sabato 30 settembre 2017

Sono un migrante economico



Sono un migrante economico

Ecco, l’ho detto, in modo che mi possiate disprezzare come meglio credete.

Perché i migranti economici non sono mica solo quelli che vengono dall’Africa.

Si va via dalla propria terra anche per percorrere viaggi molto più brevi, per fortuna.

Migrante economico era mio padre, che si trasferì a Torino e venne accolto dalle insegne “Qui non si accettano cani e terroni”.

Lo è mia moglie, che per non dover sottostare alle leggi clientelari della mia terra, è partita pur tra troppi sacrifici.

Lo è mio fratello, lo è sua moglie.

Lo è mia cognata e lo è il suo compagno.

Lo è il mio testimone di nozze, lo è la sua compagna.

Io ho lasciato la mia Sicilia: l’ho lasciata perché, giunto alla laurea, ho dovuto riconoscere che quanto sentivo dire dagli altri italiani sulla mia terra era in troppa parte vero. Che c’era un sistema mafioso e clientelare, anche all’Università, che bisognava aspettare il proprio turno e ringraziare se ti facevano lavorare gratis e in nero. Ho lasciato la Sicilia perché non ho voluto cercare raccomandazioni, e questa è forse la mia unica e vera fonte di orgoglio (certo, non solo mia).

Ma essere un migrante economico vuol dire doversi sentire dire, da una direttrice di specializzazione che di Istruzione non sapeva nulla, che non poteva essere sicura che la mia preparazione fosse pari a quella dei suoi allievi parmigiani, essendomi laureato in Sicilia, per cui il mio esame sarebbe stato più duro (peccato che ai test d’ingresso avessi brillantemente superato tutti i suoi allievi, assieme alla mia fidanzata dell’epoca, e fossi entrato alla Scuola di Specializzazione come terzo in graduatoria per la classe di concorso che dovrebbe portare all’insegnamento del Latino e del Greco antico).

Essere un migrante economico vuol dire che, giunto al tuo primo posto di lavoro al Nord Italia, il dirigente ti dice che vuole gente venuta su per lavorare davvero e non per mettersi in malattia (peccato che in quello che era annoverato tra i dieci migliori licei classici d’Italia il tasso d’assenteismo fosse molto più alto tra i nativi che tra gli insegnanti venuti dal Meridione).

Essere un migrante economico vuol dire ad un certo punto fallire: a me è capitato, quando un esaurimento nervoso mi ha portato a non accettare più supplenze da pochi giorni in quel di Torino, vivendo in un Bed and Breakfast di schifezze precotte e percorrendo la città in cerca di una lavanderia a gettoni.

A quel punto sono tornato a casa, convinto di non ripartire più, ma dopo che un anno e mezzo di call center mi ha prosciugato portafogli e anima, ho deciso di non fare più ritorno in Sicilia. Da allora mi sento di aver regolato i conti con la mia terra e no, non la rimpiango né mi sento in debito con chi mi ha tolto anche solo per breve tempo la dignità.

Essere un migrante economico vuol dire dover spendere tutto il tuo stipendio per poter stare con tuo padre morente, scontrandoti con un sistema sanitario vergognoso, dei servizi inesistenti, l’incuranza di molti (e ringraziando l’umana pietà di pochi, costretti a doversi sporcare nella richiesta di favori a destra e a manca pur di aiutarti).

Oggi sono ancora un migrante economico: da qualche parte sono stato accolto come a casa, da qualche parte come un ospite. E se sei un ospite devi stare muto e accettare che le cose vadano anche in maniere che non ti piacciono.

Peccato che io non mi sento ospite, e apolide nell’anima, sono cittadino ovunque, e ovunque rivendico il diritto alla felicità come realizzazione dell’uomo. Ovunque rivendico il mio diritto a partecipare alla vita politica e sociale, ad esprimere idee e a criticare, ad integrarmi senza dovermi sentire un peso. Perché se io ho dovuto fare i conti con i pregi e i difetti della mia terra, anche gli altri devono essere in grado di farlo.

Quando vi allargate la bocca parlando di migranti economici, pensate che uno di loro potrebbe essere il vostro vicino di casa, il ragazzo seduto accanto a voi al cinema, il postino (lui è probabile proprio), il cameriere, la commessa, l’insegnante dei vostri figli, la badante dei vostri genitori.

