lunedì 24 aprile 2017
Di cosa parliamo quando parliamo di integrazione
Spesso e volentieri sui media nazionali e locali si parla di integrazione, tuttavia nell'usare questo termine si fa molta confusione, confondendo modelli di riferimento. Persino nel lessico il pressapochismo è d'obbligo, sicché quando nel lessico giornalistico e politico si usa il termine integrazione, nella gran parte dei casi questo viene adoperato al posto del meno frequente ma più preciso termine assimilazione.
Intendiamo con il termine integrazione il «processo in cui gli immigrati diventano membri di pari diritti e opportunità, in base alla disponibilità da parte della maggioranza degli individui che compongono la collettività a coordinare regolarmente ed efficacemente le proprie azioni con quelle degli altri individui a diversi livelli della struttura sociale, facendo registrare un grado relativamente basso di conflitto» [Gallino 2006].
Volendo fare un po' di chiarezza, occorre prima delineare quali sono stati i modelli di integrazione prevalenti nel corso degli ultimi anni, le differenze d'approccio, e cosa concretamente avviene in Italia.
Una prima distinzione che possiamo fare è data dall'idea che muove i modelli di integrazione. Quando nel Novecento si è voluto parlare di questo argomento, almeno fino agli anni '60 l'idea che stava dietro i diversi modelli era di stampo universalistico: sostanzialmente si è ritenuto che tutti gli uomini, simili tra di loro malgrado le differenze, dovessero naturalmente tendere all'unità e a delle caratteristiche comuni.
Il primo modello di riferimento è stato quello del Melting Pot, caratteristico dell'Australia e degli USA. Secondo questo modello, universalistico, le diverse etnie e i diversi credi, naturalmente e senza intervento statale, convivendo assieme in un medesimo territorio avrebbero teso all'omologazione. Di fatto però questo modello, utopistico, ha portato alla ghettizzazione di quei gruppi etnici che hanno rifiutato l'omologazione che, anziché essere avvenuta attraverso una ridefinizione della cultura del territorio, ha teso verso l'assimilazione alla cultura della maggioranza o dell'etnia più ricca.
Il secondo modello è stato, a punto, quello dell'assimilazione. Tipico della cultura francese, ha avuto come presupposto la superiorità della cultura ricevente nei confronti delle culture dei migranti che, naturalmente,avrebbero dovuto assimilarsi alla cultura più sviluppata e che garantiva loro diritti e opportunità assenti nei paesi d'origine. Anche questo modello, persino nelle sue evoluzioni che hanno via via spostato il peso dell'assimilazione sulle seconde e terze generazioni, ha ancora una volta causato la ghettizzazione di coloro i quali non riconoscono la superiorità della cultura dominante, sfociando, come nel primo modello, in azioni di rivolta anche violenta.
Il terzo modello di riferimento è quello funzionalista, tipico della Germania: il migrante non si integra da un punto di vista culturale, è semmai visto come un ospite temporaneo a cui viene offerto una sorta di patto: la permanenza sul territorio svolgendo alcuni tipi di lavori e mestieri non graditi alla popolazione locale, in cambio di alcuni diritti. Finita la necessità della permanenza, il migrante, non integrato, dovrà allontanarsi dal territorio.
Il quarto modello, detto multiculturale, caratteristico dei paesi scandinavi e della Gran Bretagna è invece partito da una prospettiva relativista. In questo caso culture dei migranti e culture autoctone sono messe sullo stesso piano e inscatolate, quasi immodificabili, su base etnica. Secondo questo principio di fatto nessuna delle culture che vengono in contatto è tenuta a cambiare in qualche maniera, ragion per cui il modello multiculturale, su basi diverse, ha di fatto favorito la formazione di quartieri ghetto o comunque differenziati su base etnica e religiosa.
L'ultimo modello, forse quello più promettente, è quello interculturale o anche detto umanistico-partecipativo. In questo caso si presuppone che sia le culture riceventi che quelle dei migranti non siano entità immutabili nel tempo e nello spazio. In ragione di ciò la società che integra i nuovi venuti è una società in cui in ogni momento i valori condivisi sono frutto di contrattazione fra le diverse anime culturali, etniche, religiose, nella consapevolezza che non esiste una cultura ontologicamente superiore alle altre che possa pretendere in assoluto l'assimilazione ai propri valori e ai propri modi di vivere. Questo modello, fondato sull'osservazione che le migrazioni non sono fatti casuali ma strutturali nel corso dei secoli e che, in una sorta di globalizzazione dal basso, i flussi migratori, pur controllabili, non sono arginabili, prevede la reciproca volontà di integrazione, non prevedendo l'onere solo per i migranti (come per i primi modelli), o per la comunità accogliente (come per il modello multiculturale). In questa prospettiva l'integrazione è «un processo multidimensionale finalizzato alla pacifica convivenza entro una determinata realtà sociale tra individui e gruppi culturalmente ed etnicamente differenti, fondato sul rispetto delle diversità a condizione che queste non mettano in pericolo i diritti umani fondamentali e le istituzioni democratiche» [Cesareo 2004]
È evidente come quest'ultimo modello, in prevalenza teorico e con poche evidenze pratiche, tenti di superare i modelli precedenti, ognuno a suo modo fallimentari. È altresì evidente come una politica di controllo dei flussi migratori, proposta da alcune parti politiche, sia strumento limitato nel processo di integrazione, se non accompagnato da un modello che spieghi chi fa che cosa e perché nell'atto dell'integrazione culturale.
