciò che meno avrebbe dovuto rappresentarla come romanzo storico, la ricostruzione poetica della psiche di un uomo che, evidentemente, per decenni ha affascinato l'autrice, mentre è nella ricostruzione storica che Memorie di Adriano risulta oggi più deficitario.

sabato 10 settembre 2022

Io dov'ero?, Francesco Ditaranto, Lucrezia Bugané


 Io dov'ero? di Francesco Ditaranto (testi) e Lucrezia Bugané (matite) è un graphic novel che affronta un tema: come mai in certe occasioni eventi epocali ci scivolano addosso senza che ce ne accorgiamo?

Nel caso specifico il protagonista, Attilio, è un operaio di 32 anni, delegato FIOM, che lavora da un mese a Berlino Est per conto della Weber. In fabbrica ha degli amici, per la maggior parte italiani, ma anche qualche tedesco dell'est o qualche altro compagno proveniente dai paesi del Patto di Varsavia. Attilio nota la povertà e lo squallore, l'inquinamento della città, tra l'altro fa capolino a Berlino Ovest, lui può in quanto straniero, attraversando il famoso Checkpoint Charlie.

9 novembre 1989. La giornata precedente Attilio l'ha passata al solito modo: pranzo con i colleghi passando a Berlino Ovest, turno in fabbrica, ritorno a casa. La TV non la guarda, tanto non capisce il tedesco, ugualmente non ascolta la radio, stranamente non c'è musica quella sera. Sente trambusto per strada, ma sarà la solita festa laica...

10 novembre: Attilio ha il viaggio di ritorno a casa, a Bologna. Le strade sono strane, al Checpoint Charlie lo lasciano passare praticamente senza controlli. In aeroporto è l'unico italiano, nessuno con cui parlare.

Solo arrivato a Bologna Attilio si accorgerà di come il mondo sia cambiato intorno a lui nell'arco di poche ore, e di come lui non si sia accorto di nulla: il Muro di Berlino è stato abbattuto. Ma la vera domanda è: non si è accorto o non si è voluto accorgere di nulla?

Il graphic novel, piuttosto breve in realtà, ruota intorno a questo quesito, senza tuttavia volerlo approfondire davvero. La riflessione è lasciata al lettore, del resto sappiamo pochissimo del protagonista, delle sue idee: un vago confronto con il padre, veterocomunista, e il fatto che la compagna con cui si è lasciato forse l'ha sfrattato. Nient'altro. Cercare una risposta alla domanda che si pongono gli autori così è inutile, poco più che uno spunto. Uno spunto che però può portare a noi lettori: come mai anche noi ci facciamo scivolare degli eventi epocali che ci accadono intorno? Perché e come avviene la selezione di ciò che riteniamo di voler sapere e vivere? Per empatia? Per comunanza d'intenti e di idee? Per un malcelato razzismo?

giovedì 25 agosto 2022

Un po' di cose su educazione e formazione dette in questa campagna elettorale



Durante questa orrenda campagna elettorale diverse cose sono state dette e scritte su educazione e istruzione. Ho preso un po' di appunti, per commentare e vedere cosa ci sia di sensato  nei programmi e o nei proclami dei diversi partiti.

Cominciamo da Letta: al meeting di Rimini, e non solo lì, il leader del PD ha proclamato la necessità di far iniziare l'obbligo scolastico a tre anni, ovvero dall'asilo. Al meeting di Comunione e liberazione sono partiti i fischi, ugualmente la proposta è stata criticata dal mondo cattolico (proposta sovietica, queste le parole usate da Carfagna di Azione). Sempre Carfagna fa notare la carenza di asili nido al meridione: peccato che la proposta del PD non riguardi i nidi, la scuola materna, ma proprio la scuola dell'infanzia, gli asili, quella che precede la scuola primaria, le elementari. Già oggi circa l'89% dei bambini frequenta la scuola dell'infanzia, si tratterebbe di portare questo dato al 100% con spese totalmente a carico dello Stato; la ratio della proposta sta nel fatto che diverse ricerche internazionali mettono in relazione migliori risultati di apprendimento nel tempo con una precoce scolarizzazione: in sostanza, se inizi la scuola a sei anni e hai compagni di classe che hanno iniziato ad essere scolarizzati prima, è probabile che nel lungo periodo loro andranno meglio. Ma le proteste sorte contro la proposta del PD dicono tante cose: intanto, che la nomenclatura moderna degli ordini scolastici è per molti materia confusa, fermi ancora alla scuola gentiliana; inoltre le proteste, giunte dal mondo conservatore, ignorano il beneficio sociale della diffusione degli asili, ovvero il consentire alle donne di svincolarsi dall'accudimento mattutino dei figli per poter lavorare, nonché la più facile integrazione di figli e genitori stranieri. Non per niente Carfagna fa notare che sei donne su dieci al Meridione non lavorano, come se ciò sia una cosa naturale, invertendo l'ordine dei fattori: forse sei donne su dieci al Meridione non lavorano anche perché la loro ricerca è limitata dalla necessità di accudire la famiglia, soprattutto se non hanno a disposizione una forte rete di supporto data dal welfare familiare.

Sulla stessa linea della proposta di Letta è quella di Civati di Possibile: obbligo scolastico dai 3 ai 18 anni, nonché diffusione del tempo pieno (40 ore di scuola settimanali) non solo alla scuola primaria (elementari) ma anche alla secondaria di primo grado (le scuole medie, per intenderci). Di nuovo, la proposta parte dagli studi sui benefici di una precoce scolarizzazione, nonché sui benefici sul piano occupazionale e dell'integrazione sociale.  Si consideri che il tempo pieno alla primaria dove già esiste è un grande strumento di inclusione sociale, perché permette ad entrambi i genitori di lavorare, mentre lì dove con dei figli molto piccoli la scuola finisce alle 12:30 o alle 13:00, di fatto uno dei due genitori non può avere un lavoro se non part-time oppure bisogna ricorrere per forza al welfare familiare, cioè nonni o altri parenti che non è detto che ci siano sempre. Inoltre il tempo pieno se è fatto bene è un grande strumento di parificazione tra gli studenti, perché, almeno in teoria, nelle ore pomeridiane gli studenti dovrebbero essere accompagnati nello svolgimento dei compiti loro assegnati, ma questo accompagnamento viene fatto insieme ai loro stessi insegnanti, quindi gente preparata per farlo; invece, dove non c'è il tempo pieno, sono i genitori a dover accompagnare gli studenti nello svolgimento dei compiti pomeridiani, e, nel caso di famiglia dal basso livello di istruzione, nel caso degli stranieri non alfabetizzati o non ancora alfabetizzati nella lingua italiana o nel caso di genitori lavoratori questo non è sempre possibile, e in questo modo già dalle elementari si inizia a creare il divario tra le famiglie economicamente e culturalmente di un livello più alto che possono quindi sostenere i figli e accompagnate nello studio, e le famiglie di tenore economico più basso o di livello socio culturale più basso, che invece non possono accompagnare i figli nello studio adeguatamente.

