giovedì 26 luglio 2018

La differenza tra legalità e giustizia

Foto: CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17254


Questi i fatti: il ministro degli interni Matteo Salvini ordina, in accordo con la sindaca di Roma Raggi, lo sgombero di un campo nomadi. È da notare che nessun piano è stato studiato per il post sgombero, in pratica si compie un atto di forza, adducendo come motivazioni l'ordine pubblico e il rispetto della legalità, ma le persone che saranno sgomberate saranno di fatto sfollate, per cui, a meno che non si pensi ad una qualche "soluzione finale", finiranno comunque per allestire un altro campo nomadi, magari solo a qualche centinaio di metri da quello sgomberato. Alcuni fra gli sgomberati avevano tuttavia fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che aveva dato ragione ai ricorrenti e imposto la sospensione dell'attuazione del provvedimento fino alla giornata di venerdì, in attesa di una decisione definitiva. Ugualmente il ministro nella giornata di oggi ha deciso di imporre lo sgombero, definendo i Rom presenti nei campi come dei parassiti.
Di fatti gravissimi ce ne sono tanti: la definizione degli abitanti dei campi nomadi come parassiti; la violazione di un'ordinanza della più alta corte europea, quella che era nata per difendere i diritti di ogni persona, in quanto tale, contro ogni violazione dei diritti umani, a seguito degli orrori della Seconda guerra mondiale; i commenti entusiastici e razzisti in rete; la violenza verbale nei confronti di chi si oppone al provvedimento.
La questione, se vogliamo, è anche più alta, più profonda, e se possibile più paurosa. Sempre di più stiamo slittando dal concetto di giustizia a quello di legalità, che va di pari passo con quello di ordine. Sia chiaro, normalmente questi tre concetti dovrebbero andare di pari passo. Quando però alcuni prevalgono sugli altri, allora siamo in presenza di una deriva autoritaria. Nell'Apologia di Socrate Platone ricorda un episodio della vita del suo maestro: i Trenta tiranni, oligarchi, alcuni dei quali anch'essi discepoli di Socrate, ma espressione della volontà politica di Sparta, città vincitrice nello scontro contro Atrene, chiamarono l'anziano filosofo al loro cospetto. Egli aveva già espresso critiche nei loro confronti, così essi, per domarlo o eliminarlo, gli imposero con un atto di legge di andare ad arrestare un oppositore politico per essere condannato a morte. Socrate, udito l'ordine, si allontanò dai Trenta e si ritirò a casa sua, senza eseguire quanto impostogli dalla legge. Socrate aveva deciso di seguire la giustizia anziché la pura legalità. Ne sarebbe seguita la sua condanna a morte, se i Trenta tiranni non fossero stati deposti di lì a breve, e nondimeno la voce di Socrate rimase critica anche nei confronti dei restauratori della democrazia, tanto da essere condannato a morte proprio dal regime che con il suo esempio aveva difeso, ed essere condannato a morte, ancora, per la sua scelta di seguire giustizia anziché legalità.
Su cosa si fonda la scelta di Socrate?
Può l'atto di legge di colui che sta sovvertendo i fondamenti della democrazia essere considerato valido, quando esso stesso viola i fondamenti del potere da cui trae origine? L'atto dei Trenta tiranni è ingiusto perché, se la legge fonda il suo potere sulll'essere espressione non della volontà popolare, ma della volontà popolare normata dal diritto nel superiore interesse della Persona (concetto che invero nella filosofia greca non esiste se non in nuce) in quanto tale e come fondamento dello Stato, ecco, in questo senso l'atto di legge può anche essere legale, tuttavia è ingiusto. Al contrario, il non rispettare la legge da parte di Socrate, ponendo al centro il valore della Persona come base stessa dello Stato, è atto illegale e tuttavia più giusto della legalità.