Quando parlate dei migranti economici, e lo fate per sentito dire o per slogan politici, ve lo dico col cuore, sciacquatevi la bocca col cloroformio.

martedì 12 settembre 2017

Strategie di comprensione nell'apprendimento dal testo scritto, Maurizio Gentile

Ho finalmente avuto modo di leggere il recente lavoro di Maurizio Gentile; la sua disamina delle diverse strategie per migliorare la comprensione del testo scritto dovrebbe essere argomento di riflessione per ogni docente, i suoi consigli dovrebbero entrare nel kit degli strumenti del mestiere di ogni buon insegnate. Una lettura sintetica, efficace, consigliata.
Nel 2014, il 17,8% di quindicenni scolarizzati dell’UNIONE EUROPEA aveva un grado di competenza di lettura sotto il livello uno della scala di valutazione OCSE-PISA. In ITALIA, tale percentuale era pari al 19,5%. Entrambe le percentuali sono al di sopra dell’obiettivo UE: ridurre la quota dei lettori più deboli al di sotto del 15% entro il 2020.

Nel 2016, in base a quanto rilevato dall’indagine OCSE- PISA, l’ITALIA si posizionava significativamente sotto la media internazionale con un punteggio pari a 485. Questo risultato collocava il paese tra il 29° e il 37° posto nella lista di tutte le nazioni partecipanti all’indagine, e tra il 23° e il 28° posto circoscrivendo il confronto ai soli 34 paesi OCSE.

È evidente che nelle scuole italiane esiste una larga percentuale di “lettori inadeguati” che non capisce ciò che legge, che vive la comprensione della lettura come un ostacolo alla riuscita scolastica, all’espressione di sé, al proprio senso di responsabilità.

Su questo tema è da poco uscito un mio lavoro, pubblicato dalla rivista Form@re. L'articolo affronta l'insegnamento delle strategie di comprensione della lettura nel quadro più ampio del processo di apprendimento da testo scritto. L’insegnamento diretto di tali strategie riguarda sia alunni di primo e secondo ciclo. 