A queste proposte ha risposto il leader della Lega Salvini chiedendosi: "Ma perché uno a 16 anni, che vuole andare a lavorare, deve essere costretto ad andare a scuola? Perché un bambino di 4 anni deve essere costretto ad andare all'asilo statale?". Ovviamente i quesiti posti d Salvini sono falsi problemi, formulati in modo da compiacere un pubblico che ha già un'idea dell'istruzione ben definita, così come dell'educazione. Alle domande comunque si potrebbe rispondere con altre domande: "perché uno di 16 anni deve poter scegliere e uno di 14 no? O uno di 13? E perché non a 10 anni? Il punto non è l'età, ma a cosa pensiamo serva un sistema di istruzione, se questo sia in antitesi o complementare (o addirittura preliminare) all'ingresso nel mondo del lavoro e persino alla cittadinanza; semplicemente Salvini pensa che studiare per qualcuno sia una perdita di tempo, e che non ci sia motivo per smentire questo preconcetto. Per quanto riguarda l'asilo, la proposta del PD non obbliga alla scelta di un asilo statale, anzi propone il finanziamento pubblico anche per la scelta dell'asilo privato, ma propone l'obbligo a 3 anni perché questo genera un vantaggio per il singolo bambino e per la società, a meno che non si pensi che avere cittadini istruiti sia un problema. Sempre Salvini poi ci ha deliziati con la seguente dichiarazione "Adesso purtroppo qualche genitore se arriva il figliolo a casa con la nota vanno a chiedere conto alla maestra, c’è un po’ da insegnare rispetto ed educazione, lo dico in terra di alpini, anche reintrodurre un anno di servizio militare e servizio civile per i nostri ragazzi un po’ di educazione lo reintrodurrebbe nel nostro paese". Al di là del merito della questione, Salvini si esprime come i miei alunni di prima superiore, per intenderci, come uno che ha a stento le competenze linguistiche per superare l'esame di terza media, e pure male. Nel merito, tra l'laltro, Salvini non centra l'obiettivo: l'obbligo del servizio militare o civile può avere tanti vantaggi, in primis quello di obbligare almeno una volta nella vita il maschio italico ad un controllo andrologico, ma non ha nulla a che fare con l'acquisizione di una maggiore o minore, migliore o peggiore educazione, a meno che Salvini non intenda per educazione una forma estremistica di indottrinamento verso certo tipo di valori...

Rimanendo sul tema, Giorgia Meloni ha di recente detto che FDI combatterà le devianze giovanili come anoressia, bulimia, obesità, bullismo attraverso la valorizzazione dello sport e della cultura. È chiaro che Meloni ha quanto meno sbagliato i termini con cui ha posto la questione devianze. Ha usato il termine devianze per riferirsi a patologie. Ora, uno le devianze in un certo senso se le sceglie, c'è un margine di autonomia, almeno agli inizi, se scegli o no di assumere certi tipi di comportamenti antisociali, per esempio. Le patologie no, le patologie ti affliggono come individuo, al di là di risultare poi un peso anche per il resto della società. Il problema è che le devianze le "rieduchi", le patologie le curi, e neanche tutte, perché alcune sono croniche. In generale, passare da patologie a devianze implica la colpevolizzazione del "deviato" (non per niente per molti devianza e depravazione sono sinonimi). Ancora sul tema istruzione, Meloni propone l'abolizione dei giudizi alla primaria e il ritorno al voto numerico. Questa scelta sottintende una concezione competitiva e meritocratica, dove con meritocrazia si intende una distopia, anziché un'idea collaborativa di scuola. Come dice il docimologo Corsini, il voto numerico è falsamente oggettivo, non mi dice nulla di educativo, serve solo a creare gerarchie. Al contrario una valutazione descrittiva aiuta l'alunno a capire cosa funziona e cosa no nella sua prestazione. Il numero aiuta a confermare uno status quo, la valutazione descrittiva ha come obiettivo la trasformazione del reale.

Sempre sul tema educazione, Calenda ha proposto il liceo obbligatorio per tutti. Il problema della proposta di Azione è che, anche se in buona fede, è profondamente classista. Intanto perché fa una classifica dei saperi, gerarchie che assomigliano a quelle degli studi medievali. Poi perché non ci si rende conto che la presenza degli istituti tecnici e professionali ha come obiettivo pratico, oltre a quello di fornire una valida istruzione, impedire una dispersione scolastica che altrimenti sarebbe altissima, costringendo gli alunni verso studi per cui non si sentono portati o motivati. Stesso discorso vale per i percorsi PCTO: personalmente non mi piacciono, spesso mancano di una vera finalità educativa; ma dove questi percorsi sono ben pensati, essi forniscono strumenti educativi validi nonché la possibilità di motivare agli studi degli alunni che altrimenti facilmente abbandonerebbero ogni forma di istruzione.

Infine, un bonus, non strettamente legato alla questione scuola e istruzione, ma in generale attinente al tema dei valori in campo: nella faccenda di Meloni e del video dello stupro le cose da attenzionare sono più di una. La prima, la noncuranza nei confronti del dolore della vittima, data in pasto allo stupro due volte attraverso la visione pubblica della sua aggressione. Ma poi ci sono altre cose: perché proprio quel video? Perché l'aggressore era straniero, un richiedente asilo; ma anche perché la vittima era straniera, una slava, una che, nell'ottica dello stereotipo italico, tutto sommato a certe cose deve aver fatto il callo, per cui che problema c'è a dare il video in pasto ad internet. Il problema che pone Meloni non è lo stupro di una donna in quanto tale, ma che in Italia certe cose gli stranieri non devono farle; se poi l'ottantacinque per cento degli stupri è commesso da italiani, ecco, quelli non contano, e comunque ci sono vittime e vittime: quelle italiane valgono più di altre.

venerdì 12 agosto 2022

Seinfeld, l'arte di scrivere un finale e il "non si può più dire nulla"



 Seinfeld è una delle serie tv piiù iconiche degli anni novanta dello scorso secolo, tanto da avere ancora un'accanita schiera di fans. Caratteristica della serie è la comicità, mai banale ma senza la pretesa di essere significativa o morale. La sceneggiatura è in controtendenza rispetto a quanto abituava il pubblico dell'epoca: episodi sostanzialmente autoconclusivi, assenza di una trama orizzontale, citazionismo interno (il continuo ritorno di alcuni stereotipi, di personaggi anche solo citati, di cliché, di dialoghi ed espedienti) ed esterno (citazioni da film, serie e show tv, opere teatrali). 



David Foster Wallace cita Seinfeld come uno degli esempi di opera postmoderna che la cultura di fine Novecento deve superare: è chiaro a cosa DFW si riferisce. Seinfeld ironizza su tutto, non si fa problemi di moralità, anzi sbeffeggia la morale condivisa, dal sentire religioso al sentiment politico passando per gli opposti ideali di destra (la passione per le armi o il mai nascosto desiderio di abolire l'aborto) e di sinistra (la paura di apparire omofobi, razzisti, poco inclusivi; la sensibilità verso la disabilità...). Semplicemente, Seinfeld, opera nichilista e postmoderna, ironizza su ogni ideologia, la rende macchietta.