Certo, Socrate è esempio lontano, lontanissimo. Ma di giusti ne abbiamo conosciuti altri nel corso dei secoli. Si pensi ai giusti tra le nazioni, coloro che hanno disobbedito alle leggi razziali difendendo gli ebrei e non solo dalla deportazione e dallo sterminio nazifascista.
Cosa accomuna i giusti dei vari secoli e Socrate? La decisione di agire a proprio rischio e pericolo. Perché è molto più semplice sbandierare la legalità che agire secondo giustizia. La giustizia richiede sforzo, richiede capacità di mediazione, la comprensione del fatto che eguaglianza non vuol dire equità, che ripartire in parti uguali tra diseguali è atto di ingiustizia; molto più semplicemente, la legalità richiede la forza per essere attuata, e la forza, primigenea manifestazione di una virilità più millantata che reale, è da sempre attrattiva per chi non vuole andare oltre una rapida occhiata, come due grossi seni sono a prima vista più interessanti di una mente ben fatta.
Tuttavia, quando l'applicazione della forza nell'imposizione della legalità segue criteri di giustizia, allora si crea uno Stato ben ordinato e democratico; ma se l'applicazione della forza nell'imposizione della legalità è il fine, non il mezzo, allora non si crea uno Stato ordinato e democratico, ma ci si avvicina a passi veloci verso una dittatura, che la si chiami o no con questo nome poco cambia.

sabato 21 luglio 2018

Quasi tre anni fa parlavate di deportazione

Immagine: Lettera43.it


Quasi tre anni fa, era la fine dell'agosto 2015, infuriava la polemica sulla riforma della scuola. In particolare una parola andava di moda: deportazione. Era il termine con cui tanti insegnanti, assunti a tempo indeterminato, appellavano il loro infausto destino, l'obbligo di trasferirsi da un capo all'altro della penisola per ottenere la cattedra sperata dopo anni di sacrifici. Quel termine, il cui uso era incoraggiato da tanti sindacalisti che oggi si sono convertiti al nazionalpopulismo gialloverde, e dagli stessi partiti oggi al governo, venne ampiamente criticato da politici della maggioranza, nonché da figure di spicco della comunicazione e dei media, come per esempio il direttore del TG de La7, Enrico Mentana. All'epoca io e Giulio Iraci scrivemmo questo articolo per l'associazione di cui facevamo parte, Gessetti Rotti:
Gentile direttore Enrico Mentana,

in una celebre scena di “Palombella rossa”, Mariella Valentini, nel ruolo di una giornalista, intervista Michele Apicella, alias Nanni Moretti. Quel dialogo è scolpito nella mente di tutti:

- Io non lo so, però senz'altro lei ha un matrimonio alle spalle a pezzi.
- Che dice?
- Forse ho toccato un argomento che non...
- No...no...è l'espressione. Non è l'argomento, non è l'argomento, non è l'argomento...è l'espressione. Matrimonio a pezzi. Ma come parla...
- Preferisce rapporto in crisi ? Ma è così kitch...
- Kitch! Dove le andate a prendere queste espressioni, dove le andate a prendere...
- Io non sono alle prime armi!
- Alle prime armi...ma come parla?
- Anche se il mio ambiente è molto cheap…
- Il suo ambiente è molto...?
- È molto cheap,
- (schiaffeggiandola) Ma come parla?
- Senta, ma lei è fuori di testa!
- E due. Come parla! Come parla! Le parole sono importanti. Come parla!

Le parole, è vero, sono importanti. Proprio per questo, prendiamo le distanze dall’uso del termine “deportazione”, che tante volte, in questi giorni, è stato associato alla mobilità forzata dei precari della scuola coinvolti nel piano straordinario di assunzioni. Una transumanza voluta dall’attuale governo, presieduto da Matteo Renzi, e realizzata attraverso la legge 107/2015, la cosiddetta “Buona scuola”.
Il termine “deportazione”, come Lei ricorda, rimanda a ben altre migrazioni forzate, incommensurabilmente più tragiche, che rimarranno per sempre nella memoria collettiva.

