martedì 30 luglio 2024

L'ultima cena che non era l'ultima cena

Per chi se la fosse persa, la cerimonia di apertura delle Olimpiadi del 2024 ha lasciato il suo abbondante strascico di polemiche. Alcune, nel merito della valorizzazione degli atleti, rispettabilissime; altre, riguardo la presunta blasfemia della rappresentazione, discutibili.
Al centro della discussione una presunta parodia dell'Ultima cena d Leonardo Da Vinci e, di conseguenza, di una certa tradizione cristiana. 
In foto la scena incriminata, messa a paragone di alcuni dipinti celebri

1. Philippe Katerine seminudo e dipinto di blu in versione Dioniso
2. Hans Rottenhammer's Götterfest, Hochzeit von Bacchus und Ariadne
3. Jan Hermansz. van Bijlert's Feast of the Gods* from the 1640
4. Leonardo da Vinci l'ultima cena

Si guardi in particolare 
“Il banchetto degli dei” (1635-1640 circa), di Jan Harmensz van Bijlert. 
Dioniso è rappresentato disteso in primo piano, mentre spreme un grappolo d'uva sopra la bocca (Le Monde).

Il problema della polemica è che, nel momento in cui parte della comunità cristiana ha deciso a priori che quella fosse una caricatura di Gesù e dell'Ultima cena, ha deciso anche di non considerare tutti i dettagli iconografici e non solo, sono veramente tanti, che dimostrano che quella interpretazione è scorretta: 
1) la tradizione di rappresentazioni del simposio olimpico e del komos dionisiaco, anche, ma non solo, nella pittura francese; per esempio, anche da noi in Italia, il tema è stato rappresentato da Raffaello nel 1517 alla Farnesina
2) l'aureola attributo delle divinità olimpie ben prima del cristianesimo; 
3) la presenza di Dioniso come da tradizione iconografica, anche nella pittura francese; 
4) la divinità femminile al centro, ovvero Sequana, divinità eponima della Senna presso cui si svolgeva la cerimonia; 
5) il numero di 16 persone presenti al simposio che non corrisponde al numero di partecipanti all'ultima cena di tradizione cristiana; 
6) l'incongruenza con una cerimonia che sta celebrando la tradizione olimpia (greca) e la grandeur francese con l'eventuale ripresa, anche solo satirica, di un'opera di un italiano, prodotta in Italia e conservata in Italia.
Insomma, se anche ad una prima lettura della cerimonia poteva sembrare legittima l'idea della satira o della parodia di una scena iconica della tradizione sacra cristiana, qui l'attenzione ai dettagli conta, e di dettagli ce ne sono tanti. Come fa notare David Puente su Open, insomma, andando oltre la apparenze la polemica si smonta 
Tra i vari commenti poi ho letto chi sostiene che, se il messaggio della cerimonia è stato frainteso, vuol dire che è stato comunicato male dagli organizzatori, anche al di là delle loro intenzioni. Ora, se è vero che nella comunicazione il mittente deve sempre tenere conto del destinatario e del referente, proprio questa regola ci dice che la responsabilità della polemica non può ricadere sugli organizzatori: ricordiamo che le Olimpiadi sono un evento mondiale, che quindi si rivolgono a tutte le comunità politiche, sociali e religiose del pianeta, non solo alle comunità cristiane; inoltre l'origine pagana è immediatamente evidente in tutto il rituale d'apertura dell'evento, che in qualche modo vuole richiamare, almeno nello spirito, le Olimpiadi greche, che, ricordiamolo, non erano semplicemente un evento sportivo, bensì facevano parte di complesse celebrazioni religiose pagane (e infatti furono chiuse dagli imperatori cristiani). Il referente della cerimonia è chiaro: cultura greco-romana, celebrazione del paese ospitante. Se le comunità cristiane non l'hanno colto, insomma, forse è il caso di dirci che c'è un problema in quelle comunità, a lungo nascosto dal più evidente e temuto problema dell'estremismo islamico. Infine, agisce un bias: che quando osserviamo qualcosa, esso vada interpretato esclusivamente con il nostro bagaglio di conoscenza ed esperienza, senza pensare di dover andare oltre. In questo caso la comunità cristiana identifica tutta la cultura occidentale con quella cristiana, di conseguenza, ogni cosa deve parlare del cristianesimo. E invece non è così, esiste una cultura europea che non è cristiana, che ha altre origini e a cui non interessa parlare di e con i cristiani in ogni momento, cosa evidentemente inconcepibile per questi ultimi. Come si vede, non siamo poi così distanti da quell'estremismo islamico tanto giustamente denunciato in tutta l'Europa. 