Proprio nella sua conclusione la serie si confronta con il suo stesso essere: paradossalmente a processo, i quattro protagonisti vengono accusati grottescamente di aver violato la "legge del buon samaritano", avendo mostrato indifferenza per ogni forma di sofferenza o alterità che in nove anni hanno sbeffeggiato. Il finale della serie, da molti criticato, è in realtà coerente con un mutamento del sentire comune sul finire del secolo, e allo stesso modo con il sentire della serie: Jerry, George, Elaine e Cosmo vengono condannati dalla giuria popolare e costretti ad un anno di reclusione. Nel processo si susseguono le testimonianze di tutte le "vittime" dell'ironia e dell'indifferenza della serie: dal ragazzo affetto da una rara malattia genetica, alla disabile su sedia a rotelle; dall'immigrato gestore di un ristorante specializzato in zuppe a quello proprietario di un locale etnico, entrambi costretti ad espatriare; dalle donne vittime delle attenzioni sessuali di Jerry alla famiglia della ex fidanzata di George, morta per la noncuranza e sciatteria di quest'ultimo.







 Tutte queste sarebbero figure tragiche, se non fossero esse stesse macchiette, proprio come i protagonisti. Infatti nessun personaggio della serie assume mai lontanamente lo spessore di un personaggio a tuto tondo: tutti sono fermi, immobili per nove anni. Letteralmente, lo show è uno show sul nulla che prende in giro se stesso, in cui dal primo all'ultimo personaggio, nessuno impara niente di nulla





E quindi? Larry David, coautore dello show insieme al frontman Jerry Sainfeld ha definito il finale della serie "intelligente". Perché? Perché si tratta di una conclusione coerente: una serie che non prende sul serio nulla, non prende sul serio neanche se stessa né la comicità (del resto più volte messa alla berlina, con i continui ammiccamenti alla scarsa vena comica del protagonista o agli stereotipi sulla stupidità dei comici o sull'ironia legata al mondo ebraico). Proprio perché la comicità non viene celebrata come soluzione del mondo (come disse Aristotele "è necessario demolire la serietà dell’avversario con il riso e il riso con la serietà") i quattro protagonisti comici non si innalzano a difensori del libero pensiero di fronte ad una sensibilità che inizia sempre di più ad avvertire come di certi argomenti occorra trattare in maniera diversa. Il comico riconosce la sensibilità altrui, ma il genio di David fa si che né la sensibilità di fine secolo si innalzi a facile moralismo né la comicità postmoderna si elevi a difesa del libero pensiero.
Proprio per questo, per abbassare i toni, la serie si conclude in carcere, sì, ma con il protagonista, Jerry, che insieme a George ripete esattamente lo stesso dialogo della prima puntata, prima, e poi tiene uno dei suoi spettacoli comici in un braccio del carcere. Serio e faceto si mescolano senza voler marcare questo miscelarsi perché non c'è nulla da imparare dalla vicenda. E tutto ciò è estremamente consequenziale. Cose che chi oggi blatera di censura della satira e del "non si può dire più niente" dovrebbe imparare da una serie conclusa trent'anni fa.




mercoledì 27 luglio 2022

Il nome della rosa, Umberto Eco


Il nome della rosa di Umberto Eco è uno dei capolavori della letteratura italiana degli ultimi cinquant'anni. Già dalla sua pubblicazione nel 1980 il romanzo ha rappresentato la summa del postmodernismo italiano, rappresentando la via nostrana all'acquisizionne delle idee del movimento culturale.

Nel romanzo il protagonista, Adso da Melk, si presenta, all'epoca dei fatti che racconta era un giovane novizio, affidato alle cure del monaco francescano Guglielmo da Baskerville, dotto teologo ed ex inquisitore. I due sono in viaggio verso un'abazia italiana presso cui si terrà un incontro fra i teologi imperiali, fra i quali Guglielmo, e i teologi del papa avignonese. Tema del dibattere è la povertà francescana. In realtà però la permanenza dei protagonisti presso l'abazia viene funestata da una serie di ommicidi e dal mistero della biblioteca labirinto con i suoi inestimabili tesori, tra i quali il libro perduto di Aristotele, il volume sull'arte della commedia. 

Il romanzo è scritto in una lingua altissima, che si diverte divincolandosi tra citazioni dotte, latinismi, anglismi, francesismi, nonché nel pastiche letterario che porta i personaggi a parlare talvolta in tedesco o nella lingua di Babele di Salvatore, uno dei personaggi che popolano l'abazia, miscuglio di tutte le lingue con cui l'incolto ha avuto a che fare nella sua vita.

Ma Eco non lavora solo con la lingua: l'occasione gli permette di dissertare di teologia, semiologia, scienze, letteratura, e di esprimere l'assunto del postmodernismo: non esistono fatti, solo le interpretazioni.  Così è vero che Guglielmo scopre alla fine la realtà degli omicidi, e prima ancora la soluzione che gli permette di attraversare la biblioteca-labirinto: ma la soluzione degli enigmi è sempre casuale, l'interpretazione che Guglielmo dà ai problemi è al contempo lgica, legittima ed errata. Come sono errate le interpretazioni che altri personaggi danno ai fatti, come Bernardo Gui, inquisitore papale, dotto, coltissimo, fine teologo e totalmente privo della capacità di  dubitare del proprio sapere.

Se c'è un messaggio che il romanzo vuole veicolare è proprio questo: l'inno al dubbio come metodo; l'invito a non prendersi mai eccessivamente sul serio, a smascherare l'eccessiva supponenza con il riso comico, consapevoli che "stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus", la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi.

Il caffè della gioventù perduta, Patrick Modiano


 Ne Il caffè della gioventù perduta Patrick Modiano racconta da punti di vista diversi la vicenda di una giovane donna, Louki, della sua fuga dalla famiglia, del suo matrimonio e della sua sparizione. L'artificio adoperato dall'autore ha origine in un non luogo, il caffè Le Condé, presso cui ad un certo punto della sua vicenda la donna ha l'abitudine di trascorrere le sue giornate; qui vediamo Louki attraverso gli occhi di due astanti, un giovane studente ed uno scrittore, Roland, che ne diviene l'amante; a questi punti di vista si alternano quelli dell'investigatore privato assoldato dal marito per cercarla e che, avendo trovato sue notizie, decide di difendere la vita privata e il sentire della donna fingendo con il suo cliente l'impossibilità di svolgere il suo compito, e il punto di vista della donnna stessa, che attraverso dei flashbak ci introduce al suo passato, alle sue passioni, al  suo contatto con gli alcolici e la droga, fino al tragico finale.

Ma un'altra protagonista della vicenda, come al solito in Modiano, è  la ittà di Parigi, con la sua topografia precisissima, i suoi luoghi ormai scomparsi, e i suoi "Luoghi neutri", spazi di tutti e di nessuno, luoghi in cui far perdere le tracce, in cui esistere senza esistere, dei non-luoghi di eterno passaggio e di eterna fuga.