In ultimo, un cenno all'Italia: leggendo le righe precedenti una cosa è lampante, come il nostro paese non segua ad oggi nessun modello di integrazione, agendo sostanzialmente a caso, mettendo toppe senza particolare attenzione ad una politica di lungo periodo.
Bibliografia e sitografia
https://www.youtube.com/watch?v=eAzfC5Ov6SM
https://www.youtube.com/watch?v=1shMgb2mJ0s
https://www.youtube.com/watch?v=SpwVNH1K3gE
Carbone T, (2007), L'integrazione come pratica sociale: un'etnografia delle seconde generazioni a Modena, Università degli studi di Verona.
Cesareo V.(2004)(a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale, Milano, Vita e Pensiero
Gallino L.(2006), Dizionario di sociologia, UTET,Torino
domenica 23 aprile 2017
Mongol, Sergej Vladimirovič Bodrov
Uscito nel 2007, Mongol, di Sergej Vladimirovič Bodrov, è un film di ottima fattura che racconta con discreta precisione storica la difficile ascesa al potere di Temujin, meglio noto agli occidentali con il suo titolo onorifico, scambiato per nome proprio, Gengis Khan. Di Temujin si racconta la nascita all'interno di uno dei tanti clan dei nomadi mongoli, talora cristiani nestoriani, come nel caso di Temujin, l'assassinio del padre Yesugei da parte di rivali, l'infanzia difficile condotta ramingo fra le steppe. Successivamente Temujin seppe crearsi un seguito, delle alleanze, seppe vendicare i torti subiti, anche di fronte agli improvvisi rovesci, come i continui assalti che la sua orda dovete subire, sia da parte di altre popolazioni, sia da parte di altri mongoli, che lo condussero fino alla prigionia nel Catai, ovvero la Cina settentrionale. Accanto a lui la moglie Borte e, adolescente, l'amico, il fratello di sangue Jamuka, con cui condividerà tenda e letto.
Assurto al potere il nostro protagonista, Jamuka diventerà però il vero rivale di Temujin, colui che gli contenderà il dominio sui nomadi. Giunti allo scontro sarà il volere del Grande Cielo Azzurro a stabilire le sorti della battaglia: la tempesta colpirà l'orda di Jamuka permettendo a Temujin di mettere a segno le sue tattiche di guerra. Temujin, nel film, sarà clemente con il rivale, memore di un passato condiviso, lasciandolo fuggire; non così tuttavia secondo molte fonti che, pur concordi sulla commozione dovuta agli eventi, raccontano dell'omicidio di Jamuka ordinato da Temujin.
Qui di chiude in pratica il film: solo un rapido accenno alla conquista del Regno d'oro del Catai. Niente invece sull'espansione verso ovest, la conquista di parte della Siberia, della Russia e della Persia.
La produzione russo/cinese, pur con qualche intento celebrativo di troppo verso una figura che i nazionalismi asiatici fanno diventare spesso, a volte con enormi forzature, padre della patria, racconta in maniera ordinata i fatti, con un uso intelligente degli effetti speciali e un buon ritmo narrativo. Un film ben diretto che ha meritato la candidatura agli Oscar.
mercoledì 19 aprile 2017
Il pugile del Duce, Tony Saccucci
Il pugile del Duce di Tony Saccucci, partendo dalla biografia di Mauro Valeri, racconta la storia di Leone Jacovacci, ragazzone figlio di padre italiano, anzi romano, e madre congolese, venuto su tra le borgate di Roma e fattosi campione di boxe all'estero. Leone infatti, nell'Italia degli anni '20 del Novecento, fa fatica a farsi accettare per il colore della sua pelle e per il suo essere meticcio. Con un nome d'arte inglese e costretto a sottostare agli stereotipi sui pugilatori di colore, Jacovacci diventa atleta di successo nel mondo ma a fatica riesce a far riconoscere il suo essere italiano per competere per il titolo nazionale. Giunto infine al match titolato, Leone sui laurea campione; tuttavia questa vittoria segna il declino della sua carriera: l'Italia fascista non può accettare un campione meticcio e le immagini del trionfo di Leone vengono oscurate. La sua stessa figura viene messa in un angolo in favore dell'emergente Primo Carnera, perfetta incarnazione della virilità del maschio italico. Seguirà la graduale spartizione dalla scena sportiva e il venire meno del ricordo delle imprese di Jacovacci, almeno fino ad oggi.
