mercoledì 29 dicembre 2021

Esercizi argomentativi su un "Quirinale e altro: sciogliere le Camere? Meglio di no" di Sabino Cassese

 In questi giorni ho letto sul Corriere un interessante articolo di Sabino Cassese, pubblicato il 27 dicembre 2021, con titolo Quirinale e altro: sciogliere le Camere? Meglio di no (LINK). L'articolo, oltre ad essere un'utile riflessione sulla necessità di eleggere un Presidente della Repubblica pro o contro lo scioglimento anticipato delle camere, permette l'esercizio di analisi argomentativa, chiarendo già dal titolo la propria tesi. Per questo, insieme ad un mio alunno, ci siamo esercitati nel ridurre a mappa argomentativa l'articolo e nel proporre la dimostrazione dell'antitesi.


Cassese sostanzialmente parte cercando di confutare l'antitesi: coloro che vorrebbero un Presidente della Repubblica disponibile a sciogliere le camere, adducono come ragione il cambiamento degli orientamenti elettorali, con esempi lampanti le proiezioni di voto di M5S, Forza Italia e Fratelli d'Italia. Proprio la volatilità dei sondaggi però è per Cassese l'arma per confutare questa argomentazione: non si può legare lo scioglimento delle camere al movimento dei sondaggi, ed esempio evidente è stato proprio il continuo movimento del consenso politico della Lega, intorno al 20% alle elezioni  del 2018, salito al 40 % nel 2019, per poi discendere nuovamente e tornare intorno al 20% oggi.

Per Cassese poi non è realistico che un quarto se non la metà dei grandi elettori, i quali perderanno il posto in Parlamento con lo scioglimento delle camere,  eleggano un Presidente della Repubblica che li mandi a casa. 

Infine Cassese dimostra la propria tesi. Per fare questo richiama l'enorme responsabilità che sta dietro il potere di scioglimento delle camere e, soprattutto, come dietro lo sfasamento nella duurata delle diverse cariche istituzionali stia il principio che nelle repubbliche moderne vuole evitare la cosiddetta dittatura della maggioranza. In pratica, se il Presidente della Repubblica sta in carica 7 anni, i giudici costituzionali 9, i parlamentari 5 è perché si vuole evitare la coincidenza delle elezioni e che una parte politica si trovi, in un certo momento, ad occupare tutte le istituzioni. Questo principio è applicato in tutte le repubbliche moderne, ed esempi di coabitazione di schieramenti politici diversi sono frequenti negli USA, in Francia ma anche in Italia.


A questo testo ci siamo divertitti, dicevamo, a proporre una contro dimostrazione dell'antitesi.


In questo caso la tesi è che sarebbe meglio eleggere un Presidente della Repubblica disponibile ad andare ad elezioni anticipate. Sicuramente i contrari a questa tesi obietterebbero che andare ad elezioni durante la quarta ondata della pandemia non sia auspicabile, eppure sicuramente non c'è motivo per limitare l'esercizio della democrazia se si prendono le opportune precauzioni, come del resto dimostrato dalle tornate elettorali locali in Italia, dalle elezioni in Francia e da quelle degli USA.

Riguardo allo sfasamento nella durata delle cariche istituzionali di cui parla Cassese, è vero che occorrerebbe evitare l'accorpamento delle elezioni, e tuttavia questo accorpamento non è vietato dalla Costituzione, e, in astratto, è persino previsto, dato che, almeno ogni 35 anni avverrebbe l'esatta coincidenza tra la fine del mandato dei parlamentari e quello del Presidente della Repubblica. E, come sappiamo, se qualcosa non è vietata, è lecita. 

Del resto, Cassese dice che non si può pensare ai sondaggi come ad uno strumento oggetttivo per valutare il cambiamento di opinione della popolazione; dice addirittura Cassese che la Costituzione stessa non è chiara su quando il Presidente della Repubblica possa decidere che questo cambiamento è evidente nella popolazione, tanto da decidere di sciogliere le camere. Tuttavia, viviamo in un'epoca eccezionale, in cui dalle'elezioni del 2018  ci separa un evento spartiacque, la diffusione della Covid-19, per cui occorrerebbe dare la possibilità quanto prima agli elettori di giudicare l'operato dei politici tramite le elezioni, per mettere in mano il governo del paese in questa situazione a chi loro giudicheranno essersi meglio comportato in questi primi due anni di gestione della pandemia.

sabato 18 dicembre 2021

L'Aleph, Jorge Luis Borges




 L'Aleph, di Jorge Luis Borges, è una raccolta di racconti, la cui lunga redazione, iniziata come pubblicazioni sparse su diverse riviste, passa per una prima edizione nel 1949, continua con diverse revisioni fino alla definitiva, del 1974.

In questa raccolta Borges affronta diversi temi, la morte e l'immortalità, il labirinto e la rete, l'infinito, la dottrina teologica. L'Aleph che dà il titolo all'opera e all'ultimo dei racconti è, per esempio, un punto, uno spazio fisico e temporale in cui si concentrano tutti gli altri punti nello spazio e nel tempo, ma che ha la capacità di mantenere separati i punti nella loro unione. Così, chi dovesse imbattersi nell'aleph potrebbe di colpo trovarsi di fronte a tutto il reale passato, presente e futuro, e discernerlo. 

Uno dei temi affrontati è quello dell'unità nella separazione, dell'unità duale: in I teologi il protagonista della vicenda, Aureliano, vive un'intensa rivalità con Giovanni di Pannonia, sapendolo più dotto e abile; finisce per causarne la condanna al rogo per eresia ma, quando anch'egli sarà defunto, scoprirà che per Dio non c'era differenza fra i due, tanto da considerarli un unico essere. Similmente il protagonista di Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, gaucho, brigante e infine poliziotto, trova il suo opposto ed eguale nel fuggitivo di cui va alla caccia, Martin Fierro, con cui infine solidarizza. In L'immortale Marco Flaminio Rufo, dopo lunga esplorazione, giunge al cospetto di una città attraversata da un fiume che rende immortali e circondata da selvaggi immortali; fra questi scopre Omero. Assieme ad Omero Rufo attraversa numerosi eventi storici, fino a scoprire un nuovo fiume che lo renderà, con sua gioia, nuovamente mortale. Solo dopo la sua morte scopriremo però che, forse Rufo e Omero sono la stessa persona.  

Ancora, viene affrontato il topos del labirinto, in questo caso nei racconti AsterioneAbenjacàn il Bojarí, ucciso nel suo labirinto. In entrambi i racconti il labirinto è luogo di detenzione o di autodetenzione, è trappola, luogo di morte, nel primo caso per il protagonista, il Minotauro, nel secondo caso per colui che entra nel labirinto pensando di essere il carnefice. Il tema tornerà ancora in I due re e i due labirinti.

In Emma Zunz e  Storia del guerriero e della prigioniera vediamo la realtà farsi una rete fitta di intrecci e nodi, intrecci e nodi a volte intessuti fino allo spasimo dai protagonisti stessi, come nel primo dei due racconti, lì dove la protagonista, per vendicare un torto subito dal padre, arriverà a farsi stuprare da uno sconosciuto per poter poi simulare lo stupro da parte dell'antico rivale paterno e ucciderlo; nel secondo racconto invece la casualità dei destini che si incrociano conducono un guerriero longobardo, Droctulft, e una prigioniera indiana ad abbracciare la causa altrui.

In Lo Ẓāhir e in L'Aleph, infine, compaiono i temi dell'ossessione e della follia: nel primo leggiamo di Borges stesso venuto in possesso di un oggetto banale, una moneta, che ne catalizzerà l'attenzione sino a condurlo ad una serena follia; nel secondo, di un minuscolo e folle scrittore che, volendone l'apprezzamento, conduce il protagonista del racconto a scoprire il suo segreto, un luogo, l'aleph, che contiene ogni altro luogo; e tuttavia non possiamo non chiederci se l'aleph sia vero o no, chi sia il folle fra il protagonista e il suo antagonista, o se non lo siano entrambi.

Come si vede, quindi, la realtà labirintica, misteriosa, metafisica è il nodo su cui si concentra la riflessione dell'autore. Ne emerge una rete di fitti rimandi intertestuali, di citazioni letterarie, di metanarrazione con vicende che ricorrono più volte nel corso dei racconti, personaggi che fanno riferimenti ad altri personaggi di altri racconti, labirinti che non sono mai lo stesso labirinto, realtà e finzione, storia e narrazione che si rincorrono. Borges è per questo uno dei più significativi scrittori del XX secolo, per la sua capacità di raccontare la complessità, di porre le basi per lo sperimentalismo postmoderno, per una narrazione che non conclude, ambigua, polimorfa.

mercoledì 8 dicembre 2021

Oreste dietro Amleto

Fra le questioni aperte legate alla figura di Shakespeare una fra le più interessanti è la domanda se l'autore inglese conoscesse o no il teatro greco, e, qualora lo conoscesse, se la frequentazione dei drammi greci fosse o no mediata da traduzioni latine.
All'interno della diatriba, altrettanto dibattuto è il debito di Shakespeare nei confronti dei tragediografi greci, Eschilo in particare, per la costruzione del personaggio di Amleto e della sua tragedia. È molto semplice, infatti, osservare le similitudini tra Amleto e Oreste: entrambi i personaggi sono figli di un padre, un re, ucciso con l'inganno, inganno ordito proprio dalla moglie del re e dal suo amante; Oreste e Amleto vengono informati dell'inganno da una visione ultraterrena, il primo avvisato da Apollo, il secondo dal fantasma del padre; entrambi i personaggi ottengono la vendetta con la morte dei traditori; entrambi i personaggi verranno comunque in qualche modo puniti per il loro gesto, Amleto con la morte, Oreste con la persecuzione delle Erinni, divinità ctonie vindici del sangue versato.