Come è un'eterna fuga quella di Louki, ma in fondo quella di tutti gli avventori  del Condé, ognuno immerso nelle velleità della propria vita, espresse nel chiacchiericcio del caffè letterario, dei colloqui fra scrittori, artisti, cantanti; tutti personaggi che però, in un eterno ritorno, spariranno nel nulla assieme al caffè, esprimendo l'unica certezza possibile, il ciclo della vita e della morte e del concludersi di ogni esperienza.

mercoledì 13 luglio 2022

Parlando di competenze: da Il nome della rosa al dibattito tra virologi durante la pandemia di Covid-19

 



Spesso nel dibattito pubblico sentiamo parlare di "competenti" e di "competenza"; quando, ogni anno, arrivano i risultati delle prove INVALSI, riparte sui media nostrani il ginepraio sulla perdita di competenze degli studenti, sulla scuola che non insegna, etc; ma anche in altro contesto si tira fuori il concetto di comeptenza, per esempio, chi è competente per parlare della pandemia? Chi per parlare della guerra in Ucraina? Forse quindi andrebbe meglio definito il concetto di competenza, allora, almeno agli occhi di chi, di questo concetto, ha un'idea tutto sommato vaga. 

La competenza è il saper adoperare in contesti concreti abilità possedute e affinate e conoscenze acquisite. Proprio per questo la competenza è "plastica", mutevole, ed esiste solo in contesto. In realtà è sempre stato così, anche prima che venisse sviluppato il concetto di competenza: agli albori della scrittura il sapiente non era tale solo perché sapeva scrivere, ma perché con quel sapere faceva concretamente cose dicibili o, altrettanto spesso, solo supposte, indicibili e temute; Aristotele è stato per secoli l'auctoritas non solo e non tanto per quello che sapeva, ma perché con quel sapere aveva sviluppato meglio e più di altri un sistema che pareva dare risposta ad ogni quesito possibile e, ugualmente, pareva dare ordine a ciò che al comune mortale pareva caos. Quindi la competenza è sempre in contesto: ciò che oggi può essere considerata dimostrazione di competenza potrà far ridere in futuro; la fisica aristotelica o il sistema tolemaico possono oggi fare sorridere fisici e astronomi, ma per secoli sono apparsi la migliore risposta possibile a quesiti concreti.

Un altro esempio plastico di cosa voglia dire competenza lo incontriamo nel romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco: il personaggio di Gugliemo da Baskerville è indubbiamente dottissimo, fine teologo, con la fortuna di essersi abbeverato nel sapere e nelle conversazioni con Francesco Bacone e Gugielmo di Occam, di cui, in fondo, riassume metodi e pensieri; però Guglielmo da Baskerville non è l'unico personaggio che può vantare simili conoscenze nel romanzo, anzi, almeno altri due personaggi possono vantare titoli pari ai suoi, Ubertino da Casale e Bernardo Gui. Tuttavia né Ubertino né Bernardo sono in grado di adoperare le proprie conoscenze per venire a capo della serie di omicidi e dei misteri che investono l'abazia dentro la quale si svolgono le vicende narrate nel romanzo. È vero che, per paradosso, Guglielmo arriva per caso alla soluzione del principale enigma del romanzo, trovare l'accesso del Finis Africae nella biblioteca dell'abazia, e l'episteomologia della complessità dovrebbe tenerci sull'all'erta nel pensare che il reale tenda all'ordine, ma proprio perché competente Guglielmo sa insierire una casualità in un sistema in cui saperi e abilità gli permettono di interpretare la realtà che lo circonda e gli consentono di trovare una soluzione ad  un problema concreto, la catena di omicidi e il mistero del libro misterioso nascosto nella biblioteca. Lì dove Ubertino non sa cosa cercare e Bernardo interpreta la realtà che lo circonda secondo uno schema consolidato ma non rispondente alla realtà del caso concreto, la censura del falso eretico, Guglielmo ragiona in maniera critica, sviluppa teorie, le prova, le scarta, ne sviluppa altre in maniera creativa, le sottopone a prova. Insomma, si mostra competente.

Venendo a tutt'altro caso, ovvero al dibattito sulla pandemia da Covid-19, un medico che prende posizione sulle misure da adottare per fronteggare la malattia non è competente perché ha studiato per anni, ma è competente perché sa usare in contesto quello che ha appreso in anni di studio. Detto questo, quando chiediamo ai "competenti" di esprimersi, per esempio, sulla pandemia, la prima cosa da fare, certo, è vedere a che titolo ne parlino; ma poi andrebbe fatto un ulteriore vaglio: quando hanno discusso di pandemia, questi competenti hanno centrato l'obiettivo o hanno preso svarioni? Perché nel secondo caso, forse, si sta confondendo tra conoscenza astratta e competenza. Esempi concreti: Zangrillo in tre anni ha più volte fornito interpretazioni e suggerimenti sui comportamenti da tenere durante la pandemia mostratisi poi decisamente sbagliati; qualcosa di simile è accaduto anche con Bassetti; al contrario Crisanti, pur non essendo di per sé un medico, ha adoperato il proprio sapere e le proprie abilità per fornire risposte concrete allo sviluppo della pandemia che si sono rivelate sostanzialmente corrette; lo stesso si può dire delle analisi che sono state realizzate da un fisico come Parisi o per i lavori di tanti statistici o ingegneri che meglio hanno saputo analizzare lo sviluppo del contagio o mezzi concreti per rallentarne la diffusione.  Zangrillo e Bassetti sicuramente hanno studiato tanto la propria materia, ed in altri contesti saranno sicuramenti più competenti di Crisanti e degli altri esempi citati, ma non è vantando titoli di studi che possono pretendere di essere considerati competenti: ad oggi non hanno mostrato di saper adoperare le proprie conoscenze per capire la pandemia, ergo, non sono competenti; ciò non vuol dire che non possano essere considerati competenti in futuro, ma questo dipenderà da come adopereranno i propri saperi e le proprie abilità, non dal numero di saperi e abilità che possono vantare di possedere come delle medaglie.

Uguale ragionamento si potrebbe intavolare per quanto riguarda il conflitto in Ucraina: ha titolo a parlare del conflitto come competente in primis chi conosce la questione, non conta tanto come abbia acquisito i saperi per parlarne, ma come poi adoperi quei saperi per analizzare gli avvenimenti in campo. 

Ricapitolando: la competenza è sempre in contesto, plastica, mutevole, non si misura in una semplice somma di saperi e abilità, ma è data dall'uso concreto di saperi formali e informali, assieme ad abilità individuali, per risolvere un problema concreto. La competenza non è data dai titoli, ma dipende dai saperi: è indubbio che più so più è probabile che io sia competente, ma questo non è un automatismo. Ne consegue anche altro: se è tutto sommato semplice misurare il possesso di conoscenze, dovrebbe essere altrettanto chiaro che valutare il possesso di competenze è molto molto più complesso, di certo non si può valutare la competenza attraverso batterie di test a risposta chiusa. Quindi, no, le INVALSI non misurano competenze, rassegnatevi.

giovedì 23 giugno 2022

La prima prova dell'Esame di Stato del 2022 è da bocciare?