Vogliamo dunque manifestarLe la nostra solidarietà per le accuse e gli insulti che Le sono stati rivolti per aver esternato, non senza coraggio, il Suo disappunto sull’uso improprio di quella parola.
Ci preme ricordarLe, tuttavia, che le parole sono importanti sempre, e che l’invito a una maggiore precisione non può giungere solo da una parte, o a seconda delle circostanze.
Il termine “deportazione”, a cui Lei ha fatto giustamente riferimento, è molto in voga tra voi giornalisti, ed è spesso usato fuori luogo, senza neppure la pseudo-giustificazione di un dramma esistenziale o familiare.
Il pressappochismo è ciò contro cui gli insegnanti lottano ogni giorno in classe e - non ce lo nascondiamo - l’esempio peggiore viene spesso da chi fa il Suo mestiere.
Sarebbe inutile, e penoso, stare qui a ricordarLe quante volte, anche durante le edizioni del telegiornale che Lei dirige, ci si trova a dover ascoltare espressioni ormai vuote, frasi fatte, notizie poco approfondite, se non addirittura mistificate. Eppure, quante volte ancora dovremo sentir parlare di “emergenza sbarchi”, di “esodi estivi”, di teorie pseudoscientifiche e ricostruzioni storiche in stile colossal di serie B?
Se le nuove generazioni non credono (ancora) a tutte le stupidaggini che girano in rete, è forse anche merito di chi fa il nostro mestiere, e insegna a spulciare fra le fonti.
Non è nostra intenzione incolpare l’intero giornalismo italiano; così come, vogliamo sperare, il Suo post non intendeva additare l’intera categoria degli insegnanti.
I giornalisti a cui ci riferiamo - e sono tanti - sono quelli, ad esempio, che hanno fatto cattiva informazione sulla scuola.
Parlare della riforma scolastica (come ha fatto la redazione scuola di Metro) avrebbe voluto dire, innanzitutto, approfondire l’argomento, e non semplicemente inseguire la notizia. Avrebbe voluto dire spiegare cosa è stato il precariato della scuola statale italiana: una piaga che, in alcuni casi, esiste da oltre vent’anni. Avrebbe voluto dire specificare che i docenti non vanno in ferie per tre mesi, e che lavorano, come dimostrano studi accreditati, almeno 36 ore settimanali, in linea con la media dei paesi europei ma con una tra le retribuzioni più basse. Questo sarebbe stato approfondire.
Un approfondimento serio avrebbe comportato la condanna delle parole di una Ministra che definisce i suoi dipendenti squadristi, abulici, sindacalizzati (come se questo fosse un insulto); avrebbe significato spiegare che i docenti ‘vogliono’ essere valutati, ma prima gradirebbero sapere come, da chi e con quali strumenti. Approfondire sarebbe stato spiegare che i test INVALSI, da voi giornalisti acriticamente difesi, sono invece, nel resto mondo, sempre più contestati o, quanto meno, ridimensionati nel loro valore; sarebbe stato rimarcare come molti dati sulla scuola statale e non statale, considerati scontati, scontati non sono: come, ad esempio, quelli sulla maggiore qualità dell’istruzione privata (anche in Europa), o sulla differenza tra scuole del Nord e del Sud.
Ma soprattutto, un vero approfondimento avrebbe spiegato perché la mobilità realizzata da questa riforma, oltre che inutile e caotica, sarà anche dannosa e, in molti casi, crudele.
Insomma, gentile Direttore, comprendiamo davvero il Suo rammarico per l’uso del termine “deportazione”. Nondimeno, ci auguriamo che la Sua richiesta di onestà intellettuale non si esaurisca in quella coraggiosa ramanzina, ma La spinga, con la dedizione che persino la parodia di Maurizio Crozza Le riconosce, ad esplorare quegli argomenti che il Suo telegiornale, fino ad ora, ha trattato in maniera tristemente sommaria.
Se servisse, Le offriamo la nostra collaborarazione.

In attesa di un Suo cortese riscontro, Le porgiamo distinti saluti.

(Fonte dell'articolo: Gessetti Rotti)

Oggi quell'articolo e quella polemica mi tornano in mente. Sono passati tre anni, di migrazioni forzate ne giungono ben altre, siamo in epoca di respingimenti illegali, di ricollocamenti (aka, deportazioni reali) richiesti e rifiutati, di lager libici e di spari sui "diversi", siamo in un'epoca in cui il diritto di critica viene stroncato con il furbo motto del "lasciateli lavorare".
Oggi dove sono quegli insegnanti che gridavano alla deportazione? Dove sono quelle piazze che hanno gridato allo scempio delle vite, alle famiglie distrutte, ai sacrifici e ai sentimenti villipesi?
È una domanda retorica: quegli insegnanti stanno aspettando di raccogliere l'obolo sperato per il consenso al nazionalpopulismo, e di fronte al vero dramma della migrazione stanno muti e si voltano dall'altra parte.
In primis quei sindacalisti che all'epoca hanno fomentato la piazza e che, oggi, forti delle loro posizioni nei sindacati di base, ringraziano il ministero del tutto per le sue politiche contro i migranti, quelli veri.