domenica 21 luglio 2024

Un buon posto in cui fermarsi, Matteo Bussola

Un buon posto in cui fermarsi, di Matteo Bussola, è un libro deludente perché tradisce le premesse da cui nasce.
Il romanzo si pone come la raccolta di più voci, diversi volti della mascolinità, da forme piu pure e dolci alle forme più virili, passando attraverso quelle che alla sensibilità moderna appaiono come forme tossiche dell'essere maschi. I diversi racconti, che attraverso singoli dettagli si intrecciano tra di loro, dovrebbero quindi dare spazio a moltitudini di esperienze umane. Il problema del romanzo è che, volendo trattare una questione sociale e culturale da un punto di vista morale, pur adottando una visione assolutamente condivisibile, finisce per essere didascalico. Le diverse visioni del mondo non compaiono, quasi mai le vediamo agite e coerenti alle azioni dei personaggi; semmai sono i narratori, sempre interni, a dichiararle, ma dato che la narrazione è sempre in prima persona non possiamo non finire per pensare che, di fatto, il punto di vista che analizza il mondo sia sempre lo stesso, anche perché i protagonisti parlano, pensano e si esprimono con la medesima voce. Insomma, i personaggi non li conosciamo perche agiscono, ma li conosciamo perché vengono detti e pensati da decine di narratori che però hanno una voce unica. La polifonia quindi, premessa del romanzo, viene tradita in favore di una sola espressione etica e morale. Alcuni singoli passaggi del racconto sono meglio riusciti di altri, ma è il complesso che finisce per essere deludente.

lunedì 15 luglio 2024

Scheletri, Zerocalcalre



"Scheletri" di Zerocalcare è un romanzo a fumetti in cui l'autore, attravereso una storia che si allunga per decceni, ci rcconta una parte della sua formazione. La vicenda si sviluppa nel quartiere alla base dei raconti di Zerocalcare, Rebibbia, e si concentra sui rapporti amicali dell'autore, le sue conoscenze, le sue paranoie, e la loro evoluzione nel tempo. L'autore racconta lo svilupparsi dei demoni che lui, come ognuno dei suoi lettori, porta dentro di sé e con i quali deve convivere, cercando di sconfiggerli. Il protagonista, l'alter ego dell'autore vent'anni prima, trascorre la sua giornata alla metro B di Roma,  per nascondere alla famiglia la decisione di non frequentare l'università. Qui incontra un ragazzo più giovane di lui, "Arloc", che nel graffitismo sfoga il bisogno di fuggire da tutto e tutti. Zerocalcare ci appare qui, ancora più del solito, vittima della "sindrome dell'impostore" che lo caratterizza, anche quando a prevalere è il sarcasmo. Tuttavia, in un mondo intorno a lui che cambia, l'autore, con il suo protagonista, sente di sentirsi e rimanere immmobile e incapace di mantenere relazioni adulte con gli amici della giovinezza. Il fatto che muove la vicenda, il ritrovamento di un dito mozzato da una mano di fronte casa, lo cristallizza in una visione stereotipata che alla fine si dimostrerà falsa, facendo emergere lacune e limiti della visione della realtà in cui il protagonista trova rifugio.
Autobiografia e fiction si mescolano in un racconto di fallimenti di un'intera generazione.

domenica 14 luglio 2024

Pao Pao, Pier Vittorio Tondelli

Pao Pao di Pier Vittorio Tondelli è un romanzo autobiografico che analizza l'esperienza della naja della generazione degli anni '80 in Italia. L'autore racconta l'anno di servizio di leva in una chiave  farsesca e amara, chiave attraverso la quale svanisce la vicenda marziale, lasciando spazio ad una narrazione che ricorda, per il tono, Comma 22 di Heller, grazie alle storie di giovani di tutta Italia che si intrecciano a quella del protagonista, tutti alla ricerca di se stessi nell'arco di tempo di un anno altrimenti sprecato. 

Il romanzo è caratterizzato da uno stile di scrittura sperimentale, attraverso la sintassi articolata e ricca, con periodi lunghi dettati dalla coordinazione, ma arricchiti dal pastiche di un linguaggio che alterna i diversi gerghi giovanili degli anni '80, quello cameratesco e marziale, e per contralto  quello della comunità omosessuale a cui Tondelli apparteneva; in mezzo a questi gerghi, le parlate regionali italiane e il linguaggio letterario. Tondelli riesce a trasmettere con la sua ironica e sarcastica visione il senso di smarrimento di fronte alla complessittà, il nonsense che pervade i suoi personaggi, senza mai cadere nel moralismo.