Fino a qui parrebbe che Shakespeare abbia plagiato il mito greco, ma in realtà, a partire probabilmente da un mitologema comune, le due storie hanno nei tragici greci e con il drammaturgo inglese sviluppi e significati diversi. 

Nella trilogia eschilea dedicata al mito degli atridi assistiamo allo sviluppo di un passaggio epocale nell'evoluzione della polis greca, attraverso la successione dei delitti di una faida familiare: la morte di Agamennone per mano di Egisto e Clitemnestra, e la successiva vendetta di Oreste, portano la vicenda alla risoluzione solamente tramite l'intervento esterno di Teseo, di Apollo e di Atena, che conducono il giudizio dell'assemblea di Atene sul diritto delle Erinni di perseguitare il il matricida Oreste. Oreste e Apollo sostengono il maggior diritto di Oreste a punire la madre traditrice, ritenendo più grave il tradimento di un patto fiduciario come il matrimonio rispetto al delitto di sangue: l'assemblea darà ragione ad Oreste e ad Apollo contro le Erinni, sancendo la vittoria del diritto comunitario sul diritto alla faida. In questo contesto, Oreste (e la sua amata sorella Elettra) appare una figura piatta e monodimensionale, privo di dubbi, terrorizzato non dalla gravità del suo reato, ma dallo stupore della successiva persecuzione. Oreste, che appare già come il giusto vindice del padre nell'Odissea, non prova rimorso uccidendo la madre e sviluppa il suo amore quasi incestuoso nei confronti della sorella Elettra e nell'amicizia fraterna di Pilade.

Amleto, dal canto suo, ricevuta l'epifania del fantasma del padre, è vinto dal dubbio; il principe di Danimarca cerca conferme, teme l'intervento del demonio (come le Erinni, la presenza ultraterrena dal mondo dei morti appare inquietante, mortifera, ingannevole), decidendo di fingersi pazzo per condurre la propria inchiesta. La follia di Amleto fornisce al personaggio più volte occasione di realizzare la propria vendetta, occasioni che però il protagonista del dramma non tramuta mai nell'atto che pure pare cercare. D'altro canto, la follia di Amleto distrugge l'amore per la donna amata Ofelia, più volte descritto come un amore fraterno, conducendo la donna ad una vera follia e alla morte. Nello sviluppo degli eventi, smascherati Gertrude e Claudio, rispettivamente moglie del re morto e madre di Amleto l'una, e amante della vedova, nonché fratello del defunto l'altro, Amleto viene sfidato a duello da Laerte, fratello di Ofelia, e nello scontro si realizza la vendetta: Gertrude, madre di Amleto, beve la coppa avvelenata dedicata al figlio, e Claudio muore della spada avvelenata che egli stesso aveva predisposto per il principe di Danimarca. Amleto stesso giunge alla morte, ferito dalla stessa spada, concedendo come lascito al nuovo sovrano Fortebraccio il consiglio dell'amico fraterno Orazio.
Se Oreste è piatto e monodimensionale, Amleto è sfaccettato, pluridimensionale, incoerente; se Oreste predispone la vendetta, Amleto pare evitarla, fino ad imbattercisi suo malgrado; se Oreste pare del tutto indifferente alla madre, Amleto pare strenuamente legato a Gertrude, tanto che si è potuto parlare di rapporto edipico e criptoincestiuoso tra i due; se Oreste è atterrito dalla persecuzione più che dal delitto, Amleto invece più volte si dichiara atterrito dal dubbio e dalla paura della sofferenza post-mortem, vittima dell'incapacità di decidere, del timore che conduce all'inazione. Se Oreste è l'eroe della certezza, Amleto è l'eroe del dubbio.

il ragionamento ondivago di Amleto nel monologo dell'atto III



Alcuni critici hanno evidenziato somiglianze tra l'Amleto di Shakespeare e l'Oreste di Euripide, ben piu problematico dell'eroe eschileo. Tuttavia, senza poter dimostrare la conoscenza del teatro greco da parte dell'autore inglese, sembra difficile poter andare oltre la semplice ipotesi di simili filiazioni. Più concretamente è possibile ipotizzare l'origine comune dei due miti, il mitologema dell'uccisione del vecchio re da parte di uno nuovo e più giovane, che lo spodesta facendosi sposo della vedova; il mitologema simboleggia la morte della vecchia stagione e il sopraggiungere della nuova. A partire da questo nucleo il teatro tragico greco ha sviluppato la vicenda di Agamennone e Oreste, piegandola all'interpretazione della propria realtà, quella della polis nel suo sviluppo (Eschilo), nelle sue contraddizioni e decadenza (Sofocle ed Euripide); dal canto suo Shakespeare reinterpreta il mitologema piegandolo alla descrizione della realtà problematica, priva di certezze, contraddittoria della società del XVII secolo. In un caso come nell'altro Oreste e Amleto si fanno portavoce dello spirito del proprio tempo, descrivendone a pieno virtù e vizi.

Per approfondire
Valentina Mancinelli, Oreste e Amleto: variazioni sul mito, Tesi di laurea in Storia dello Spettacolo nel Mondo Antico https://www.academia.edu/19357870/Oreste_e_Amleto_variazioni_sul_mito 

mercoledì 1 dicembre 2021

I danni della scuola del merito: un esempio

 Siamo in classe. Si interroga: chiedo se sono presenti volontar*; tutto tace. A questo punto, per non fare torto a nessun*, decidiamo di sorteggiare i numeri delle  persone che dovranno immolarsi per la classe. Usiamo un generatore casuale di liste.

Vengono fuori i numeri: fra di essi c'è anche un* alunn* con disturbi dell'apprendimento. *l* faccio presente che, se vuole, è prevista la possibilità di concordare le interrogazioni; se non se la sente, possiamo stabilire che  sarà interrogat* (tassativamente) la prossima volta.

Lo sguardo nei volti del resto della classe è inferocito:  DEVE essere interrogat*, e DEVE prendere tre. Il fatto che per *l* compagn* sia prevista NON la dispensa dall'interrogazione o la possibilità di domande semplificate, ma semplicemente la possibilità di stabilire quando essere valutat* (perché il funzionamento del suo cervello è un po' diverso da quello de* compagn* e per *l* compagn* fare le stesse cose richiede molta più fatica) per *l* altr* è una profonda ingiustizia.

L'alunn* si sente colpevole come come un assassin*: quell* che è e non ha scelto di essere per la classe è una colpa. Alla fine decide di non avvalersi di un suo diritto, prende un tre per la soddisfazione de* compagn*. L* invito a non farlo: non si cede sui propri diritti, ma ha paura di essere emarginat*. Giungiamo ad un compromesso per placare gli animi: prenderà quel voto, ma la prossima lezione l* sentirò e, qualsiasi voto prenderà, queello sarà il voto definitivo che sostituirà quello di oggi. Per la lasse giustizia è fatta: del resto, tutti sono stati trattati ugualmente, no?



No, non ho fatto giustizia, perché, come diceva Don Milani, se fai parti uguali tra diseguali stai facendo il gioco delle diseguaglianze. Non c'è uguaglianza senza equità.

Ma perché la classe ha reagito in quel modo?

Perché se educhi per anni gli studenti all'idea che la scuola prepari al lavoro, che fuori l'individuo viene prima della società, che i compagni saranno concorrenti; se educhi all'idea che "il merito" distingue i giusti dagli altri, se educhi all'idea che l'istruzione è un fatto privato, che concorre alla realizzazione della sola mia vita; se educhi all'idea che la società non è altro che una limitazione dell'individuo, che non si vince assieme perché si è cresciuti assieme, se fai tutto questo allora instilli nei ragazzi e nelle ragazze questo senso di "giustizia": abbiamo fatto parti uguali. Non ho dubbi che per loro oggi si sia fatta giustizia, perché loro istintivamente vogliono essere valutati secondo il merito; loro non sanno che quel merito che cercano è distorto, distopico, discrimina per ciò che si è, non per ciò che si fa; quello è il merito di cui sentono parlare ogni giorno dai media, su libri esecrabili, persino dagli insegnanti. Hanno vinto come individui, hanno perso come classe. 

mercoledì 17 novembre 2021

Due fallacie nella narrazione della pandemia


Quello che segue è solo un esercizio di logica, non vuole essere né una presa di posizione politica, né il tentativo di sembrare un autorevole fonte sulla pandemia. Detto questo:


  1. A Trieste i contagi sono saliti a causa delle manifestazioni.
    Questa è una tipica fallacia, chiamata Cum hoc ergo propter hoc. In pratica si mettono in relazioni eventi che, sì, sono avvenuti in sequenza, ma non è detto che abbiano un nesso causale. Nello specifico, andiamo a spiegare dove sta la fallacia. Se la connessione fra i due fatti fosse quella che immediatamente appare, ciò porterebbe ad una contraddizione, ovvero, sarebbe l'assembrarsi in sé ad aver causato la crescita dei contagi. Questo però contraddice quanto osserviamo in altre circostanze: ad esempio ogni settimana gli stadi si riempiono di quantita simili di persone, senza che questo comporti picchi nel numero dei contagiati.
    Tanto per capirci, qui il problema è che la connessione tra i fatti è sicuramente più complessa e articolata, e, a mio vedere, salta un punto fondamentale: il problema non è (solo) l'assembrarsi in sé, evento che sicuramente accresce la probabilità di crescita di contagi, ma pur essendo condizione necessaria, non è sufficiente. Il problema è chi si assembra e in quali condizioni, ovvero, persone plausibilmente novax o nogreenpass non soggette a controlli nell'atto di riunirsi. Perché è importante confutare questa fallacia? Perché il prenderla per buona può portare (o ha già portato?) a decisioni gravi e infondate, come per esempio il divieto assoluto di manifestazioni. Ripetiamo: il problema non è (solo) il riunirsi in manifestazioni, ma, soprattutto, in che condizioni e con quali controlli.
  2. L'accettazione del Green Pass come risposta alla pandemia condurrà ad una dittatura.
    Questa fallacia invece è nota come Fallacia del piano inclinato, e si può anche riassumere nella formula "dato A, non B perché Z". Che vuol dire? Vuol dire che di fronte ad una condizione A, la pandemia, chi si oppone a B, il Green Pass, ovvero un lasciapassare la cui correlazione logica come strumento di controllo del contagio è sufficientemente dimostrata, lo fa alimentando la paura di una ipotezi, Z, la dittatura, nei fatti lontana, non logicamente correlata con i fatti di cui realmente si discute. Fermiamoci a riflettere: ad oggi il Green Pass è uno strumento con cui le autorità o chi ne fa le veci può verificare se il cittadino risulti guarito, vaccinato o abbia comunque verificato la propria condizione di salute nelle 48 ore precedenti; lì dove non sussistano queste condizioni, viene limitata la mobilità del cittadino per tutelare la salute sua e quella degli altri, almeno fino a quando non venga ripristinata almeno una delle condizioni sopracitate; perciò la limitazione del diritto di mobilità è vincolata e temporanea, ragionevolmente giustificata in nome del diritto alla salute, del cittadino stesso e degli altri cittadini; una dittatura invece presuppone l'istituzione di un regime di limitazione permanente e ingiustificata se non dal mantemimento del potere del dittatore stesso non solo della mobilità, cosa che il Green Pass fa, ma anche della libertà di parola e pensiero, della libertà di associazione, nonché la scomparsa del diritto di voto; una dittatura presuppone la destituzione delle principali cariche politiche, la cancellazione della vita parlamentare se non dello stesso Parlamento; e questo ad una sola analisi sommaria. Insomma, analizzando i fatti vediamo che tra B e Z in realtà ce ne corre, e pure tanto. Anche in questo caso, perché è importante confutare questa fallacia? Perché su di essa si fonda tanta retorica nogreenpass, a partire per esempio da quella dei filosofi Cacciari, Agamben e Fusaro, che si pongono come voci autorevoli di un mondo confuso e indubbiamente spaventato, un mondo che va ricondotto alla calma e alla ragione.

domenica 14 novembre 2021

Un ragionamento sul linguaggio inclusivo, i tabù e le retrotopie

la Scevà

In questi giorni ho assegnato ai miei alunni lo svolgimento di un Debate in merito ad una delle istanze di cui più sentono parlare sui media di questi tempi, ovvero la necessità di introdurre nel linguaggio forme inclusive. Inaspettatamente, questo tema è stato quello su cui, da che insegno, ho trovato maggiore resistenza tra gli studenti. Mi è venuto quindi spontaneo cercare di riflettere sulle ragioni che stanno dietro queste resistenze, ragioni spesso indotte dal contesto familiare e sociale, dai media stessi, persino dalla scuola. Quello che segue chiaramente non sarà un discorso specialistico sulla questione: per questo tipo di letture esiste già un'amplissima bibiolgrafia. Semmai si tratta del piccolo contributo dalla prospettiva di un insegnante a confronto con i suoi studenti.

Resistenze

Le prime e immediate obiezioni che vengono poste a chi propone l'uso di un linguaggio inclusivo riguardano il fatto che questa sia in realtà una scelta censorea e snobbistica. In merito alla prima obiezione, si fa notare che per paradosso, la scelta di favorire un linguaggio inclusivo potrebbe portare alla limitazione della libertà d'espressione, per cui proprio le categorie e i gruppi sociali oppressi e discriminati si battono e si sono battuti nel tempo e nello spazio; del resto infatti, chi potrebbe decidere cosa sia inclusivo e cosa non lo sia? Tuttavia occorre subito sfatare un inganno linguistico: già oggi non esiste mai una massima libertà d'espressione, dato che a nessuno è concesso ingiuriare o discriminare attraverso le sue scelte linguistiche (o meglio, si può decidere di farlo, consapevoli però che successivamente si potrebbe dover dare conto della responsabilità di ciò che si è affermato); data questa limitazione già esistente alla libertà d'espressione, la vera questione diventa un'altra: chi debba scegliere cosa io sento discriminante o ingiurioso nei miei confronti? Del resto, la proposta di fornire forme linguisticamente inclusive non impone il loro uso, ma garantisce una maggiore libertà di scelta, perciò semmai appare censorea la decisione di non consentire questa maggiore libertà; infatti quando sono entrate nell'uso forme linguistiche "politicamente corrette", come "disabile" o "diversamente abile", queste non hanno impedito a chi volesse di utilizzare la precedente forma "handicappato", di fatti la parola "handicappato", così come "mongoloide" o altre simili, sono censurate quando vengono adoperate con chiaro intento diffamatorio o discriminatorio e, per quanto possano apparire sgradevoli, nessuna norma vieta di adoperarle in altri casi in cui contesto, interlocutore e mezzo lo consentano.
Riguardo all'accusa di snobbismo, questa viene normalmente confermata dal fatto che la proposta non verrebbe da un'esigenza avvertita dalla maggioranza del popolo, ma da una sparuta élite; tuttavia, come sappiamo, il criterio di maggioranza è solo un criterio di comodo, non un sistema decisionale che di per sé implichi l'aver ragione su qualcosa; anzi, nel caso specifico, proprio il fatto che "la maggioranza" composita non avverta l'esigenza del cambiamento può dimostrare che la questione riguardi l'atteggiamento nei confronti di minoranze che sono e che si vuole rimangano nell'ombra.
Ugualmente, chi parla di proposta snobbistica osserva che anche alcune associazioni che si battono contro le discriminazioni si dichiarano contrarie alle scelte linguisticamente inclusive; verrebbe da chiedersi se queste associazioni non temano di perdere alcune posizioni di rendita proprio a causa dell'estensione dei diritti, in una paradossale guerra dei penultimi contro gli ultimi; nondimeno per queste associazioni i problemi da risolvere riguardano le discriminazioni "de facto"; non quelle linguistiche, che starebbero su un secondo piano, o non esisterebbero. Però, a ben guardare, quando  le questioni da risolvere sono problemi complessi come quelli in esame risulta molto facile dire che "prima viene altro", un modo comodo per evitare di cominciare a risolvere i problemi stessi.

Obiezioni di merito

Su ben altro piano stanno le obiezioni di tipo linguistico: per autorevoli linguisti, compresa l'Accademia della Crusca, l'uso di un linguaggio inclusivo non è sempre compatibile con il nostro sistema linguistico; in particolare si fa riferimento alle proposte di adoperare segni come la "ə" (scevà), lo "*" (asterisco) o la "u" in sostituzione di alcune desinenze. Nello specifico, l'asterisco risulterebbe esclusivamente un segno scritto, non risolverebbe il problema del parlato e lascerebbe invariata la questione; d'altro canto fornirebbe comunque uno strumento linguistico di riconoscimento della pluralità di generi o meglio di riconoscimento di un genere neutro non binario, oggi assente nella lingua italiana scritta. Scevà, per alcuni di difficile pronuncia, comunque non apparterrebbe al sistema linguistico italiano; ma il fatto che il parlante non sappia di pronunciare scevà, non implica che questo suono già non appartenga a molte parlate regionali del sistema linguistico (napoletano, piemontese, etc); del resto la gran parte dei parlanti italiani non sa di pronunciare è aperta o é chiusa, ò aperta oppure ó chiusa, eppure lo fa. Anche per la "u" l'uso della desinenza non apparterrebbe al sistema linguistico italiano e risulterebbe astruso per i parlanti, e tuttavia la "u" desinenza in realtà già esiste in diverse parlate regionali del sistema, sebbene con altra funzione. In realtà la critica, come per scevà, pare presupporre che non possa avvenire l'interscambio di suoni e desinenze tra italiano standard e italiani regionali, ma l'italiano standard in realtà nasce proprio dal continuo interscambio nel tempo e nello spazio con le parlate regionali, in particolare quella milanese e quella romana, perciò questa pare più una obiezione conservatrice e immobilistica.
In ultimo la critica linguistica si sofferma sul fatto che occorrerebbe ripensare la morfologia di moltissimi nomi, verbi, pronomi e aggettivi della lingua italiana. Questa obiezione tuttavia non tiene in conto del fatto che naturalmente le lingue sviluppino variazioni diafasiche, diacroniche e diatopiche che sono, sempre, interscambiabili tra di loro, nel senso che non esiste una scelta migliore di per sé, ma sono cause esterne, come la frequenza d'uso e l'importanza del territorio di provenienza in quel preciso momento, l'autorevolezza di chi adopera quella forma, la sua esposizione mediatica a contare; perciò queste forme linguistiche sono interscambiali secondo la scelta e volontà dei parlanti e l'accettazione all'interno del contesto in cui il parlante si muove; in sostanza, introdurre le variazioni non vorrebbe dire scardinare il sistema, ma fornire la libertà di scelta al parlante in base al contesto, al luogo e all'interlocutore.