Ecco, di tutto cuore, mi fate schifo.

giovedì 19 luglio 2018

Un post politicamente scorretto




Visto che siete fan del politicamente scorretto, vi accontento: paragonare la situazione di un migrante che viene da paesi in guerra o in cui il reddito pro capite annuo spesso equivale a quanto prende un salariato medio in italia in un mese con situazioni, seppur tragiche, vissute dai poveri o dai disoccupati o da coloro che hanno vissuto la disgrazia di una calamità naturale in Italia. è voler non vedere che tra le due situazioni c'è un abisso. Se vogliamo essere seri, dobbiamo dire che in Italia, uno dei paesi più sviluppati al mondo, un paese altamente progredito dal punto di vista industriale, in cui, malgrado tutto, il sistema del welfare funziona dal decentemente al bene, in qualche modo si sopravvive a situazioni del genere. Male, certo, nessuno dice il contrario, ma non venite a raccontare che non si sopravvive.
Provate a mettervi nelle stesse condizioni in Eritrea, nel Sud Sudan, in Etiopia, in Yemen, in Libia, in Pakistan, in Nepal, in alcune aree del Bangladesh (non cito questi paesi a caso: sono fra i paesi in cui, guerre o non guerre, le condizioni di vita sono tra le peggiori in assoluto, e sono paesi che il Ministro per non si sa bene che cosa considera sicuri e confortevoli), e poi vedremo se povertà e disgrazie sono la stessa cosa ovunque voi viviate.


Come si fa a dire una cosa del genere? Partendo dai dati.
Per esempio il reddito procapite medio di alcuni fra i paesi da cui arriva la gran parte dei migranti in Italia, e l'Italia stessa. Ne viene fuori come il reddito medio italiano si aggiri intorno ai 35.000 dollari annui a persona, mentre nel caso peggiore, quello del Sud Sudan, il reddito medio annuo non arrivi a 2.000 dollari annui,




Se poi guardiamo alla ricchezza totale prodotta in tutti questi paesi, al netto dell'inflazione, osserviamo come l'Italia, pur con una popolazione spesso proporzionalmente scarsa rispetto ai paesi da cui si emigra, produca ricchezza in maniera esponenzialmente superiore agli altri paesi. Mentre l'Italia infatti con i suoi 60 milioni di abitanti produce un PIL di circa 200 milioni di dollari annui, L'Egitto, con una popolazione quasi doppia, si ferma a 1.000 miliardi di dollari annui e poco meno il Pakistan con 210 milioni di abitanti. Fino ad arrivare ai casi estremi della Palestina, del Chad e del Sud Sudan che si aggirano intorno ad un PIL di 10 milioni di dollari annui.


Ancora più evidente è il dato sulla percentuale di popolazione in condizioni di povertà estrema. Questo dato è certamente in crescita in Italia, questo è un dato innegabile. Eppure esso va relativizzato: se si guarda al dato italiano in comparazione a quello della gran parte dei paesi citati, ci si accorge dell'enorme differenza: da noi meno del 5% della popolazione si può definire in condizione di povertà estrema, in quei paesi il dato supera ampiamente il 60% della popolazione.


Continuando possiamo osservare la spesa annuale nella sanità per persona: in Italia si spendono 3200 dollari annui per persona, in Pakistan non si arriva a spendere neanche 25 dollari annui a persona per le cure mediche.


Se guardiamo ai dati sull'alfabetizzazione, ne emerge un quadro un po' migliore, ma se in Italia possiamo contare in pratica sul 100% della popolazione con una prima alfabetizzazione, in Chad questa non è neanche il 40% e in molti paesi africani questa cifra si aggira intorno al 60% degli abitanti.

Ugualmente, se guardiamo ai dati sulla dispersione scolastica, essa appare ancora abbastanza costante nei paesi africani, in alcuni casi in crescita, come nel Sud Sudan, e ugualmente il dato rimane molto alto nei paesi asiatici di emigrazione.



Anche per quanto riguarda il dato sullo sviluppo umano della persona, quindi la possibilità di realizzazione lavorativa, culturale e personale del singolo individuo, la comparazione mette in chiaro come la situazione sia ben più grave altrove.