Pao Pao è coglie l'essenza di un'intera generazione, il ridicolo di un'epoca che si è creduta felice e che si avvicinava alla sua conclusione.

domenica 7 luglio 2024

Io a quindici anni

È la prima volta che parlo o scrivo di questa cosa, ma chissà perché, oggi sento di doverne parlare.

Io a quindici anni mi tagliavo i polsi. Oggi si direbbe che ero un autolesionista, io all'epoca avrei detto che volevo ammazzarmi ma non ne avevo il coraggio, e così mi tagliavo ma non portavo a conclusione la faccenda.
Questa storia è durata qualche mese, ero in quinta ginnasio (se i ricordi non ingannano, o forse quarta ginnasio). Io non lo so oggi perché all'epoca facessi questa cosa: oggi sono una persona diversa dall'adolescente che ero, e domani sarò diverso dall'uomo di oggi; ma ricordo che stavo male, che mi sentivo solo, che mi sembrava di essere diverso da tutti, e che non sapevo come relazionarmi con gli altri. Con l'altro sesso, poi, non ne parliamo, tanto che a volte mi sarei augurato di essere omosessuale, peccato non lo fossi. Una roba sessista e stupida, ma così era a quei tempi.
Nella mia classe del liceo ci stavo male: non è che i miei compagni facessero qualcosa in particolare per farmi stare male, non ero bullizzato, ma semplicemente io non avevo nulla da dire e spartire con loro: loro sembravano già pronti alla vita, io non sapevo neanche da dove partire per capire qualcosa di me.
Leggevo e giocavo ai videogiochi. Basta. I miei mi dicevano di uscire, e a volte lo facevo pure: un giro per le strade, e nulla, a me degli altri interessava nulla, fondamentalmente perché mi sembrava che agli altri non interessasse nulla di me. Oh, tutte queste cose sono quelle che ricordo di quasi trent'anni fa, o che forse voglio ricordare: non sono uno psicologo e non voglio fare psicanalisi da quattro soldi.

Così ho cominciato a tagliarmi. Succedeva quando i miei uscivano di casa, ma finiva lì, mai il coraggio di andare oltre. 
I miei compagni lo sapevano, a qualcuno avevo fatto vedere i tagli, a qualcuno dicevo che sarebbe stato meglio morire, che bella la morte, cose del genere.
Poi una volta ci fu un'assemblea di classe, e allora successe il patatrac: una compagna sollevò la questione, dicendo che dovevo smettere di tagliarmi perché i miei tagli le facevano "impressione". Io ricordo solo che da quel momento non ho sentito più niente di quella discussione, come un fischio che era più un boato nelle mie orecchie. Violavo una norma sociale, e insomma, dio buono, davo fastidio, dovevo smetterla. Ricordo che fecero entrare la professoressa (o era già lì? Era tutto preparato? Un agguato?) che, diceva, non ne sapeva niente. A questo punto come pubblico ufficiale doveva intervenire. Mi portò fuori, mi parlò. Io non sentivo nulla, ancora quel boato tra le orecchie e una sensazione sempre più pesante del mondo che scivola via sotto i tuoi piedi. Chiamò la mia famiglia.

Tornato a casa accadde quello che doveva accadere: i miei cercarono di parlarmi, mai apertamente, ma cercarono di dire che se avevo bisogno, se stavo male, loro volevano aiutarmi, proposero lo psicologo; non ci andai mai. Poi seguirono settimane, mesi penosissimi: ogni scusa era buona per controllarmi polsi e braccia. Non gliene faccio una colpa: reagirono come poteva reagire una coppia che aveva dato alla luce un figlio negli anni ottanta nell'Italia di provincia. Non vivevo nella New York di Woody Allen, stavo a sette chilometri da Catania.
Se già non avevo voglia di vedere gli altri, ora la vergogna mi faceva sprofondare. E quella sensazione di essere lo scarto dalla norma che non andava via.

Mi ci volle tanta lettura per crescere: leggevo filosofia greca, filosofia moderna e contemporanea. Non è che la filosofia abbia fatto passare i miei traumi, o non è che la filosofia sostituisca lo psicologo da cui sarei dovuto andare e non sono andato. Ha fatto bene a me (forse, neanche ci giurerei), ma chissà agli altri.
In più, tra i miei genitori e le mie letture, ho interiorizzato quella contraddizione che sentivo sulla mia pelle: ero lo scarto della norma (una piccola norma sociale stupida e importante forse per poche persone, ma tant'è) e la norma era importante, le leggi sono dentro e fuori di noi, stoicismo da quattro soldi e Kant frainteso buttati lì, a secchiate. Poi per fortuna c'erano Socrate e Nietzsche che si guardavano male l'uno con l'altro e che però mi dicevano che non avevo certezze su nulla, e che tutto sommato andava bene così. E niente, uno condannato a morte, l'altro morto pazzo. Forse avevano ragione quelli della norma e della normalità.