Ormai svolta la prima prova dell'Esame di Stato 2022, non ci resta che giudicarne il valore. La prova prevedeva, per gli alunni del quinto anno delle scuole superioriori, la possibilità di scegliere fra sette tracce: le prime due sotto la forma di analisi e interpretazione di testi appartenenti alla tradizione letteraria italiana; tre tracce di analisi e produzione di testi argomentativi; due tracce di produzione di testi espositivi-argomentativi. Prima osservazione: è uscita di scena definitivamente la traccia atta a dimostrare le conoscenze storiche.

Le tracce 

Guardando le tracce, anche solo ad una prima occhiata, sono evidenti dei problemi.

Le prime due tracce, quelle di analisi del testo, riguardano opere e autori ottocenteschi, per quanto fondamentali, ovvero Pascoli e Verga. Qui occorre chiarire una questione: l'alunno dovrebbe essere in grado, in quinta superiore, di analizzare qualsiasi tipo di testo, dal menù del ristorante ad un saggio scientifico di media difficoltà, passando per testi letterari di qualsiasi epoca (in lingua italiana, ovviamente); però da anni ormai le raccomandazioni ministeriali pressano scuole ed insegnanti alla valorizzazione della letteratura del XX secolo, per cui non è infrequente che gli ultimi autori del XIX secolo siano trattati rapidamente all'inizio dell'anno, se non addirittura sul finale della quarta superiore, per lasciare più spazio possibile al secolo successivo. E qui casca il primo asino: da un lato diciamo agli studenti, in maniera più o meno formalizzata, di concentrarsi su una parte del programma, e poi, tutte e due le tracce inerenti l'analisi del testo, riguardano la parte che lo stesso ministero invita a trattare con minore approfondimento. Si aggiunga questo un altro problema: la traccia su Nedda di Verga mostra scarso aggiornamento critico da parte di chi ha formulato le domande guida per l'analisi (come sottolineato su Letteraturaenoi), sottintendendo che Nedda sia la prima opera verista di Verga, mentre la critica più recente (e tutti i libri di testo da almeno vent'anni) la considerano opera tardo romantica, mancante proprio degli aspetti che caratterizzano il Verismo.

Insomma, prime due tracce, bocciate.

Veniamo alle tracce di analisi e produzione di testi argomentativi.

Ennesimo, enorme problema: il brano riportato in traccia di Gherardo Colombo e Liliana Segre, per quanto toccante e significativo, non è un testo argomentativo (e qui casca l'ennesimo asino, la scarsa chiarezza su cosa il ministero intenda per testo argomentativo e la discrepanza rispetto a cosa linguisticamente e filosoficamente si intenda per testo argomentativo e argomentazione). Il brano riportato semmai è un testo espositivo, in cui emerge semmai una riflessione personale nell'ultima sezione, culminante nella metafora del gioco del bambino invisibile; ma confondere una riflessione personale con un testo argomentativo in senso stretto è un errore da principianti. Ne consegue che uno studente che analizza il testo, e che sa che avendo selezionato la tipologia B dovrebbe stare ad analizzare un testo argomentativo, è portato a cercare una tesi e delle argomentazioni che, semplicemente, lì non ci sono. A questo punto si immaginino le banalità e le stupidaggini che uno studente, già sotto pressione, può aver prodotto messo di fronte ad unna scelta del genere.

Traccia bocciata

Meglio, per fortuna, le altre due tracce sul testo argomentativo, ovvero quella che parte da un brano del musicologo Oliver Sacks e quella che parte da un discorso di Giorgio Parisi: è talmente evidente che in questo caso si tratti di testi argomentativi, che anche il lessico scelto nelle domande guida cambia, risultando molto più confacente alla tipologia testuale.

Infine veniamo alle tracce espositive-argoementative: la prima e la seconda traccia, quella tratta da un libro di Ferrajoli e quella trtta da un volume di Gheno e Mastroianni, risultano complessivamente attuali e confacenti alla tipologia testuale, tipologia però che rimane nell'alveo di un'ambiguità mai del tutto chiarita dalle linee guida ministeriali. Se il testo che gli studenti devono produrre è espositivo-argomentativo, ciò vuol dire che gli studenti devono essere in grado SIA di dire tutto quello che sanno sull'argomento in oggetto, SIA di formulare testi e argomentazioni sull'argomento, seguendo modalità e regole dell'argomentazione. Siamo sicuri che poi questo accada e venga valutato?

Veniamo al giudizio finale, e per farlo vediamo cosa gli studednti italiani hanno scelto.

Secondo ANSA uno studente su cinque (21,2%) ha preferito l'ultima traccia espositivo-argomentativa (Gheno - Mastroianni). Seguono con il 18% la prma traccia della tipologia B (Colombo - Segre), e con il 16,5% l'analisi del testo di Nedda. Ne consegue che quasi il 35% degli studenti italiani, in preda all'ansia e alla pressione, hanno scelto delle tracce tecnicamente scritte male o, peggio, sbagliate. A questi si aggiunga il 2,9% di studenti che ha provato ad analizzare il testo di Pascoli, per capire che quasi il 40% degli studenti italiani ha affrontato, e non per sua colpa, probabilmente male questa prima prova, perché portato dalle stesse tracce fornite dal ministero a scrivere cose scontate, banali o, semplicemente, sbagliate.

Certo, questi studenti avrebbero potuto provare le altre tracce, come fatto dal 60% degli studenti (Il 15,8% ha scelto il brano tratto da "Musicofilia" di Oliver Sacks, il 14% ha scelto la traccia tratta dal testo di Luigi Ferrajoli, il  restante 11,6% ha scelto quella sul discorso di Giorgio Parisi). Però, allora, che senso ha avuto fornire quelle possibilità, se da strumenti per provarsi in qualcosa di sensato hanno rischiato di divenire prova di insensatezza?.

mercoledì 22 giugno 2022

Una riflessione su "La notte della scuola" di Roberto Maragliano




Leggendo l'articolo La notte della scuola, pubblicato su Doppiozero, mi  sono venute in mente alcune riflessioni, frutto anche della condivisione e della discussione con alcuni colleghi.