Solo su un dato riusciamo a cavarcela peggio di altri, ovvero il dato sullo sviluppo di ineguaglianze, come discriminazioni di genere, etniche, religiose e politiche: in questo caso riusciamo a fare peggio di molti dei paesi che consideriamo "incivili"
Fonte dei dati: gapminder

La prima volta che mi hanno definito radical chic



La prima persona che mi ha definito radical chic la ricordo bene: una collega, lo stesso mio stipendio, però a quanto pare se io prendo 1400 euro al mese sono borghesia che non ha diritto ad essere solidale, se lei prende lo stesso (con qualche sgravio fiscale di più, in realtà), lei è "popolare" col sacrosanto diritto ad essere incazzata col mondo. Se io devolvo parte del mio stipendio ad Amnesty International o a Save the children lo faccio decidendo di sacrificare un giocattolo per mio figlio o una maglia firmata per me o mia moglie. E non lo dico per avere il plauso, francamente non me ne frega una mazza e scrivere, sui social o un libro, per me è in primis uno sfogo; ma rivendico il diritto ad essre dissidente, ad essere fermamente razionalista in un epoca di nazionalisti; rivendico il diritto di dire che lo studio non è un inutile orpello e che la competenza non è una vergogna; e rivendico il diritto di dire che non c'è vergogna nel non sapere, ma che la peggiore macchia è quella del dilettante che non vuole riconoscere la propria ignoranza; rivendico il fatto che se passo le mie notti a studiare mio figlio un giorno forse potrà essere orgoglioso di suo padre; rivendico il diritto di dire che prima di essere italiano sono un essere umano; rivendico il diritto di dire che esiste una sola razza e che se siete razzisti non vi sono sinonimi che rendano più accettabile la vostra scelta.

venerdì 13 luglio 2018

Trasformiamo le scuole in centri di ricerca

Immagine: https://www.isspilimbergo.gov.it/pvw/app/PNII0001/pvw_sito.php?sede_codice=PNII0001


Come molti avranno notato, da tempo scrivo poco di scuola. Non è che l'argomento non mi interessi più, anzi, ma è che altre questioni, più impellenti, mi costringono a trattare argomenti che eviterei volentieri, se la schizofrenia non stesse colpendo l'opinione pubblica e l'agenda politica del paese, Tant'è.

Un argomento mi sta tuttavia particolarmente a cuore, quello delle sperimentazioni didattiche riguardanti i cosiddetti "nativi digitali". Più in generale poi quello che noto è la scarsa propensione ad una sperimentazione sistematica e scientifica in ambiente scolastico. In parole povere: sebbene ad un livello che appartiene al mondo della ricerca universitaria sia ormai acclarato come il metodo trasmissivo funzioni poco e male, specialmente con gli alunni nati dopo il 1999 (data spartiacque che divide, simbolicamente, nativi digitali ed immigrati digitali), nelle scuole la sperimentazione viene demandata a pochi volenterosi, quasi mai è sistemica, e, in qualsiasi caso venga attuata, i suoi esiti sono scarsamente descritti e spesso nebulosi (quasi mai per esempio vi è traccia di questi esiti nei POF/PTOF).

Per questo motivo credo che andrebbero cambiate radicalmente le modalità di proposta e rendicontazione dei progetti e delle attività che vengono previste e adottate nei PTOF e nei singoli Collegi docenti/Consigli di classe. Qualcosa al riguardo l'ho già sperimentata, partecipando ad un progetto tenuto dal ricercatore e professore Maurizio Gentile presso l'Università di Verona, progetto inserito in una serie pluriennale di ricerche e che ha previsto l'entrata in classe di ricercatori universitari e la videoripresa delle azioni didattiche formali e informali; io stesso inoltre ho cercato di rendicontare l'attuazione di una delle modalità possibili di Classe capovolta in una delle mie classi.
Mi pare che una maniera opportuna per agire in modo consapevole nell'attuazione di un progetto sia l'obbligo, da parte di ogni scuola, di pubblicazione, nella modalità del saggio scientifico/caso di studio, delle ragioni che hanno portato allo sviluppo di un certo progetto, delle modalità di attuazione, dei riferimenti scientifici che hanno portato alle scelte attuative, infine degli esiti.
Lo stesso ragionamento andrebbe fatto per l'adozione di particolari modalità di svolgimento delle lezioni, anche e soprattutto per normare l'ingresso in aula di esperti esterni alla scuola, la cui possibilità di azione in classe dovrà essere rigorosamente sottoposta alla pubblicazione e al vaglio dei risultati ottenuti.