La mia vita è cominciata finito il liceo, quando all'università ho incontrato sensibilità più vicine alla mia. Lì ho scoperto di non essere uno scarto, di esserci anche io. Poi avevo un carattere di merda comunque, ma quella è un'altra storia.

Il punto è che oggi quando vedo un adolescente nelle mie classi mi chiedo come si senta, se nasconda quello che nascondevo io, se sta come stavo io. Poi arriva lo stoico che è in me, le leggi morali superiori, il dovere, quello che mi fa incazzare se non lavoro bene io e se non lavora bene lui. Ma il quindicenne che è in me ogni tanto si fa sentire, e se lo ricorda quanto si sta di merda da adolescenti, e due sberle gliele tira allo stoico, che male non gli fanno. Penso al casino che succederà a casa mia quando mio figlio diventerà adolescente, povera stella.

Capite che io ho un casino in testa non da poco, e questo è il motivo per cui anche da adulto mica sto bene bene.

giovedì 4 luglio 2024

La parola ai giurati, William Friedkin

La parola ai giurati, diretto da William Friedkin, è un remake dell'omonimo film del 1957 diretto da Sidney Lumet.


Il film riprende praticamente alla lettera l'opera originale del 1957, la quale, a sua volta, era il riadattamento di una pièce teatrale del 1954 scritta da Reginald Rose.

Si tratta quindi di un dramma giudiziario che si svolge di fatto in una sola stanza, la stanza in cui una giuria, composta da 12 uomini (da cui il titolo originale dell'opera, 12 angry men) deve stabilire la sentenza su di un presunto caso di omicidio. Se alla prima votazione (11 giurati per la colpevolezza, uno per l'innocenza) appare quasi certa la sorte dell'imputato, un ragazzo latinoamericano accusato di aver ucciso il padre accoltellandolo dopo una lite, a poco a poco le certezze granitiche vengono messe in discussione. 
Gradualmente il giurato innocentista riesce a seminare dubbio tra i colleghi. All'analisi delle prove si evidenzia quindi come il valore e la credibilità di queste fosse in realtà rafforzato o fondato esclusivamente sui bias, sugli stereotipi a cui ciascuno dei giurati era soggetto. La ricostruzione logica dei fatti pone così in dubbio le testimonianze, fino a ribaltare la situazione iniziale, con 11 giurati convinti dell'innocenza dell'imputato e uno per la colpevolezza. Nelle scene finali quindi emerge come anche quest'ultimo giurato sia costretto a prendere atto di voler condannare l'imputato per il proprio rancore nei confronti del figlio anziché per la forza e la ragionevolezza delle prove.

Il dramma è sì un dramma giuridico, ma prima ancora, anzi, forse ancora di più, è un dramma filosofico. Il giurato da cui parte il movimento della vicenda non afferma mai di sapere l'innocenza dell'imputato, semmai ragiona sul suo non saperne la colpevolezza. L'opera propone una visione relativista della realtà: le testimonianze potrebbero e non potrebbero essere vere, l'imputato potrebbe o non potrebbe essere un omicida, ma la giuria, nel momento in cui deve decidere della vita o della morte di un ragazzo, sceglie di non poter condannare qualcuno alla luce dei tanti ragionevoli dubbi emersi. Alla fine della vicenda, tutti i giurati (con la sola potente e xenofoba eccezione di uno) escono dall'aula sapendo di non sapere. Quello che abbiamo di fronte quindi pare quasi un dialogo socratico ambientato nel XX secolo. 
Una visione consigliata, in qualsiasi forma la si possa recuperare.

martedì 2 luglio 2024

Quando muori resta a me, Zerocalcare

 


Quando muori resta a me è l'ultimo romanzo a fumetti di Zerocalcare. 
Nel romanzo, il protagonista, Zero, condivide un viaggio in auto con il padre, raffigurato sotto la forma della papera Ping Ping, verso il paese natale della famiglia paterna sulle Dolomiti venete.

Attraverso flashback dell'infanzia del protagonista, che si intreccia con la maturità del padre, e viaggi indietro nel tempo fino alla Grande guerra e allo spostamento della famiglia dal Veneto a Roma, l'autore compie un tragitto di analisi del rapporto tra maschi, e in particolare tra padri e figli.