Tra uguaglianza ed equità

Stando a come la vedo io, favorire l'ingresso o l'uso di forme linguisticamente inclusive risponderebbe ad un'esigenza basilare del vivere collettivo: garantire a tutti un equo trattamento. Basta studiare la storia dell'uomo per sapere quanto sia importante il potere di dare un nome alle cose, di dare un nome alle persone. Dietro un nome, dietro una forma linguistica si staglia il potere di definire la realtà. Erano i maghi, i druidi, i bardi, gli aedi e i rapsodi, erano i poeti e i cantori, erano e sono i legislatori a definire la realtà nominandola; erano i sovrani a definire i loro sudditi conferendo o rifiutando loro titoli; è il sacerdote a stabilire il destino del fedele definendolo o no assolto dai suoi peccati; è il giudice a decidere dell'imputato nominandolo colpevole o innocente; tanta parte dell'opera di Pirandello verte sulla necessità e il desiderio di uscire dalle definizioni altrui appropriandosi della propria identità e del proprio nome; infine, ma non per importanza, il motivo per cui gli internati dei campi di concentramento venivano privati della propria identità era proprio la volontà di annullarne spirito e persona. Dietro la possibilità o no di dare un nome alle cose si nasconde quindi la definizione di rapporti di forza: si pensi a come la sparizione di alcune di forme linguistiche di cortesia, come il "voi" o, meno, il "lei" sottenda un rapporto via via più paritario fra le generazioni. Perciò oggi alcune categorie o gruppi sociali avvertono l'esigenza di essere definiti da termini o forme linguistiche scelte da loro, non imposte da altri. Questo non vuol dire richiedere la censura del linguaggio altrui, ma significa risolvere lo scarto tra uguaglianza ed equità; infatti non può esserci reale uguaglianza finché un gruppo dominante ha il potere e il diritto di scegliere come definire se stesso e al contempo scegliere la definizione degli altri gruppi: questo potere di definizione infatti regola, assieme ad altri fattori, il nostro vivere sociale, le possibilità che ci vengono fornite nella vita, i nostri stessi diritti.

Tra retrotopie e tabù

Da un altro punto di vista, favorire l'ingresso o l'uso di forme linguisticamente inclusive risponderebbe ad un'altra esigenza: favorire una diversa percezione della realtà. Basta fare un esempio banale che attiene al mondo dell'insegnamento: il cambiamento nella percezione degli studenti da parte degli insegnanti portato dall'ingresso nel linguaggio specifico di termini come DSA, BES, dislessia, disturbi dell'apprendimento, etc.. Infatti le neuroscienze sempre più chiaramente ci dimostrano come il nostro cervello conosca il mondo in maniera spaziale, quasi costruendo delle mappe delle connessioni tra le nozioni, e linguistica, traducendo in parole i concetti, per cui favorire l'ingresso e l'uso di forme linguisticamente inclusive permetterebbe la definizione di nuove percezioni della realtà.  Non per niente gli artefici della critica al linguaggio inclusivo sono spesso artefici di retrotopie, cultori del "si stava meglio quando si stava peggio", continuamente prodighi di lamentazioni sul genere "o tempora, o mores": per tornare all'esempio del mondo della scuola, è ancora diffusissimo, il rifiuto dei termini inerenti l'inclusione fra coloro i quali, di fronte ad un alunno con disturbi dell'apprendimento, rimpiangono il tempo in cui, semplicemente, lo potevano definire e pensare un cretino.
Altre volte la critica all'uso di forme inclusive del linguaggio nasconde la paura di dare un nome a ciò che spesso il perbenismo ritiene un tabù, qualcosa di innominabile o di acquisito nella cultura collettiva; le polemiche nascondono la volontà di non toccare quei tabù, di lasciare nell'oblio del non detto certi argomenti, perché si pensa che di essi si debba occupare lo spazio privato, quello della famiglia, non quello pubblico. E così in Italia la polemica sulle forme linguistiche inclusive scoppia, guarda caso, in merito all'identità di genere; nel mondo anglosassone la polemica riguarda le forme inclusive in merito al genere e alla razza.

In conclusione

In conclusione non mi sembra di poter dire che le obiezioni rivolte a chi appoggia l'uso di un linguaggio inclusivo siano solide. D'altro canto, mi pare che dietro le polemiche sul "cosa si può dire" e le accuse di censura linguistica si celi ben altra censura, quella sul cosa sia "lecito fare", se non di nascosto, nell'innominabile privato. 
Dall'altro lato si è visto come la richiesta di forme linguistiche inclusive, bollata come snob, sia criticata proprio da chi dello snobismo conservatore si fa portavoce, pur approfittando della confusione tra criterio di maggioranza e criterio di giustizia. Le stesse obiezioni linguistiche non appaiono poi così solide come il prestigio dell'accademia da cui provengono potrebbe farle apparire. 
Dall'altro lato invece, resta inconfutata la necessità, avvertita da minoranze non rappresentate, di accedere ad una reale uguaglianza dei diritti; uguaglianza impraticabile se non passa prima da forme di equita; la prima, quella in oggetto, evidente: la possibilità di scegliere come definirsi ed essere definiti, fornendo alla lingua nuove scelte, non imponendole per legge o per norma grammaticale, ma garantendo al cittadino e al parlante la facoltà di decidere, responsabilmente, come nominare la realtà che lo circonda.





domenica 31 ottobre 2021

Come sta andando a scuola?

Foto di Wokandapix da Pixabay 

 Siamo ormai quasi arrivati a metà del primo quadrimestre 2021 - 2022. Momento in cui si possono iniziare a fare alcune considerazioni. Come sta andando quindi quest'anno a scuola? Ovviamente parlo del mio piccolo punto di vista, sapendo bene che questo è parziale e statisticamente poco significativo. Tuttavia mi piace condividerlo come caso di studio.

Nell’attività didattica assistiamo ad un ritorno alle prassi consolidate. Del resto gli ultimi due anni avevano costretto noi docenti a diverse variazioni nel nostro modo di lavorare: in primis avevamo tutti sentito la necessità di una maggiore collaborazione tra colleghi, anche per non perdere la sensazione di vivere  delle relazioni sociali consolidate tra i corridoi, nelle aule, nei momenti di riposo o durante le riunioni pomeridiane; inoltre durante gli ultimi due anni avevamo dedicato le nostre forze a diverse sperimentazioni didattiche per rispondere alle diverse esigenze della DAD; infine, proprio l'esigenza di sperimentare aveva condotto molti fra di noi a mettere in discussione una didattica che puntasse solo alla trasmissione dei contenuti disciplinari, in favore di una didattica che potesse permettere lo sviluppo di competenze (non senza contraddizioni e incertezze, sia chiaro).

In questo nuovo anno scolastico invece assistiamo ad un ritorno alle prassi consolidate: l'interscambio di consigli e informazioni fra colleghi è paradossalmente ridotto al lumicino; non che non si parli tra di noi quando ci si incrocia tra i corridoi, semplicemente non si parla di didattica, come se le priorità fossero altre, meno professionali e più sociali, se volete; inoltre, evidentemente, dentro la propria comfort zone i docenti non sentono la necessità di confrontarsi con i colleghi. La parola competenze non circola se non come parola in codice tra iniziati di sette segrete; al contrario, tutti o quasi sembriamo tornati alla scuola dei contenuti. Di per sé questo non mi stupisce: la scuola è per sua natura luogo della conservazione, museo del sapere; ciò che si promette di trasmettere da secoli sono contenuti canonici e trazionali: canonici perché fondati su canoni artistici e letterari (finanche scientifici) consoidati e difficilmente smuovibili; tradizionali perché, a punto, spesso figli di tradizioni inveterate. Come luogo di conservazione la scuola è per antonomasia luogo di resistenza alle "mode": nel bene, in quanto luogo che si ripromette di valorizzare i saperi significativi nel tempo contro saperi transitori e consumistici (avete presente la polemica sul perché parlare del vassallaggio anziché di come usare Excel, mettendo in contrapposizione una struttura sociale ricorsiva e perdurata per millenni in società anche molto diverse tra di loro con l'uso di un software che, come spesso capita nel settore, potrebbe essere caduto in disuso in quinta superiore per uno studente che ne avesse iniziato lo studio in prima superiore?). La resistenza della scuola alle mode si realizza però anche in maniera regressiva: nella valorizzazione di modelli classisti (come quelli proposti da Mastrocola e Ricolfi; nella ipersemplificazione tradizionalista del dibattito sui saperi e la loro trasimissione, classificando come moda profondi ripensamenti epistemiologici e metodologici.

Questa tendenza alla restaurazione si realizza, concretamente, nel ritorno alle lezioni tradizionali, per capirci, quelle frontali, docente alla cattedra, alunni immobili al banco. Tutto ciò ha ulteriori spiegazioni: la stanchezza accumulata in due anni di DAD, assieme alla paura di tornare a distanza, suggerisce di risparmiare le forze mentali; le stesse norme anticovid di fatto conducono a questo modello di insegnamento, limitando le attività laboratoriali o di gruppo in aula; ancora, la martellante propaganda anti DAD, la polemica sui spaeri perduti in due anni di insegnamento a distanza, i dati più o meno randomici sparati sugli esiti della DAD spingono a tornare a ciò che si è sempre fatto, senza per altro mettere in discussione obiettivi, metodi e risultati storici della didattica tradizionale (una dicussione che già emergeva con estrema difficoltà prima della pandemia).