Questa modalità di erogazione dei progetti potrebbe e dovrebbe portare ad una maggiore riflessione critica su quanto fatto in classe, nonché impedire l'ingresso in aula di figure, spesso pretese dalle famiglie, portatrici di modalità di azione prive di validazione scientifica. L''obbligo di pubblicazione porterebbe poi i docenti a dover davvero fare riferimento agli studi pedagogici e quindi imporrebbe un reale aggiornamento continuo. Infine, l'obbligo di pubblicazione ridurrebbe l'abuso di progetti privi di reali ricadute didattiche e, spesso, imposti da situazioni e realtà esterne alla scuola.

Mi riferisco per esempio all'alternanza scuola-lavoro, che è stata imposta nelle sue attuali modalità di svolgimento senza accurato studio preliminare: se appare chiaro che, almeno in alcuni settori, l'alternanza scuola-lavoro può portare a concreti benefici occupazionali per gli studenti (penso per esempio a quelli degli Istituti Professionali), non è chiaro quale sia la sua reale ricaduta didattica; in sostanza, allontanare uno studente dalla classe per  400 ore, come e quanto lo aiuta nell'apprendimento della lingua italiana, delle lingue straniere, nel far di conto, o anche solo in termini relazionali ed affettivi (per fare degli esempi)? Queste ricadute sono quantificabili e verificabili? Se sì, perché non lo si fa? Queste domande sono state poste poco e male, essendo prevalsi altri tipi di interessi; tuttavia, se è possibile, talvolta probabile, non certo sicuro, che gli studenti, concluso il loro percorso, svolgeranno mansioni e lavori vicini ai loro studi, è cosa certa che diverranno elettori, cittadini, membri di una comunità. Così, in termini puramente logici, tra l'evenienza possibile e quella reale, tocca che la scuola si occupi della seconda, puntando ad essere polo educativo e non centro per l'impiego.

Questo ragionamento ovviamente vale per qualsiasi tipo di progetto o attività: intercultura, viaggi d'istruzione, scambi culturali...

Sono consapevole che già l'atto stesso di misurare è un atto valutativo (come mi ha insegnato tante volte il caro amico e collega Cristiano Corsini), così come so che non tutto è valutabile in termini quantitativi. Tuttavia, perché il nostro mestiere passi dall'artigianato al rigore della scienza, occorre di un cambio di passo e di paradigma, l'accettazione che non è con meno pedagogia che si fa la scuola, ma il contrario, e che è solo dalla sinergia tra scuola e università che il nostro sistema scolastico potrà migliorare.