I legami forti e traditi instauratisi durante la Grande guerra si intrecciano così con l'incomunicabilità tra padri e figli, connaturata ad una cultura radicalmente maschilista e incapace di affrontare il fallimento del maschio nella costruzione della propria famiglia, il divorzio e l'allontanamento dal figlio.

Così Zero è costretto a fare i conti con i propri e gli altrui sensi di colpa, un mostro che prende facce familiari e che non permette di vedere come, sotto la scorza di uomini che non sanno parlare di sé, scorra costante il fiume degli affetti.

Lettura sensibile e agrodolce della famiglia italiana, della perdita dell'innocenza e dell'ingresso nella maturità, e dei retaggi culturali che è difficile cancellare.

Almeno la modestia per non guardare dall'alto in basso questi ragazzi

Eccoli lì, quelli della mia generazione, i savi, gli adulti, che guardano ai maturandi di quest'anno, e niente, signora mia, che scene, che vergogna.
Oggi abbiamo il professor Caccamo, quello che fa il comico, ma di una comicità per cui ridono soltanto gli insegnanti boomer, che aizza la polemica


Caccamo, uno dei tanti insegnanti influencer, ci insegna quanto sia uno scandalo il comportamento dei giovani, quanto fosse meglio prima, quanto "ai miei tempi...".
Che noia questo atteggiamento, soprattutto tra i docenti che pretendono di essere adulti, all'occorrenza, e all'occorrenza giovani, sono influencer, loro, sono su Tik Tok, loro, perché solo la loro generazione ha saputo essere perfettamente, compiutamente, giustamente giovane: quelle precedenti no, perché no, quelle successive neanche, perché neanche... Invece a me pare di vedere generazioni che criticano quella successiva perché si prende quello che loro non hanno voluto o saputo prendersi: la celebrazione di un traguardo, come il superamento dell'Esame di Stato (che magari per qualche studente sarà pure l'unico traguardo mai superato...), o perché gli studenti di oggi hanno più consapevolezza di quanto bene facciano a scuola, e lo vogliano riconosciuto da generazioni di ex studenti saliti su una cattedra che, insomma, discutiamone poi con che meriti. Stiamo sempre a dire alle scolaresche "fuori non ti capiranno" e che per questo si devono abituare a delusioni e, all'occorrenza, alle angherie. Li accusiamo di essere fragili perché non vogliamo vedere che vogliono essere giusti; pretendiamo severità e rigore, senza vedere che offriamo due torti, anche se due torti non fanno una ragione: se nella vita fuori dalla scuola noi adulti non siamo capaci di capire i sacrifici o i risultati altrui, questo non è colpa dei ragazzi, è un problema nostro, e quando diciamo loro che devono abituarsi agli insuccessi e ai soprusi è un modo molto comodo per evitare di mettere in discussione noi e il nostro mondo.
La cosa ridicola poi è che non lo volete ricordare, l'avete rimosso, ma dall'annata 1999-2000, per qualche tempo, un anno pare, il superamento dell'Esame di Stato si celebrava istituzionalmente: era stata istituita la cerimonia della consegna dei diplomi con la proclamazione dei voti, in pompa magna, da parte del dirigente scolastico, alla presenza dei genitori e degli studenti tutti. Ma dato che quella volta ad essere celebrati e festeggiati eravamo noi, quella era cosa buona e giusta.
Basta scrollare su Facebook, su Twitter, per imbattersi in questa deriva insegnantecentrica. Orde di quaranta-cinquantenni per i quali: "Questa generazione è troppo fragile e non sa resistere ai traumi, per questo non sopportano i voti".
Questa generazione: nata con la crisi economica più grave dal 1929, ha visto una pandemia, due guerre ai confini dell'Europa, l'ascesa delle democrature e degli autoritarismi, il cambiamento climatico (tutti traumi causati dai quarantenni e oltre di cui sopra).
I quarantenni, invece: i traumi infantili dovuti alla visione di Georgie, Candy Candy e poi Beverly Hills 90210 (vi concedo la paura dell'AIDS, il trauma dell'undici settembre e i fatti del G8 di Genova, ma mai avete temuto di non rivedere la socialità o di andare in guerra come i vostri studenti). 
Noi almeno abbiamo avuto la caduta del muro di Berlino, la fine dell'URSS, la diffusione della rete e la globalizzazione, l'Europa Unita. 
Noi abbiamo potuto sperare. Questi ragazzi, invece?

Francamente non so come mai non ci abbiano ancora fucilati tutti.


The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....