Ne emerge una certa incapacità di ripensare la scuola: anche nella migliore delle ipotesi, oggi l'istituzione è ad andar bene luogo della simulazione; la trasmissione dei contenuti e la realizzazione di laboratori hanno come obiettivo la ripetizione e l'assimilazione di quanto scoperto e prodotto in altra sede da altri. Sembra impossibile pensare alla scuola come essa stessa luogo di produzione di sapere, luogo in cui la trasmissione dei contenuti e la realizzazione di laboratori didattici abbia come obiettivo produrre nuovo sapere, teorico o pratico, e ricerca scientifica. Eppure forse proprio questo passaggio, questa rivoluzione, potrebbe costringere ad un ripensamento generale del nostro stare in classe, dello stare con gli alunni, dello stesso stare in aula dei discenti, non più solo oggetti della nostra azione di insegnanti, ma essi stessi soggetti nella produzione di senso.




giovedì 28 ottobre 2021

Del DDLZan, di Renzi e della verità che non sta nel mezzo


Dice Renzi che sul DDLZan occorreva mediare, che ci si è arroccati su posizioni ideologiche. In fondo, suggerisce Renzi, in medio stat virtus.

Ecco, che in medio stat virtus, come regola logica, è una fandonia, una fallacia. A volte, forse, ma a volte hanno ragione gli estremi.

Partiamo da un fatto: abbiamo deciso, in Occidente, da almeno due secoli e rotti che il fondamento della nostra vita sociale sia il riconoscimento dei diritti inalienabili, che come tali definiamo "umani" (non "naturali", perché tra "umano" e "naturale" passa un mondo concettuale). Abbiamo anche stabilito che in alcuni casi ben precisi e in via temporanea si possa persino derogare a quest'obbligo di tutela, in tutto o in parte, ma proprio l'eccezionalità della possibilità di deroga conferma quanto questi diritti siano per noi fondamentali.

Uno dei diritti umani è la possibilità per l'uomo di realizzare pienamente se stesso; un altro è il diritto alla propria libertà; un altro è il diritto alla propria salute.

Era in discussione un DDL che intendeva tutelare questi diritti, la possibilità di difenderli, di parlare di sessualità e diversità senza dover ricadere sempre sotto il dogma della Chiesa cattolica, anche e soprattutto nelle scuole pubbliche, che dovrebbero essere laiche come laico dovrebbe essere lo Stato.

Ora, dice Renzi che occorreva mediare: stralciare dal DDL ogni riferimento all'identità di genere e alla possibilità di discutere di queste tematiche a scuola. La domanda è: perché? Perché a scuola non dovrei discutere di un argomento ampiamente studiato e sondato dalla psicologia e dalle altre scienze sociali? Per lo stesso motivo per cui a scuola non si può parlare dell'omosessualità repressa di Pascoli o degli amori omosessuali di Leopardi? Perché lo ha chiesto il Vaticano? E da quando il Vaticano può dire allo Stato italiano cosa può e non può insegnare nelle scuole italiane? Da quando in questo paese il pensiero magico e religioso, folklore e superstizione trovano consenso e supporto da parte di forze politiche che si dichiarano progressiste?

Caro senatore Renzi, in questo caso la verità non stava nel mezzo, nel mezzo stava solo il calcolo politico, arte di cui lei è maestro.

domenica 26 settembre 2021

Eneide, Publio Virgilio Marone

Giorces, CC BY 2.5 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.5>, via Wikimedia Commons

Ci sono volte in cui un autore è fin troppo critico nei confronti della propria opera; ci sono altre volte in cui, invece, il miglior lettore ed interprete della creazione artistica è proprio il suo autore. Nel caso dell'Eneide è noto che Publio Virgilio Marone avesse ordinato la distruzione del manoscritto dell'opera prima della sua morte, ordine contraddetto da Mecenate e i suoi. E così l'Eneide ha visto, dalla sua pubblicazione, una diffusione enorme ed un successo pressoché universale, anche se spesso sono stati evidenziati i limiti dell'opera. Limiti evidenti, del resto, tanto che in ogni lettore che si sia apprestato alla lettura dei 12 libri che compongono il capolavoro virgiliano sorge naturalmente il dubbio: l'Eneide è un capolavoro della forma poetica o un fallimento del racconto epico?

I meriti dell'opera: malgrado l'opera manchi di una revisione, la tecnica dell'autore cesella versi che restano memorabili nel tempo; alcuni personaggi assurgono ai vertici della storia della letteratura, due su tutti, Didone e Turno.

Difetti evidenti: Virgilio manca di spirito epico, è evidente, e anche la narrazione in generale vivedi alti e bassi. Per essere chiari, Virgilio proprio non sa scrivere il genere; lì dove riesce meglio, lo fa imitando spudoratamente Omero; dove invece l'opera brilla di luce propria, lo fa perché prevale lo spirito lirico del poeta. Tanto Virgilio maneggia poco il genere che il suo protagonista risulta piatto, monocorde, noioso: verrebbe da chiedersi se, con Enea, Virgilio avesse davvero intenzione di celebrare la dinastia giulia. Non per niente si finisce per avere in simpatia Turno più di Enea: entrambi sono vittime del volere delle divinità, ma mentre Turno almeno giungerà alla consapevolezza dei propri eccessi, non così Enea. Enea è immobile: Achille, che è l'incarnazione della guerra, giunge alla fine alla simpatia per il nemico e alla consapevolezza dell'ineluttabilità della morte; il pio Enea non vive maturazione alcuna, mostra la propria pietas unicamente nell'accettazione acritica e anaffettiva della volontà divina, della fortuna, non mostra nessuna grandezza, né epica né tragica.

Alla luce di tutto questo, l'Eneide è o no un capolavoro? Dipende da cosa si voglia leggere: se si cerca un poema che ceselli il verso, che affondi nella lirica, sì; se si voglia leggere un poema epico che possa reggere il confronto con i capolavori omerici, onestamente, no, l'Eneide non regge il confronto, finendo per confermare le ragioni di Virgilio che ne voleva la distruzione.

domenica 12 settembre 2021

Barbero, i distinguo e le polemiche

foto: Wikipedia

Di recente si è molto parlato di Alessandro Barbero, dapprima per il suo sostegno a Tomaso Montanari e alle sue posizioni sull'uso distorto e politicizzato della questione delle Foibe, poi per la sua adesione ad un manifesto contro l'obbligo di possesso del green pass per il personale universitario e gli studenti. Questa adesione ha fatto parlare di un Barbero novax, posizione che il professore ha prontamente smentito; il professore ha chiarito che semmai vorrebbe un'assunzione di responsabilità della classe dirigente: anziché creare la situazione paradossale di un green pass che da un lato non è obbligatorio ma che dall'altro limita il diritto allo studio, ci si assuma l'onere e l'onore dell'obbligo vaccinale (legittimo secondo costituzione e norme vigenti) che, imponendo il vaccino a tutti coloro che sono in grado di sostenere la vaccinazione, eliminerebbe la discriminazione di fatto fra gli studenti. Tuttavia il testo dell'appello non accenna mai alla necessità di un obbligo vaccinale, è questo il vero problema della posizione di Barbero.  La sua è una posizione coerente con le recenti critiche alla classe dirigente italiana (vedi di nuovo il sostegno a Montanari sulla questione Foibe). Una posizione sensata ma che in realtà non è quella dell'appello che Barbero ha firmato. Firmando questo manifesto, Barbero si è messo dalla stessa parte di chi, come Fusaro, nega sia la necessità del green pass sia la necessità della vaccinazione. Certo, la sua è una posizione ben più complessa, ma la comunicazione della complessità non è del nostro tempo.
In secondo luogo, come dicevamo, la critica recente di Barbero verte sul tentativo di normalizzazione della destra fascista ed ex fascista da parte della classe dirigente: secondo il professore le ricostruzioni forzate e manchevoli storicamente dei fatti al confine orientale tra il 1943 e il 45/6, come il cerchiobottismo sulla vaccinazione anticovid, hanno come compito quello di rendere normali e accettabili le posizioni della destra e dell'estrema destra italiana, con il bene placito della classe dirigente altoborgese; proprio questa critica del professore l'ha messo nel mirino di quella borghesia che, nel nostro paese, gestisce la comunicazione sulla carta stampata; non per niente gli attacchi sono arrivati non solo, prevedibilmente, dai giornali di partito di destra, ma anche da Corriere, Stampa e Repubblica; tutti gli attacchi però sono stati caratterizzati dalla semplificazione estrema delle posizioni del professore, preferendo l'attacco alla persona alla confutazione delle sue tesi. In questo la critica a Barbero si è distinta nettamente dalle critiche recenti a Cacciari e ad Agamben: i due filosofi sono stati confutati nel merito, Barbero dileggiato moralmente.
In conclusione: Barbero ha espresso una tesi condivisibile, commettendo probabilmente un errore di metodo (e tra l'altro non è la prima volta che appone la sua firma su un appello controverso); la sua tesi è coerente con quanto Barbero ha di recente detto sulla classe dirigente italiana; la classe dirigente italiana ha deciso di non confutare le tesi del professore, ma di attaccare la persona, screditarlo e metterne in discussione lo spessore morale. Questa, più o meno, la storia di una polemica dei primi di settembre nel nostro paese.

venerdì 6 agosto 2021

Borgen - il potere, o quando vorresti scrivere come Sorkin ma non lo sai fare

Borgen - il potere è una serie televisiva danese andata in onda tra il 2010 e il 2013. La serie racconta le vicende di una politica locale, Birgitte Nyborg, giunta brillantemente ma quasi inaspettatamente ai vertici della politica nazionale e arrivata a ricoprire il ruolo di primo ministro a capo di un governo di coalizione. La serie si dipana tra scandali, pettegolezzi, le vicende personali dei protagonisti, Birgitte Nyborg, la sua famiglia, il consigliere personale Phillip Christensen e la giornalista Katrine Fønsmark, e poca, pochissima politica. Si tratta quindi, almeno in teoria, di una serie abbastanza corale, anche se è indubbio chi sia la protagonista.