Il documentario di Saccucci ha almeno due grandi meriti: recupera dei materiali provenienti dall'archivio dell'Istituto Luce ricostruendoli con cura filologica, inoltre dà luce di un episodio emblematico del sempre negato razzismo italiano. Soprattutto, il documentario è di piacevolissima visione, permettendo di avvicinare il profano al tema delle politiche razziali fasciste e al problema della costruzione di una memoria condivisa, memoria che non si compone solo dei grandi fatti della politica e delle guerre, ma anche e forse soprattutto degli episodi della vita di tutti i giorni e degli idoli nazionalpopolari.
martedì 18 aprile 2017
In regione la discriminazione inizia dai bambini
i figli di genitori residenti in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni.La ratio del provvedimento sarebbe il ritenere che
si debbano privilegiare quei cittadini che dimostrino di avere un serio legame con il territorio della nostra Regione, vuoi perché vi risiedono da almeno quindici anni, vuoi perché vi lavorano da almeno quìndici anni.A leggere queste parole potrebbe venire da ridere, se non fosse che, di fatto, stiamo parlando di discriminazione nel senso letterale del termine. Traducendo dal politichese e facendo un po' di rapidi calcoli, si dice infatti che vengono esclusi (visti gli scarsi posti a disposizione) dagli asili nido, tutti coloro che, facendo una media, non vivono in Veneto almeno dall'adolescenza. Se pensiamo infatti che la fascia d'età media in cui si fanno figli va dai 25 ai 35 anni circa, dire che hanno la priorità coloro che vivono in regione o lavorano in Veneto da quindici anni, vuol dire che in realtà bisogna essere nati o essere arrivati in regione entro i quindici anni di vita per poter sperare, un giorno, di avere un posto negli asili nido.
Che l'intento sia discriminatorio è chiaro a tutti, sia alle opposizioni sia a chi ha votato sulla base, dichiarata, del voler dare priorità a chi è un veneto doc. In questo modo si fanno fuori dalle graduatorie in primis i migranti extracomunitari o comunitari, vittime della sempre più pressante propaganda politica xenofoba che anima le campagne elettorali in regione, ma si mettono in coda nelle graduatorie anche altri cittadini italianissimi che, magari, hanno la colpa di essere arrivati in Veneto, non dico dalla Sicilia (come è il mio caso), ma magari dalle confinanti Emilia e Trentino troppo tardi. Il tutto per un posticcio attaccamento al territorio che è in realtà provinciale paura del diverso: anziché investire nel miglioramento delle infrastrutture, escludiamo dai servizi quelli che non ci piacciono. Ancora di più: viene ribaltato il principio della legge regionale 23. La donna che giunge oggi in Veneto, o che magari è giunta 14 anni fa ed ora ha un figlio, in questa situazione si troverà a faticare ancora più del normale nel reinserirsi nel mondo del lavoro (e dovrà probabilmente farlo a costi molto alti, pagando baby-sitter o asili nido privati); se non riuscirà, perché per esempio già in condizioni di marginalità sociale, verrà ancor di più messa in condizione di esclusione dalla società e, se straniera, nell'impossibilità di ogni vera integrazione nel tessuto sociale di riferimento. Lo stesso accadrà ai bambini, alimentando quel circolo che poi permetterà di lamentare nelle future campagne elettorali la scarsa integrazione dello straniero che non vuole essere come noi. La politica che alimenta le paure per poter sopravvivere.
Interrogato sulla questione dalla deputata Pia Locatelli del PSI, il ministro Per gli Affari Regionali Enrico Costa ha ricordato che il governo nazionale avrà tempo fino al 25 aprile per impugnare la legge regionale. Tuttavia la questione non sembra all'ordine del giorno.
È un fatto che, attraverso la campagna elettorale e una serie di provvedimenti di legge, la regione Veneto sta conducendo una politica discriminatoria: da un lato la proclamazione del bilinguismo italiano-veneto e della tutela della minoranza etnica veneta con lo scopo dichiarato di escludere dall'amministrazione pubblica funzionari non provenienti dal veneto e non graditi attraverso l'escamotage della mancata conoscenza della lingua e, ad un tempo, lo stravolgimento del principio di tutela delle minoranze, che avrebbe dovuto difendere le vere minoranze etniche come quelle rom e sinthi, tutelandone anche la cultura, e che ora invece prevede la difesa etnica e linguistica della maggioranza sulle minoranze eventualmente presenti; dall'altro con il primo vero tentativo di esclusione dai servizi primari di coloro i quali non possano vantare una presenza in regione configurabile come la nascita in loco. Sono piccoli passi, ma il percorso intrapreso è chiaro e per molti aspetti preoccupante.
The Pitt, R. Scott Gemmill
The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....
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Per chi si chiedesse come fare ad allontanarsi dai social network dei broligarchi di Trump, un po' di alternative: 1. Friendica , la cos...
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