Cristiano Corsini

martedì 10 luglio 2018

Platone, Apologia di Socrate



L'Apologia di Socrate è uno di quegli scritti su cui torno quando vivo un momento di ansia o di crisi. L'esempio del filosofo greco allora mi appare come uno dei massimi apporti alla stessa umanità, uno dei momenti più alti della storia dell'Occidente, sempre che l'Occidente esista.
La storia è nota ai più: Socrate, ormai anziano, dopo il fallimento del governo dei Trenta, tra cui il suo allievo Crizia, e dopo la fine ingloriosa di Alcibiade, anch'egli suo discepolo amato, viene portato in tribunale dai nuovi leader della rinascente democrazia ateniese. L'accusa, sebbene grave, è in realtà una scusa per colpire colui che viene considerato il padre putativo degli oligarchi e del più carismatico leader che Atene abbia conosciuto dopo Pericle. Socrate sarebbe un corruttore di giovani e un ateo.
E Socrate si difende, lo fa certo con le parole di Platone, ma non c'è reale motivo per non credere che il filosofo, magari dicendolo in maniera diversa, abbia usato quegli argomenti per parlare al tribunale; un tribunale del tutto particolare, essendo composto dall'intera assemblea legislativa riunita al completo.
Il Socrate che ci racconta Platone è un uomo che non ha paura di morire, e che fino all'ultimo, con il garbo e l'ironia che lo contraddistinguevano, scardina le certezze dei concittadini
Tu non di' bene, o uomo, se credi che uno, valendo pur poco, abbia a ragionare il pericolo della vita o la morte, quando fa alcuna cosa; e non considerare solo se cosa giusta fa o ingiusta, se opera fa di buono o di malvagio uomo. Se no tutti da poco, secondo il tuo discorso, sarebbero quei Semidei morti a Troia; tra gli altri il figlio di Tetide, il quale tanto sprezzò il pericolo per non sostenere vergogna, che, a lui deliberato di uccidere Ettore, dicendo cosí, come penso io, la madre ch'era Dea: «Se tu, o figliuolo, vendicherai la morte di Patroclo, il tuo amico, e ucciderai Ettore, morirai; dopo quello d'Ettor pronto è il tuo fato»; Egli, a udire questo, facendo picciol conto. [...] In verità è cosí, o Ateniesi: dove si pone alcuno da sé medesimo, giudicando essere il suo meglio; o dove posto è da colui che comanda; ivi, ancoraché in pericolo, deve stare; non badando niente né a morte né a null'altro, ma sí alla vergogna.
Socrate batte sul fatto che non può essere la paura della morte a guidare le azioni, anche perché, sulla morte, l'uomo non conosce nulla di certo. E di certo poi, l'ignoranza sulle cose è la caratteristica intrinseca di ogni uomo, che affligge ogni cittadino ateniese, dall'ultimo degli artigiani al più influente dei politici:
E non è ignoranza cotesta, la piú vituperevole, creder di sapere ciò che non si sa? E io, cittadini, proprio in questo differisco forse dai molti; e se cosa ci è, per la quale io affermerei essere piú sapiente di alcuno, questa è, che come non so delle cose dell'Ade, cosí anche credo di non saperne; 
Funzione dell'intellettuale è quindi quella di pungolare, di essere voce critica di fronte alle certezze non suffragate e agli egosimi che contraddistinguono i singoli.
e insino a che io ho fiato e forze non cesserò di filosofare e di dare avvertimenti e consigli a voi e a chiunque mi avvenga, dicendo come son solito: «O ottimo uomo, tu che sei Ateniese, e di una gran città e gloriosissima per sapienza e possanza, non ti vergogni di aver cura delle tue ricchezze acciocché quanto si può elle si multiplichino, e della riputazione e dell'onore; e non avere poi cura e sollecitudine della sapienza e della verità, e dell'anima, acciocché, quanto si può, buona ella divenga?» 
Non stupisce quindi la condanna di Socrate, come condanna del dissidente che, con il suo acume, smaschera verità date per acquisite. Lo stesso filosofo non è stupito, anzi, evidenziando quanto scarsa sia la distanza tra voti a favore e voti contrari alla condanna, smaschera l'opinabilità del voto a maggioranza nello stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male.
anzi mi maraviglio assai del numero di voti dell'una e dell'altra parte, perché non mi pensava che avesse a essere differenza cosí poca, ma sí bene molta. Ma ora si vede che se soli trenta voti fossero caduti giú nell'altra urna, scampava io.
Il filosofo traccia così un confine, da un lato la legalità, sancita dalle leggi e dalla volontà transeunte della maggioranza, dall'altro la giustizia, qualcosa di più alto e imperscrutabile, a cui l'uomo dovrà rispondere innanzi tutto nel suo privato.
E io me ne vado, condannato da voi a essere morto; costoro, condannati dalla verità a essere malvagi e ingiusti; e io accetto la pena mia, e questi la loro. Dovea forse essere cosí, e credo che ciascuno ricevuto ha sua misura.
La morte del filosofo avrà però un effetto dirompente: quello che appare come un evento, per quanto stupefacente, legato alla storia di Atene, diverrà monito ed esempio per la storia dell'Occidente; altri come lui verranno dopo, altri metteranno in discussione le certezze filosofiche e politiche delle comunità.
che tosto caderà sopra voi vendetta, piú aspra molto, per Giove, che non quella che presa avete di me, uccidendomi. Ché voi avete fatto questo, immaginando liberarvi dal dover rendere ragione di vostra vita; ma vi succederà tutto il contrario, vi dico, perché accusatori contro voi se ne leveranno piú molti, i quali ratteneva io, non accorgendovene voi; e piú saranno aspri, dal rampognare a voi la non diritta vita, pensate stoltamente: imperocché non è cotesta liberazione né possibile per niuno modo, né bella;
Il filosofo invero non avrà nulla da temere dai suoi carnefici, perché
Ma dovete sperar bene anche voi, o giudici, in cospetto alla morte: e, se non altro, credere per vero solo questo: che a colui che è buono non accade male alcuno, né vivo né morto, e che gl'Iddii non trascurano le cose sue.
L'Apologia poi si conclude con l'ultima, commovente, raccomandazione del saggio alla città, quella di prendersi cura dei suoi figli come lui aveva fatto dei concittadini, in attesa di un destino che forse sarà più luminoso per il morituro che per i vivi.
I miei figliuoli, quando saranno giovani, castigateli, o cittadini, tormentandoli come io voi, se vi paiono piuttosto aver cura del danaro o d'altro, che della virtú: e se vi paiono voler mostrare d'esser qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, come io voi, per ciò che non curano di quel che devon curare e si credono valere qualche cosa, non valendo nulla. Se ciò farete, avremo ricevuto da voi quello che giusto era che ricevessimo, io e miei figliuoli Ma già ora è di andare: io, a morire; voi, a vivere. Chi di noi andrà a stare meglio, occulto è a ognuno, salvoché a Dio.
L'Apologia è opera fondamentale, una di quelle che più ha influenzato il pensiero occidentale e costruito l'identità della cultura europea. Se per una parte considerevole degli europei l'esempio di Cristo è stato fondante, l'influenza socratica risulta incredibilmente sottostimata, strutturando invece la base etica su cui si è costruita tanta parte della nostra narrazione culturale