Per molti, moltissimi aspetti Borgen si ispira a The West Wing  di Aaron Sorkin, tuttavia, ad un confronto, la serie danese esce impietosamente massacrata.

Lo sviluppo della trama manca del brio della controparte americana: i personaggi sono talmente coinvolti nelle proprie vicende personali che la cosa più importante della vicenda, ciò che dovrebbe essere il fulcro della storia, cioè l'esercizio del potere passa quasi in secondo piano. L'azione è statica, come i dialoghi, del tutto assente il walk and talk che, nella serie americana, permetteva di rendere dinamici i dialoghi.

Come si diceva, la vera delusione della serie è la mancanza assoluta della politica. Nessun approfondimento dei temi, nessun confronto sulle diverse visioni del mondo, sulle differenze reali tra conservatorismo e progressismo, sull'ambientalismo, sul concetto di identità, sul terrorismo e sulle sue ragioni, più o meno distorte; persino la politica europea viene lasciata in secondo piano e raccontata come un fastidio e un luogo in cui scaricare i concorrenti indesiderati. Tutto si riduce a scandalo e ripicca. Non per niente le puntate più riuscite sono quelle in cui è più plateale l'ispirazione dalla serie di Sorkin: quelle in cui il primo ministro abbandona temporaneamente il suo incarico per occuarsi della salute della figlia e quelle in cui la Nyborg riesce nell'impresa di condurre trattative di pace fra due stati belligeranti: esatto corrispettivo delle puntate di West Wing in cui il presidente Josiah Bartlet si ritira temporaneamente per occuparsi della figlia scampata ad un rapimento, o di quelle in cui riesce a condurre in porto le trattative di pace tra israeliani e palestinesi. (In Borgen, queste ultime sono tra l'altro le puntate migliori in assoluto, proprio perché corali e dinamiche).

La figura di Katrine Fønsmark poi sbiadisce a confronto dei giornalisti di The Newsroom, sempre di Sorkin: nel giornalismo di Borgen non esiste la capacità critica, non esiste il dibattito, le domande, anche quando descritte come spinose, sono spruzzate d'acqua fresca a confronto delle critiche feroci e disarmanti di Will McAvoy, il protagonista di The Newsroom. 

In conclusione, se devo scegliere tra una copia sbiadita e nebbiosa e l'originale, se devo scegliere tra una sceneggiatura che vorrebbe ma non può e l'opera mastodontica di Sorkin, di certo non mi metto a perdere tempo: ars longa sed vita brevis.

giovedì 29 luglio 2021

Cacciari, Agamben, Odifreddi, ovvero dell'uomo di cultura che parla di ciò che non sa e che crede di sapere


Di recente Giorgio Agamben e Massimo Cacciari hanno scritto a quattro mani una lettera che mette in dubbio l'utilità e la liceità dell'uso del green pass per regolare l'accesso ai luoghi al chiuso. Le reazioni a questa lettera sono state molteplici, per esempio l'intervento di Mingardi e Corbellini su Linkiesta o quello di Flores D'Arcais su MicroMega. Anche volendo apprezzare la volontà di aprire un dibattito etico sul tema della discriminazione dovuta al green pass, il problema della lettera di Cacciari e Agamben è che la lettera si fonda una serie di semplificazioni, fallacie logiche e imprecisioni. Partendo dall'idea che il green pass generi discriminazioni: in generale chi studia scienze sociali sa che in una qualsiasi società le discriminazioni, entro certi limiti, sono inevitabili; più nello specifico, tolleriamo discriminazioni dovute ai comportamenti, mentre tendiamo sempre di più a considerare inique e dannose le discrminazioni dovute a "modi di essere", cioè a condizioni non dovute alla volontà dell'individuo. Bastino pochi esempi: riteniamo legittimo che solo le persone che hanno scelto di frequentare certi corsi e sostenuto certi esami facciano certe azioni, dal praticare certi mestieri, come quello del medico, al guidare un'auto dopo aver conseguito una certa patente di guida. Al contempo, non abbiamo sostanziali problemi ad ammettere che certi altri comportamenti possano comportare, per tempi ragionevoli e in modalità ragionevoli, anche la riduzione o la soppressione di alcune libertà, come nel caso dei detenuti. Al contrario non tolleriamo più che qualcuno sia discriminato per il colore della pelle, l'etnia dei genitori da cui è nato, l'orientamento sessuale, per delle sue disabilità, etc. Insomma, chiarito che la discriminazione in sé non viene condannata dalla società, ma che si condannano alcune discriminazioni, decade già l'argomento di Cacciari e Agamben che sostengono invece la necessità di evitare senza se e senza ma ogni discriminazione.  

Lasciando perdere queste argomentazioni, che attengono più ad aspetti filosofici, quello che veramente impressiona della lettera di Cacciari e Agamben è l'incompetenza scientifica: i due filosofi definiscono i vaccini "sperimentali", quando in realtà i vaccini approvati hanno tutti ampiamente superato la fase sperimentale (a meno che non si voglia intendere che, in quanto ne vengono monitorati efficacia ed eventuali nuovi effetti collaterali, allora sarebbero sperimentali, perché questo però definirebbe sperimentale tutti i farmaci a prescindere); usano poi come argomentazione probante la mortalità di vaccinati in Gran Bretagna e Israele, quando quel dato ha in realtà un fondamento nella diffusione stessa della vaccinazione che lo rende ovvio da un punto di vista statistico.

In conclusione, quindi, la lettera di Agamben e Cacciari risulta essere la lettera di due uomini coltissimi che, ahinoi, si sono avventurati in un campo che conoscono poco e male.

E non sono gli unici.

Sempre di recente Piergiorgio Odifreddi si è avventurato sul tema del DDL Zan sulle pagine di EditorialeDomani. Secondo Odifreddi il DDL Zan non contrapporrebbe una visione di destra da una di sinistra, semmai contrapporebbe la Scienza (con la "S" maiuscola, si badi), ovvero le scienze esatte alle scienze sociali (con la "s" minuscola, come è ovvio). Per l'autore le scienze sociali sarebbero per loro stessa natura incapaci di fornire definizioni esatte degli argomenti che studiano in quanto "postmoderne" (aggettivo usato con accezione negativa) e ideologiche; proprio per la loro stessa natura di teorie fluide (ma il sottointeso è negli scritti di Odifreddi sempre lo stesso da anni: le scienze sociali non sono scienze, sono poco più di sette religiose) le scienze sociali concepiscono possibile la fluidità dell'orientamento sessuale, fluidità che, per Odifreddi, la Scienza (quella delle scienze esatte) smentisce. Per portare avanti la propria tesi Odifreddi elenca come la genetica, la biologia, l'anatomia, persino l'antropologia categorizzino in maniera duale le differenze nella specie umana. Per cui, ipso facto, per l'autore non c'è alternativa: il concetto di identità di genere, introdotto dal DDL Zan risulta dannoso e fuorviante. Sostanzialmente quindi per Odifreddi non esiste altro che il genere biologico, il resto è fuffa in quanto sono fuffa le scienze che formulano l'idea che esista altro. A leggere quanto detto risulta chiaro come Odifreddi, per sostenere la propria tesi, non riesca a confutare le argomentazioni opposte, tanto che sia costretto a fare qualcosa di diverso: sminuire la fonte stessa delle argomentazioni. Se fossimo in un dibattito fra due dibattenti parleremmo di attacco ad hominem. Per fare questo, tra l'altro, cita a sproposito proprio le catalogazioni dell'antropologia: è verò che l'antropologia adopera categorie, ma quando accade lo fa per scelta di comodo, non perché ritenga quelle categorie valide in assoluto (si pensi alla definizione di razza ancora in uso nell'antropologia forense); anzi, proprio dagli studi antropologici vengono alcune delle teorie che più supportano l'idea che oltre al sesso biologico vadano osservati anche orientamento sessuale e indentità di genere come elementi costitutivi della specie umana e della sua evoluzione nel tempo. Insomma, grattando la superficie dell'articolo, viene fuori che Odifreddi ha parlato di temi di cui poco conosce e poco capisce.