Mi sembra che Maragliano parta da alcuni punti fondamentali: la scuola post covid e immersa nella guerra è costretta a prendere atto di alcune considerazioni che, a dire la verità, appartengono alla riflessione filosofica e culturale già da almeno un cinquantennio. È  da notare che questa consapevolezza, parallelamente, secondo Maragliano dovrebbe sempre di più appartenere anche all'opinione pubblica. Maragliano cita ad uopo le considerazioni di Esposito su EditorialeDomani: il filosofo sostiene che, con lo scoppio della guerra, siamo entrati in una nuova fase per l'Occidente (e del resto è stato facile per tutti osservare in questi mesi come le previsioni di Fukuyama sulla cosiddetta fine della storia siano miseramente cadute); facendo la parafrasi di quanto sostenuto da Esposito, ed aggiungendo delle considerazioni personali, potremmo dire che sono avvenuti diversi avvicendamenti nella percezione del fluire dei fatti e dell'azione dell'uomo: dall'ottimistica fine della storia di Fukuyama eravamo già entrati in un'età caratterizzata da una permanente percezione della crisi (se volessimo dare dei numeri, forse potremmo datare questa percezione a partire dal 2001): crisi intesa come continua messa in discussione dell'ordine e conseguente reazione, in un rapporto dialettico costante che dal superamento della crisi genera una nuova crisi, a cui segue una nuova reazione, etc.. Da un meccanismo del genere, per quanto ondivago, si conferma tutto sommato però una percezione lineare del divenire, quella che già apparteneva alla teorizzazione di Fukuyama, fatta ora di rallentamenti e accelerazioni attraverso però una linea del tempo che rimane retta, tesa comunque ad un potenzialmente infinito progresso. Da una forma di neopositivismo liberista fondato su tecnologia e mercato ad un neoidelismo hegeliano, ancora però fondato sull'idea che mercato e tecnologia possano fornire gli strumenti per superare le crisi.  Tuttavia per Esposito oggi saremmo entrati in una nuova fase, che alla crisi sostituisce la percezione diffusa della catastrofe, ovvero di una situazione di messa in discussione dello status quo che, in linea di massima, non può che portare ad un esito infausto. È vero, come dice Esposito, che anche la parola catastrofe ha, etimologicamente, un significato non esclusivamente negativo: catastrofe in greco può significare il totale rovesciamento della situazione di partenza, ovvero l'espressione di un bisogno di radicale messa in discussione dello status quo. Catastrofe quindi non solo come epilogo tragico, ma come fase germinale per un nuovo inizio. 

Cosa c'entra tutto ciò con la scuola? Per Maragliano, e anche per me, c'entra. Quello che sta accadendo ha o dovrebbe avere una ripercussione sull'istruzione, nel metodo, ma anche nel merito: infatti per larga parte il sistema scolastico è rimasto ancorato ad una visione dell'apprendimento e delle discipline ottocentenschi o primo novecenteschi. Cosa vuol dire questo? Due cose, fondamentalmente: l'insegnante come colui che sa, l'apprendimento come pratica trasmissiva di infusione del sapere.

Cerchiamo di essere obiettivi: cambiamenti ce ne sono stati, soprattutto per quanto riguarda la seconda parte dell'asserzione precedente. Già da decenni la pedagogia cerca di mettere in discussione l'esculisività del modello trasmissivo nell'istruzione, proponendo pratiche esperenziali (si pensi alle scuole montessoriane) e laboratoriali, coinvolgendo le migliori conoscenze provenienti dalle neuroscienze per una conoscenza sempre più approfondita degli stili di apprendimento, delle pratiche e metodologie che possano facilitare l'acquisizione del sapere del discente.

Dove però si è rimasti incredibilmente indietro è sulla prima considerazione, quella sull'insegnante e sul suo status. L'insegnante è colui che sa, che conosce la propria disciplina, spesso assurge addirittura a figura di tuttologo. Basta sapere per insegnare, quante volte è stata espressa questa considerazione dagli insegnanti stessi dalla classe dirigente che ruota attorno e parla  di scuola? Ne conseguono rivendicazioni sullo status sociale, ormai decaduto, salariali, e di postura in aula. Potremmo dire che per molti colleghi il rifiuto delle pratiche laboratoriali in aula dipende da questa visione del proprio essere insegnante: io so, e gli alunni devono semplicemente assorbire il mio sapere, ascoltarmi, imitarmi, non c'è bisongo di altro.

In pratica, la seconda parte della asserzione di cui sopra dipende dalla prima.

Il problema è che l'età della catastrofe rimette in discussione questo statuto dell'insegnante. Dico rimette, perché che qualcuno sapesse, l'insegnante nello specifico, era una verità che già la cultura della seconda metà del Ventesimo secolo aveva messo in discussione. Secondo Maragliano il digitale ha costretto (sarebbe meglio dire, vorremmo che avesse costretto) gli insegnanti a mettere in discussione il paradigma che la conoscenza sia immutabile e acquisibile una volta per tutte. La Didattica a Distanza e l'obbligo ad adoperare strumenti digitali e, soprattutto, la rete internet hanno costretto gli insegnanti a svelare l'arcanum, ovvero che la conoscenza, in qualsiasi ambito o disciplina, è parziale, temporanea, convenzionale, sociale e sempre disponibile ad essere messa in discussione. L'insegnante quindi è colui che sa di non sapere. Dopo tutto questo giro di due millenni e mezzo, alla fine, torniamo a Socrate. Per Maragliano, come dicevo, questa scoperta sarebbe il frutto dell'introduzione del digitale nella scuola; per come la vedo io, il digitale ha fatto riscoprire qualcosa che il postmoderno come movimento culturale aveva già evidenziato: la conoscenza come costruzione labirintica, il sapere come rete senza un centro o un baricentro, la negazione della possibilità stessa di una verità che non sia frutto di convenzione e di interpretazione, l'impossibilità di conoscere i fatti in sé, ma la loro conoscenza solo come sistema di relazioni.

Mi pare quindi che Maragliano attribuisca alla tecnologia un merito che è, forse, più strutturato: la tecnologia, la rete internet (che infatti nasce nell'ambito delle teorie e viene immaginata a partire dagli spunti letterari del postmodernismo e del genere cyberpunk in particolare) hanno reso all'opinione pubblica quanto detto e scrittto dagli anni '60 dello scorso secolo: cose che già avevano dato propri frutti nella scuola (si pensi al movimento sessantottino), ma che l'ottimismo della "fine della storia" e del trionfo del liberalismo sembravano aver fatto dimenticare, salvo poi rimergere, come un movimento carsico a causa dell'improvvisa percezione della catastrofe.

Oggi come in passato sono osservabili resistenze, inviti al realismo, tentativi di ritorno all'ordine. Ma, come dice Esposito, la catastrofe richiede un rovesciamento del tavolo, se non vogliamo che prevalga la prima e più diffusa accezione del termine, quella dell'esito tragico.

L'assessora Donazzan

credit: elenadonazzan.it


L'assessora Donazzan è quella della settimana dello sport, che, come lei stessa ha dichiarato, serve a sospendere la didattica nelle scuole per fare un favore agli albergatori delle Dolomiti invogliando le famiglie a sfruttare quei giorni per la classica settimana bianca;

l'assessora Donazzan è quella dei libri della casa editrice di CasaPound distribuiti nelle scuole;

l'assessora Donazzan è quella delle ricostruzioni astoriche sulle foibe imposte alle scuole del Veneto per circolare;

l'assessora Donazzan è quella che si vanta del suo passato e presente fascista;

l'assessora Donazzan è quella della battaglia per lingua veneta come lingua di una minoranza da proteggere, resa obbligatoria come seconda lingua per chi lavora nel settore pubblico nel Veneto, in modo di impedire l'afflusso di insegnanti e funzionari da altre regioni d'Italia;

l'assessora Donazzan è quella che legittima e legalizza bullismo e transfobia nei confronti dei suoi docenti e degli studenti appartenenti, loro sì, a minoranze.