Platone, Apologia di Socrate, CastelloVolante

domenica 1 luglio 2018

Beppe Grillo plagia TED e questo è il minore dei problemi

Mi sono andato a leggere il post di Beppe Grillo sulla sostituzione del sistema elettivo con il sorteggio (link: http://www.beppegrillo.it/il-piu-grande-inganno-della-politica-e-farci-credere-che-servano-politici/ ). Per carità, interessante, se non fosse che si tratta di un plagio. Infatti il buon Beppe ha preso un  video pubblicato su Ted il giorno precedente alla  pubblicazione del suo post e l'ha tradotto, spacciando per sue le idee altrui (link: https://youtu.be/cUee1I69nFs). In merito poi alla proposta, non mi dilungo tanto: comparare la democrazia antica fondata sul sorteggio in comunità di non più di 50/60.000 cittadini con democrazie moderne da milioni di abitanti è come voler mettere a paragone balene e scimpanzé perché tanto sempre mammiferi sono; lo puoi fare, ma fino ad un certo punto. Due passaggi mi risultano interessanti: nel primo si sostiene che la volontà di rappresentanti così scelti rappresenterebbe più della somma delle singole volontà, e in questo a chiare lettere si rilegge Rousseau e la sua idea che la volontà della maggioranza sia di per sé la volontà dell'intera nazione e che, proprio per questo, sia automaticamente esclusa l'idea di una possibile opposizione; in un secondo passaggio si sostiene che le persone, poste di fronte ad una responsabilità, iniziano a comportarsi responsabilmente. Questo assunto mi sembra logicamente infondato e pretenzioso, assumendo la struttura dell'errore logico per cui un'asserzione si autodimostra vera senza bisogno di reale dimostrazione (come dire "è così perché è così).  In ogni caso le ragioni che dovrebbero spingere alla scelta del sistema selettivo per sorteggio appaiono, nel video come nel post, largamente fondate sull'emotività anziché sulla ragione ("i politici non fanno davvero il nostro bene", "la democrazia non funziona", "si stava meglio quando si stava peggio"), insomma il vasto campionario di reazioni facilmente ottenibili attraverso la manipolazione della realtà grazie alla distorsione del sistema di diffusione delle informazioni. In secondo luogo l'atteggiamento nei confronti del sorteggio risulta semplificatorio, non tenendo conto di note distorsioni cognitive che, pur riguardando i singoli, nel momento in cui gli stessi singoli fossero posti nelle condizioni di scegliere per la collettività, riguarderebbero tutti: penso alla questione della diffusione dell'analfabetismo funzionale fra gli adulti (che riguarda almeno il 40% delle persone dai 25 anni in su) e l'effetto Dunning-Kruger per cui l'ignorante più è tale più non sa di esserlo (cosa che già Socrate deprecava come distorsione della democrazia antica ancora 2500 anni fa circa).

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....