Per concludere, come dice Cundari su Cacciari, ma in maniera altrettanto valida per gli altri studiosi citati:

Per sfuggire alla seduzione delle fake news non serve essere né più intelligenti né più colti, semmai meno innamorati delle proprie convinzioni e più disponibili a metterle in dubbio, anche quando ci sembrino confermate dalle notizie (notizie che un algoritmo, o semplicemente l’ambiente che frequentiamo, preseleziona sempre, in qualche misura, per noi) [...] Paradossalmente, proprio l’autorevolezza e l’intelligenza dell’autore dimostrano come in certi casi – casi nei quali gli effetti di credenze infondate si misurano in migliaia di morti – nulla è meno maieutico, utile e istruttivo di un dibattito in cui ogni posizione sia messa sullo stesso piano.  

martedì 13 luglio 2021

Docenti, vaccini, polemisti, polemiche e numeri


Durante la settimana appena trascorsa si è discusso dei 215.000 lavoratori del settore scuola non vaccinati: subito "signori" economisti, filosofi ed intellettuali si sono indignati e hanno parlato di un 25% di docenti senza titoli morali per insegnare; ora viene fuori che  i docenti vaccinati sono circa 85% del totale, facendone la categoria più vaccinata dopo i sanitari. Certo, ci sono enormi differenze fra le regioni; certo, l'obiettivo è raggiungere il 100%; tutto vero. Ma intanto, chi parlava di titoli morali, ha poi chiesto scusa per le castronerie dette e gli insulti gratuiti alla categoria? E gli intellettuali che compongono la classe dirigente, quegli economisti e quelle teste pensanti che da decenni scrivono del settore senza avere nessuna competenza per farlo, a che titolo possono discutere di alcunché se, come largamente anticipato già all'emergere dei primi numeri, non sono in grado o non vogliono neanche scorporare dei dati grezzi per ricavarne delle informazioni un minimo utili?

mercoledì 30 giugno 2021

Cristo si è fermato ad Eboli, Carlo Levi


Cristo si è fermato ad Eboli è un romanzo autobiografico di Carlo Levi, pubblicato nel 1945 e ambientato negli anni 1935 - 36. In quegli anni l'autore era stato condannato al confino in Lucania, prima a Grassano e poi a Gagliano: il romanzo infatti è la cronaca dei due anni di confino, condotta quasi come uno studio antropologico delle popolazioni locali, a cui via via l'autore si affeziona semrpe di più, pur notando l'enorme distanza culturale che lo separa da queste.

Levi nota come i paesi della Lucania apparissero dimenticati da Dio e dagli uomini; il regime fascista si occupava solo apparentemente di essi, di fatto abbandonandoli alla malaria, alla corruzione e alla gestione clientelare dei potentati locali. Così i romanzo racconta le miserevoli lotte interne tra le élite locali, tra il podestà e il brigaiere, tra i medici locali, tutti interessati solo al guadagno e incredibilmente ignoranti; tra i membri della curia e i contadini, i veri protagonisti dell'analisi dell'autore.

Sono proprio i contadini e le loro tradizioni a farla da padrone nel romanzo: la civiltà contadina, contrapposta alla civiltà urbana, destinata ad essere sconfitta ma a non essere domata; questa civiltà affascina l'autore, che finisce per stimarla e difenderne la cultura, rischiando persino di diventarne parte sposandone una figlia prima della fine del confino.

Eppure Levi è un intellettuale, e finito il biennio, complice la vittoria della guerra in Etiopia, insieme agli altri confinati verrà rimandato a casa. Non tornerà più a Grassano e a Gagliano, non cercherà più di curare la malaria o di dipingere i brulli paesaggi lucani; ma rimarrà nel suo ricordo la memoria di una terra la cui civiltà è iù antica e più salda di ogni altra che le sia subentrata, in cui magia e religione possono convivere, in cui i potenti possono cambiare nome ma non la sostanza, una sostanza che va patita e sopportata perché è nell'ordine naturale che sia così, salvo improvvise, repentine e improvvide ribellioni come quella del brigantaggio, ribellioni che, proprio perché contadine, sono alla fine destinate alla sconfitta, unico destino dell'uomo semplice.

sabato 26 giugno 2021

The Looming Tower




The Looming Tower è una miniserie di 10 puntate, andata in onda per la prima volta nel 2018 per Hulu e poi ritrasmessa da Amazon Prime Video. La serie è tratta dall'omonimo libro di Lawrence Wright. La serie racconta le vicende che a partire dalla fine degli anni '90 conducono allo sviluppo di Al-Qaeda all'ombra della rivalità tra CIA ed FBI, fino all'angosciante resoconto dell'attentato del giorno 11 settembre 2001.

Protagonisti della serie sono Ali Soufan, interpretato da Tahar Rahim, agente della FBI, e John P. O'Neill, interpretato da Jeff Daniels, direttore del reparto della FBI che si occupa delle indagini sul Al-Qaeda. Antagonista della vicenda è Martin Schmidt, interpretato da Peter Sarsgaard, che come responsabile della CIA per le indagini su Al-Qaeda fa in modo di non condivedere le proprie informazioni con la FBI, impedendo così che si prendano adeguati provvedimenti per difendere la sicurezza degli USA, finendo per far perdere il posto di lavoro ad O'Neill, che verrà ucciso proprio nell'attentato.

La serie tratta gli anni dell'esplosione del terrorismo islamico in maniera coinvolgente, mettendo in luce come a confrontarsi non siano un bene assoluto e un male assoluto, ma come da un campo e dall'altro si susseguano mille sfumature di colore e due diverse e alternative forme di estremismo, sulla pelle di masse di innocenti che sono le vere vittime delle diverse ideologie in campo.

Su tutti spicca Jeff Daniels: l'attore risulta credibile nel suo ruolo, mai forzato, interpretando un ruolo tutt'altro che banale, non certo il classico buono da film strappalacrime, eppure una figura che spacca lo schermo rimanendo impressa nella memoria dello spettatore.


Donne, madonne, mercanti e cavalieri, Alessandro Barbero

 



Donne, madonne, mercanti e cavalieri è un libro di Alessandro Barbero che, con il ben noto piglio dell'autore, cerca di disvelare elementi della vita quotidiana del Medioevo, in particolare tra l'eta comunale e quella rinascimentale. Il volume si concentra su sei storie di sei personaggi emblematici, esponenti del clero, della borghesia mercantile, piccoli o grandi nobili; e poi, e soprattutto, donne, impegnate nelle attività che difficilmente il luogo comune attribuisce loro nel Medioevo: così abbiamo la donna che ha successo come scrittrice, la mistica e la donna che conduce il suo paese alla vittoria militare. In ogni caso il racconto della vita emblematica di queste donne e di questi uomini mostra, in filigrana, quale dovesse essere la condizione dell'uomo medio nelle rispettive epoche, cosa ci si potesse attendere dalla vita e cosa no, cosa potesse essere legittimo e cosa no; quali paure, speranze, illusioni potessero coltivare gli uomini del Medioevo. Per scoprire quanto quell'epoca potesse essere vicina alla nostra e quanto rimanga inequivocabilmente lontana.

giovedì 3 giugno 2021

La fattoria degli animali, George Orwell

La fattoria degli animali di George Orwell può essere annoverato fra i più famosi libri del Ventesimo secolo. Il romanzo racconta di una fattoria inglese, di proprietà del signor Jones, in cui degli animali, ispirati dalle parole di un maiale, chiamato Il Maggiore, organizzano una rivoluzione che li porta a guadagnarsi autonomia e potere. Gli animali ancora una volta verranno guidati dai maiali, due in particolare, Palla di neve e Napoleone, capaci di leggere e scrivere, che incideranno le regole della nuova fattoria e produrranno i piani di sviluppo della civiltà degli animali. Ben presto i due verranno a contrasto e Palla di neve sarà costretto a fuggire. Sotto la guida di Napoleone si imporrà un regime autoritario, totalitaristico, che gli altri animali faticheranno a contestare senza capirne le dinamiche.
Gli animali della fattoria si scontreranno dapprima con gli uomini, ma alla fine Napoleone verrà a patti con gli ex nemici giurati. Ecco che i maiali saranno sempre più simili agli uomini, tanto che agli altri animali, ormai a tutti gli effetti dei sudditi, sarà difficile notare la differenza.

Dietro la metafora della fattoria, Orwell qui racconta l'"epopea" della Rivoluzione russa, dall'ispirazione di Lenin all'ascesa e al contrasto tra Trotsky e Stalin, con la vittoria di quest'ultimo e la sua imposizione di un regime dittatoriale. Osserviamo quindi il clima di terrore e di sospetto, le purghe fra gli stessi maiali/comunisti, il tentativo di accordo con la Germania hitleriana e il successivo conflitto. Infine la vittoria russa, raggiunta a costo di perdite disumane.