Per tutto ciò, cosa vi stupisce nell'atteggiamento e nelle parole che l'assessora Donazzan ha usato, usa e suerà in merito alla morte di Cloe Bianco?

martedì 7 giugno 2022

La profezia dell'armadillo, Zerocalcare


 Si chiama "profezia dell'armadillo" qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei secoli dei secoli. Amen.»

(La profezia dell'armadillo)

La profezia dell'armadillo è un libro a fumetti del fumettista Zerocalcare pubblicato in prima edizione nel 2011. L'opera in bianco e nero rievoca un lutto molto significativo per l'autore, la morte dell'amica e amore adolescenziale Camille: attraverso continue prolessi e analessi viaggiamo attraverso il tempo, rievocando l'epoca in cui Zero e Camille si sono frequentati senza che mai il loro amore possa sbocciare davvero, fino ad arrivare al presente, alla notizia della morte della ragazza e alle delusioni della vita adulta del ragazzo. Accanto al protagonista ruotano altri personaggi, anche loro in bilico tra l'adolescenza e la maturità, Secco, Greta, e poi gli animali antropomorfi e simbolici del bestiario di Zerocalcalre, la mamma chioccia, la coscienza che assume la forma dell'armadillo, etc.

Proprio l'armadillo accompagna le riflessioni e le decisioni di Zero, il continuo rinviare, la convinzione che il prendere tempo sia la strategia vincente per evitare sicuri fallimenti o le batoste che la vita ha in serbo, fino alla scoperta che proprio il prendere tempo è la causa dello svanire dell'unica possibilità di felicità con Camille.

Quella di Zerocalcare, fatta attraverso microstorie di poche pagine, è una disillusa analisi della vita di un giovane della piccola borghesia di provincia (perché abitare a Rebibbia è, per Zerocalcare, l'equivalente dell'abitare in un piccolo centro lontano dal cuore di Roma), a ridosso del passaggio al Ventunesimo secolo: disillusione, precariato, inflazione culturale, le speranze dovute alla globalizzazione e alla rete internet, la sotterranea e silenziosa paura del futuro che balena (e che si esprimerà con chiarezza anni dopo). E intorno Roma e la romanità, i suoi centri sociali, i suoi luoghi di ritrovo e i suoi modi di dire e pensare.

L'opera è una lettura consigliata per chi voglia conoscere moderni schemi narrativi che vadano oltre la classica letteratura, affacciandosi sulla letteratura a fumetti, che nelle sue pagine più alte non ha nulla da invidiare alla letteratura tradizionale. 

giovedì 2 giugno 2022

Musk è un imprenditore del XIX secolo

 Elon Musk: da alcuni venerato, da altri temuto. Più probabilmente frainteso.

L'ultima uscita di Musk contro lo smartworking è solo l'ennesima conferma rispetto a quanto serpeggia nella mente di molti.

“Chiunque desideri lavorare da remoto, deve essere in ufficio per un minimo (e intendo *minimo*) di 40 ore a settimana o lasciare Tesla”,"




Infatti negli ultimi anni Musk se ne è uscito sempre più frequentemente con posizioni che ne hanno radicalmente mutato il profilo pubblico. Se per anni Musk è apparso quale l'innovatore tecnico che realmente è, a questa immagine è stata, probabilmente a sproposito, associata l'idea del Musk progressista. La realtà dei fatti pare invece dire altro.

È infatti di pochi giorni fa l'attacco alla celebrazione del mese dell'orgoglio LGBTQ


che segue l'attacco a Netflix per i suoi contenuti, giudicati eccessivamente di sinistra (con un termine che nel vocabolario dell'estrema destra americana risulta particolarlmente spregiativo, "woke"). Del resto è nota l'avversione di Musk per la cultura liberale e inclusiva, nonché per la pratica di un uso politicamente corretto della lingua.

Che Elon Musk abbia un'alta opinione di sé è cosa ovvia: basti pensare a come dispensa consigli a governi e a popolazioni intere, come la raccomandazione data agli italiani a fare più figli, la sua pretesa di risolvere il problema dell'inquinamento o di essere l'unico ad aver capito come vada difesa la libertà d'opinione. Il problema è che ad ogni posizione espressa da Musk corrisponde la difesa di un privilegio.

Per esempio, la giusta ambizione a sostituire i mezzi di trasporto a combustibili fossili con sistemi a motore elettrico, si accompagna alla pretesa necessità di eliminare il trasporto pubblico: bus, metropolitane, tram, sono dei pesi, dei fardelli per Musk, ed il motivo è evidente: limitano le vendite delle sue auto e quindi la possibilità di fare businness. 

La libertà di parola che Musk difende è la libertà di parola di chi si vede oggi contestati i privilegi e non tiene minimamente in conto di chi correrebbe più rischi dall'azione dell'imprenditore, ovvero le comunità intrinsecamente deboli e scarsamente difese. Non per niente l'acquisizione di Twitter da parte di Musk riceve il plauso di Donald Trump e dei gruppi di destra o estrema destra americani, mentre è temuta dai gruppi più marginalizzati e, se privi di difesa, privi anche di una voce pubblica, come le minoranze etniche, religiose, politiche o di orientamento sessuale. La libertà di parola che Musk difende è la libertà del forte di sbraitare contro il debole. Tra l'altro, dando in mano all'uomo più ricco al mondo, e a chi lo sostiene politicamente, i dati e la privacy di una platea di utenti enorme.

Ma che Musk abbia negli ultimi anni sempre più avvicinato le proprie posizioni a quelle del partito repubblicano a guida Trump è evidente osservando i comportamenti tenuti da Testla e dal suo ceo nel bel mezzo dell'epidemia da Covid19. Musk, critico nei confronti delle politiche messe in atto per contrastare la diffusione della pandemia, ha ricalcato sulla questione le peggiori fake news diffuse da Donald Trump e dal partito repubblicano; l'imprenditore ha apertamente contestato e violato le restrizioni all'apertura delle fabbriche di beni non essenziali o limitatamente essenziali, minacciando prima, e realizzandolo poi, lo spostamento della sede dell'unica fabbrica americana di Tesla dalla California (stato a guida democratica) verso il Texas (stato a guida repubblicana), in barba alla crescente all'epoca preoccupazione per il diffuso contagio. Ma che per Musk la produzione venga prima delle condizioni di sicurezza dei propri dipendenti risulta evidente dalla violazione del lockdown imposto dalla Cina a Shangai per l'insorgenza di nuovi focolai di Covid: in questo caso Musk ha sostanzialmente costretto i propri dipendenti a risiedere in fabbrica pur di non sospendere le attività produttive.