Qui il link:
http://www.fupress.net/index.php/formare/article/view/20535

sabato 2 settembre 2017

Murakami, o della leggerezza

Come definire la leggerezza in un'opera letteraria? Calvino ci aveva provato nelle sue Lezioni americane, ma se posso dire la mia, in un romanzo la leggerezza è quella capacità che ha il buon autore di toccare temi e ragionamenti alti o complicati senza indurre un complesso di inferiorità nel lettore, con uno stile piano, medio; l'abilità di volare sulle cose sfiorandole e lasciandole dischiuse al gusto di chi si sta gustando l'opera. Un esempio di leggerezza, per me, sono queste pagine di Haruki Murakami tratte da Kafka sulla spiaggia: qui il giovane professionista e il suo apparente aiutante Oshima si confrontano, una delle tante volte, su argomenti di critica d'arte, in questo caso musicale, ma il tutto avviene nel mezzo do un viaggio verso una meta ignota, viaggio condito di dettagli che ne smorzano pesantezza e pressione, come quelli sul colore delle auto sportive.
Eseguire perfettamente le sonate per piano di Schubert è una delle imprese più difficili che esistano. Ciò vale in particolare per questa Sonata in re maggiore. È veramente di una difficoltà estrema. Ci sono alcuni pianisti che possono eseguirne quasi perfettamente un paio di movimenti. Ma se si ascoltano i quattro movimenti di seguito, per quanto ne so io, non esiste un’esecuzione del tutto soddisfacente, che riesca a mantenere sempre lo stesso livello. Molti pianisti famosi si sono misurati con questa sonata, ma tutti hanno mostrato delle pecche evidenti. L’esecuzione perfetta non è ancora stata realizzata. Perché secondo te? — Non lo so, — rispondo. — Perché è la sonata in sé che è imperfetta. Schumann, che pure apprezzava profondamente l’opera di Schubert, la definì “di una noia celestiale”. — Se come composizione è imperfetta, perché tanti pianisti famosi hanno voluto eseguirla? — Buona domanda, — dice Ōshima. Fa una breve pausa, durante la quale la musica riempie il silenzio. Quindi: — Neanch’io posso dare una risposta precisa. Ma una cosa la posso dire. Le opere che possiedono un certo tipo di imperfezione, possono attrarre proprio a causa della loro imperfezione... o quantomeno possono attrarre un certo tipo di persone. Ad esempio tu sei attratto dal Minatore, perché quel romanzo ha per te un fascino che non trovi in romanzi più perfetti come Il cuore delle cose e Sanshirō. Tu hai incontrato quel romanzo. O meglio, quel romanzo ha incontrato te. Lo stesso vale per la Sonata in re maggiore. Quest’opera ha una capacità di attrarre che altre non hanno. — Allora, — dico io, — tornando alla domanda di prima, perché lei ascolta le sonate di Schubert? E proprio quando guida? — Le sonate di Schubert, e in particolare la Sonata in re maggiore, se vengono eseguite senza uno sforzo interpretativo, limitandosi a seguire la partitura, non arrivano a essere opere d’arte. Come ha fatto notare Schumann, questa sonata è troppo idilliaca, lunga, e troppo semplice dal punto di vista tecnico. Se viene eseguita senza estro, diventa qualcosa di insipido e sciatto, un pezzo da antiquariato. Quindi ogni pianista si ingegna per trovare una propria chiave interpretativa. Ad esempio come qui — ascolta — , enfatizzando un passaggio. Introducendo un rubato. Lavorando sui tempi, sulla modulazione. Se non si fa questo, subentra la noia. Però, se non si presta una grande attenzione questi stratagemmi possono distruggere la qualità dell’opera, che non sembrerebbe più una composizione di Schubert. Tutti i pianisti che eseguono la Sonata in re maggiore lottano con questa contraddizione. Ōshima ascolta la musica, accompagnando la melodia a bocca chiusa. Poi riprende: — È per questo che ascolto spesso Schubert quando guido. Come ti ho già detto, si tratta nella maggior parte dei casi di esecuzioni imperfette da vari punti di vista. Un’imperfezione di qualità, intensa, può stimolare la coscienza e destare l’attenzione. Se uno mentre guida ascolta musiche di ineguagliabile perfezione eseguite con altrettanta perfezione, è probabile che gli venga voglia di addormentarsi e morire così. Io invece, ascoltando la Sonata in re maggiore, riesco a cogliervi i limiti dell’attività umana. E imparo che un certo tipo di perfezione è raggiungibile solo attraverso un’infinita accumulazione di imperfezioni. Io lo trovo incoraggiante. Capisci cosa voglio dire? — Più o meno. — Scusami, — dice Ōshima. — Quando faccio questi discorsi, mi lascio sempre trasportare. — Ma anche nell’imperfezione, si possono distinguere diversi tipi e diversi livelli, no? — dico io. — Naturalmente. — Finora, fra tutte le esecuzioni della Sonata in re maggiore che ha sentito, quale le è sembrata la migliore? Relativamente, si intende. — È una domanda difficile, — dice. Ci pensa un po’ su. Scala di marcia, passa sulla corsia di sorpasso, supera rapidamente un grosso camion frigorifero, poi sale di nuovo di marcia e ritorna sulla corsia lenta. — Non voglio spaventarti, ma la roadster verde è una delle macchine più difficili da distinguere in autostrada di notte. È bassa, il colore si confonde con l’oscurità. Soprattutto non si vede bene dal posto di guida sui grossi camion. Se uno non sta attento, può essere molto pericoloso. In particolare nei tunnel. Per la verità le automobili sportive dovrebbero essere tutte rosse. Questo le fa spiccare molto di più. Ed è proprio per questo che la maggior parte delle Ferrari sono rosse. Ma a me piace il verde. Anche se è più pericoloso. Il verde è il colore delle foreste. Mentre il rosso è il colore del sangue. Dà un’occhiata all’orologio. Poi di nuovo canticchia a bocca chiusa insieme alla musica. — In generale, le esecuzioni migliori credo siano quelle di Brendel e Ashkenazy. Anche se sinceramente a me non dicono molto. Cioè, non arrivano a catturarmi. Per me quella di Schubert è una musica che mette in discussione e sovverte l’ordine delle cose. Questa era l’essenza del romanticismo, e in tal senso Schubert ne è l’anima. Ascolto con attenzione la sonata. — Di’, la trovi noiosa, vero? — chiede. — Sì, — ammetto francamente. — La musica di Schubert richiede allenamento, per essere apprezzata. Anch’io quando l’ascoltavo le prime volte la trovavo noiosa. Alla tua età è naturale. Ma vedrai che un giorno l’apprezzerai. Le cose che non annoiano, stancano presto, mentre quelle apparentemente noiose non stancano mai. Credimi, è così. Nella mia vita io do tutto il tempo necessario alle cose ritenute noiose, ma non ne do nessuno a quelle effimere, che prima o poi ti stancano. La maggior parte delle persone non sa distinguere tra questi due aspetti.
Calvino, Italo. Lezioni Americane: Sei Proposte per Il Prossimo Millennio. Milano: Oscar Mondadori, 2006.

Murakami, Haruki. Kafka Sulla Spiaggia. Torino: Einaudi, 2016.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....