Solitamente si osserva in questo libro la satira della rivoluzione russa. Eppure alcuni fra gli animali, pur stupidamente innocenti, mantengono la propria purezza e integrità per tutta la durata della storia, e certo gli ideali professati dal Maggiore sono tutt'altro che non condivisibili. Emerge invece un altro aspetto: la decadenza della rivoluzione porta i suoi leader, infine, ad essere come coloro da cui ci si era liberati; i maiali diventano uomini,  ma anche fosse il contrario, siamo sicuri che questa metafora sia la celebrazione del capitalismo di fronte al fallimento del sogno rivoluzionario comunista?

venerdì 21 maggio 2021

Della superficialità

Leggendo vari commiati per la morte di Battiato mi è venuta in mente una cosa: forse pochi hanno compreso questo cantautore? O meglio, quanto una parte dell'opera di Battiato è stata fraintesa?
Prima però una premessa: io non amo Battiato e la sua musica. Non è proprio vero: non amo la ricezione della musica di Battiato; e odio la sua voce, ecco, l'ho detta; ma forse odio la seconda perché la associo alla prima.
A dirla tutta non sono neanche un profondo conoscitore delle sue opere, conosco quelle più famose, quelle per cui mi sono fatto l'idea che l'appellativo più sbagliato per Battiato fosse quello di maestro.
Io Battiato invece lo associo ai Righeira, agli anni Ottanta, allo sperimentalismo pop e ad un'idea tutta postmoderna di arte (opposta alla vulgata su Battiato, quella del maestro profondo e spirituale); in Battiato non sento l'arte che cerca la profondità, ma l'arte che si fa portavoce della labirintica estensione della superficie. 
Battiato, come i Righeira (e qui la smetto di paragonarli, promesso), non cerca affatto di scavare nelle profondità di tematiche sociali o psicologiche (o lo fa meno frequentemente di quanto sembri), perché quella è la musica autoriale degli anni Settanta, degli anni di piombo, dell'esistenzialismo, semmai vola su diversi temi, argomenti, su diverse emozioni ed esperienze, anche del tutto slegati tra di loro, e con il solo posarsi del suo strumento di comunicazione, la sua musica, la sua arte, ne mostra i legami tanto ignoti, quanto di impossibile interpretazione. Battiato non crea simboli, crea reti di immagini il cui unico legame sta nell'essere associate attraverso la musica.
La musica di Battiato quindi a me è sempre apparsa superficiale, ma non in un senso deteriore, semmai come l'immaginifica mappa ordinata da Kublai Khan ne Le città invisibili: nel senso che scientemente le canzoni del cantautore di Milo non vogliono dire nulla, o vogliono dire meno di quel che appare. In un certo senso, spesso in Battiato (e nella grande arte postmoderna) l'unica cosa da dire è il non aver nulla da dire.
Diceva Montale in Non chiederci la parola che l'unica cosa che hanno da dire i poeti moderni è "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Se questa consapevolezza era dolorosa per Montale, diventa naturale per gli artisti del dopoguerra; anzi, il non avere risposte positive diviene il messaggio: passata la generazione degli intellettuali che avevano costruito con le loro ideologie l'Europa che aveva cercato di autodistruggersi con le due guerre mondiali, era un bene che gli artisti smettessero di aspirare ad essere vati, che riconoscessero il non avere un messaggio.
La migliore arte postmoderna è scientemente superficiale, definisce la superficialità come un valore antidogmatico e capace di disarmare le ideologie.
La superficialità è persino liberatoria: l'artista che non deve più concentrarsi sul messaggio può decidere di approfondire e sperimentare giocando con il canale (e guardiamo qui alle sperimentazioni strumentali di Battiato) e con il codice (il citazionismo da diversi autori e opere, passando dalla grande letteratura ai modi di dire popolari, attraverso la cultura pop, attingendo infine alla musica e all'arte internazionale). Tutto si tiene perché trattenuto dalla messa in musica, come se si trattasse di un'enorme esplorazione musicale della superficie del mondo (ed ecco che appaiono gli influssi e gli strumenti provenienti dalle diverse parti del pianeta); il viaggio di Battiato non è mai un viaggio verso il centro della terra, ma sempre il giro del mondo in ottanta giorni.
Per queste ragioni chi oggi piange il maestro, lamenta la scomparsa dell'uomo che aveva raggiunto vette di profondità e spiritualismo, mi pare che o non abbia capito o abbia deciso di fraintendere l'opera del cantautore siciliano che, se potesse commentare tutto questo, probabilmente lo farebbe con sarcastica risata.
E poi si metterebbe a ballare, cercando o fingendo di cercare quel centro di gravità permanente che gli potesse dare  una risposta certa e inamovibile ai grandi questi della sua epoca. Risposta che, più nei lamenti si attribuisce a Battiato, meno, con ogni probabilità, lui possedette.

mercoledì 19 maggio 2021

La pista di ghiaccio, Roberto Bolaño


La pista di ghiaccio di Roberto Bolaño racconta la storia di un omicidio attraverso i punti di vista di tre diversi personaggi: il cileno Remo Moràn, proprietario di un bar, di diversi hotel, di un negozio di bigiotteria e di un camping in Spagna, nella città di Z; Gaspar Heredia, poeta, clandestino messicano, amico di Moràn e a cui Moràn ha trovato lavoro presso il camping come custode notturno; il funzionario spagnolo Enric Rosquelles, direttore dei servizi sociali di Z, collaboratore fidato della sindaca, la socialista Pilar.

Motore della vicenda è un altro personaggio femminile, la pattinatrice olimpionica Nuria, di cui sia Moràn che Rosquelles si innamorano; Nuria rimane fuori dalla squadra di pattinaggio nazionale, ufficialmente per la sua età: Rosquelles, arriva a realizzare in segreto per lei una pistta di pattinaggio presso una villa dismessa nei dintorni di Z. È attorno alla villa che ruoterà la vicenda, intrecciando le storie dei tre protagonisti e quelle di due mendicanti, una delle quali, Caridad, sarà amata da Heredia.

Nello stile di Bolaño, La pista di ghiaccio è un romanzo in cui le vicende di una sola estate vedono nascere, crescere e sfiorire l'amore, il desiderio, la speranza di una vita felice, proprio come la stagione che, passando, porta via con sé le attività delle aziende balneari e del camping di Moràn.

Tutti e tre i personaggi alla fine del romanzo saranno uomini nuovi e allo stesso tempo uomini che avranno perso qualcosa della loro vita precedente: l'illusione che li avrà nutriti durante quell'estate, la sensazione di onnipotenza, la speranza di una famiglia.

Un romanzo duro, crudo senza essere violento; passionale senza essere volgare. Un bel romanzo.

lunedì 17 maggio 2021

Ancora su Propaganda Live


L'ultima su Propaganda Live e la questione di genere: ho trovato alcuni interventi fra i più critici francamente immeritati, o meglio, eccessivi: nel senso che partendo da una giusta rivendicazione hanno accusato Propaganda di altro, senza riconoscerle alcun merito (sorry, ma ogni riferimento a Lipperini e alla sua critica sulla "postura" degli autori è puramente voluto).

Detto questo, come alcuni mi hanno fatto garbatamente notare con argomentazioni ed esempi, mi pare vero, con il senno di poi e senza la foga della polemica ai suoi inizi, che nella trasmissione (e più in generale nella televisione italiana) la questione di genere si ponga: continuo a pensare che la questione di genere non si risolva con il pallottoliere, ma è pur vero che se non si parte dal pallottoliere non si parte proprio a discutere della rappresentanza in TV.

Inoltre, è pur vero che qualcuno degli autori del programma ha a più riprese dato mostra di malcelato sessismo: capita, non deve capitare ma capita, soprattutto se sei cresciuto in quella cultura lì.

Propaganda cambierà? Secondo me non subito, sarebbe un'ammissione di colpa. Si prenderanno il tempo per far dimenticare il polverone e metabolizzare le critiche. Ma Bianchi e soci mi sembrano persone intelligenti e, nei limiti dell'umano, disponibili ad accettare le critiche una volta che le si è metabolizzate.

sabato 15 maggio 2021

Due parole su Propaganda live, o dell'arte, a sinistra, di farsi del male da soli


Questa settimana il programma TV Propaganda live, normalmente noto per essere luogo di commento dichiaratamente di sinistra dei fatti della settimana, è diventato esso stesso notizia. Anzzi due. La prima, il caso del musicista Roberto Angelini, parte del cast del programma, che, giudicato colpevole di aver fatto lavorare in nero una donna nel suo ristorante come rider, dovrà pagare 15.000 di multa. L'altra notizia è il clamoroso diniego della giornalista Rula Jebreal alla partecipazione programmata al programma, accusato di avere un parterre composto da soli uomini e quindi di discriminazione di genere.

Terrei separate le due cose: Angelini ha sbagliato, non c'è dubbio, ed è ancora peggiorr aver cercato di fare passare la vittima per carnefice sui sociali accusandola di "pazzia" e ingratitudine. Detto questo, scusate, ma se Angelini altrove commette un illecito, è colpa o responsabilità delli staff di Propaganda? Che c'entra accusare gli autori di una cosa fatta da qualcuno che è sul libro paga come musicista e che ha commesso un illecito nella sua vita privata? Si vuole forse dire che gli autori del programma "non potevano non sapere"? Allora lo si dica apertamente e si denunci.

Su Rula Jebreal (e in generale sull'accusa, mossa anche da Loredana Lipperini sui social al programma di essere autoreferenziale, compiaciuto e, in soldoni, futile): mi sembra l'ennesima riproposizione a sinistra della gara a chi è più puro: Propaganda Live sarà ripetitivo, autoreferenziale, però è un programma che ha dato e dà spazio a voci, si guardino i reportage sulla Libia e sul lavoro dei braccianti agricoli nel meridione, che altrove non avrebbero spazio, e per di più lo fa su una rete commerciale. Lo fa avendo come parterre fisso (nei limiti dei loro impegni) due giornalisti donne e due uomini, e che invita a commentare i fatti della settimana personaggi della varia fauna della sinistra italiana. È fazioso, certo, e a differenza di altri programmi lo è dichiaratamente e apertamente, senza fingere di voler essere obiettivo e sopra le parti. Rula Jebreal ha voluto fare la pura più pura dei puri, ci sta, ma in un contesto normalmente aperto alle sue rivendicazioni, mancando l'occasione di parlare della questione per cui era stata invitata, in un momento in cui sarebbe stato importante farlo, lasciando a commentare i fatti una persona non altrettanto preparata, per poi rimproverargli pure di non essere competente come lei. Insomma, avrà pure marcato la differenza da una trasmissione che avrebbe forse dovuto cercare più accuratamente gli ospiti, ma ha anche marcato la differenza dagli spettatori e dai commentatori a cui interessava sapere cosa aveva da dire lei sugli scontri in Palestina.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....