Questa visione della politica di Musk si traduce, nell'ultimo anno, in una serie di tweet molto controversi.  Ad aprile l'uomo più ricco del mondo ha aperto le danze con un meme decisamente contestabile che, secondo lui, dovrebbe spiegare lo spostamento a sinistra del partito democratico.


Tuttavia, come notato da molti osservatori, quanto sostiene da Musk (e immeditamante ripreso da tanti suoi adoratori, ad esempio in Italia Matteo Renzi) è semplicemente scorretto nel metodo e nel merito.

Anche al netto dell’iperbole ricercata per ottenere l’effetto comico, la vignetta condivisa da Musk è «semplicemente sbagliata» nella sua comprensione di come gli Stati Uniti siano cambiati negli ultimi anni, ha scritto il giornalista Philip Bump sul Washington Post. Se si tiene conto di alcuni indicatori che prendono in considerazione gli orientamenti delle persone scelte durante le riunioni dei dirigenti dei partiti (i caucus) e poi elette al Congresso, ha scritto Bump, la realtà è abbastanza chiaramente l’opposto di quanto presentato nella vignetta di Musk. I maggiori cambiamenti hanno interessato il Senato, dove dall’inizio del 2009 sono stati eletti tra i Repubblicani senatori mediamente più conservatori, più di quanto dalla parte opposta fossero progressisti i senatori Democratici.

A questo tweet è poi seguito la dichiarazione di voto di Musk (nel bel mezzo della comrpaventita di Twitter).


 Torniamo però al punto di partenza del post: Musk contro lo smartworking. Nel suo attacco al lavoro da remoto Musk intraprende una via decisamente diversa rispetto ad altre grandi compagnie americane, giustificando la scelta con la premessa - più un postulato non dimostrato che una verità - che solo Tesla fra le grandi aziende stia producendo reale innovazione, e che l'innovazione non si realizza con "sole" 40 ore di lavoro a settimana. Ora, che tutto questo sia un discorso fortemente ideologizzato, non necessità neanche di dimostrazione. Ma c'è un di più: sostanzialmente Musk fonda il suo attacco allo smartworking sull'idea che questa pratica induca a battere la fiacca. Eppure negli ultimi due anni la crescita di Tesla, sia nella produzione che nel valore, è stata enorme. Una crescita impossibile se davvero, come si sostiene, in azienda si fosse battuta la fiacca. Forse occorrerebbe strappare il velo retorico che, come abbiamo osservato, spesso copre le azioni dell'imprenditore: a Elon Musk semplicemente non piacciono i diritti dei lavoratori (e i diritti delle minoranze in genere). Se i suoi manager, i  suoi creativi non avessero lavorato in smartworking, come si sostiene, Tesla non sarebbe diventata leader mondiale nel settore proprio nel periodo in cui più si è diffusa la pratica. Certo, i bene informati in realtà sostengono che l'avviso riguardi più i manager e i dirigenti di Twitter, quelli più contrari all'acquisizione, proprio perché Twitter aveva concesso al 100% lo smartworking: si tratterebbe quindi di un vero e proprio repulisti nell'azienda che più ha contestato il modello di libertà d'espressione e di businness di Musk (e che per questo lui acquisisce). Che il lavoratore in smartworking stia su YouTube anziché lavorare è un pregiudizio, che o viene provato o è diffamatorio.  Se Musk ha le prove che i suoi manager lo hanno "preso in giro", li deve licenziare, perché semplicemente il patto fiduciario non c'è più; se invece la produttività di Tesla non è calata, o addirittura è aumentata con lo smartworking, la sua richiesta dimostra che il patto fiduciario non c'è mai stato, che lui sta tracciando una linea netta tra il padrone e i dipendenti, tra chi decide e chi subisce le decisioni. Entrambe le strade comunque mostrano che quella del legame affettivo-fiduciario con l'azienda è più una forma di retorica aziendale che una realtà. Musk in realtà qui mescola il legittimo desiderio del datore di lavoro di creare profitto con le manie di controllo. Peggio, lo fa giocando su un non meglio spiegato senso di appartenenza (il patto fiduciario e sentimentale che, come dimostrato, in realtà serve a nascondere un patto fondato su termini contrattuali che o sono o non sono) che il lavoratore dovrebbe provare verso l'azienda. Sul senso di appartenenza, addirittura sulla gratitudine (gratitudine per cosa? Il lavoro non è grazia ricevuta, è un reciproco scambio di prestazioni e mezzi di lavoro: qui siamo ad una concezione seicentesca e preindustriale dei rapporti lavorativi) etc: queste sono strategie che hanno un solo obiettivo, legittimare retoricamente e in maniera emotiva le richieste del datore di lavoro (tipo il senso di appartenenza verso l'azienda e la gratitudine verso il megadirettore generale di Fantozzi), perché o al senso di appartenenza corrisponde una messa in comune degli utili e dei mezzi di produzione, o dal miglioramento delle prestazioni aziendali il datore di lavoro guadagna i profitti e il lavoratore guadagna pacche sulle spalle. Quando infatti si stabilisce un rapporto di lavoro il datore di lavoro patteggia una prestazione da una persona in base a competenze dichiarate e/o possedute. Anche perché, altrimenti, il discorso meritocratico tanto caro al liberismo verrebbe meno. L'appartenenza, il sentimento, queste sono strategie retoriche che non c'entrano davvero con quello che accade. (Questo non esclude che io possa o meno avere fiduca o stima per il mio datore di lavoro, così come possa disprezzarlo: il punto è che io lavoro per un datore di lavoro che mi mette in condizione di lavorare bene e guadagnare il dovuto, e il datore di lavoro dovrebbe giudicare il mio lavoro a prescindere da pregiudizzi). Certo è che l'imprenditore nel fare impresa rischia il proprio capitale, ma nel medesimo rappporto di lavoro il dipendente rischia la sua fonte di reddito, spesso l'unica in una famiglia, comunque rischia la fame.

La visione ch Musk ha del mondo è una visione elitista, come quando sostiene che università e scuole non servano e che basti cercare informazioni in rete, senza considerare la funzione sociale della scuola. Occorre essere chiari quando si parla dell'uomo più ricco al mondo come uno dei fari del progresso del pianeta: dalla vicinanza alle posizioni transumaniste, passando per la feroce critica dei diritti dei lavoratori e delle minoranze, Musk rappresenta un deciso passo indietro nel mondo dell'imprenditoria, ricordando piuttosto uno di quei ricchi imprenditori della fine del XIX secolo, appartenenti alle ricchissime famiglie che si spartivano l'attività industriale nell'Occidente e nelle colonie. Un uomo che confonde progresso e carità, elemosina con assistenza sociale, per il quale l'attività produttiva viene sempre e comunque prima dei suoi lavoratori, e per cui la critica alla propria visione del mondo è un pericolo all'unica libertà d'opinione e parola che gli interessi, la  sua.



The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....