mercoledì 30 agosto 2023

Perché non è corretto addossare alle vittime la responsabilità degli stupri

 Riflettendo su alcuni recenti casi di cronaca, e su come i media ne stanno discutendo (Giambruno è la controfigura di polemisti come Shapiro) ho deciso di provare a condurre un ragionamento che spieghi il fenomeno della vittimizzazione secondaria.


Sostanzialmente in questi giorni da più parti si è sentito dire che chi rischia di essere vittima di un reato legato alla violenza di genere, parliamo soprattutto degli stupri, dovrebbe adottare comportamenti responsabili: il non detto (neanche troppo taciuto) sarebbe che chi subisce reati legati alla violenza di genere è stato con i suoi comportamente parzialmente responsabile di quanto accaduto, perché, adottando comportamenti non responsabili la vittima si è messa in pericolo. 

Possiamo osservare qui un primo problema, al contempo terminologico e concettuale: secondo questo ragionamento rischio e pericolo sono la stessa cosa. Si fa evidentemente confusione: il pericolo è per definizione totalmente indipendente dalle azioni della vittima, ad esempio pensiamo al crollo improvviso di un ponte mentre lo si attraversa in auto, alla diffusione di una nube tossica, etc.. Insomma, la vittima non può essere colpevole dell'essere in pericolo.

Evidentemente quindi qui secondo il ragionamento condotto sui media non parliamo di "pericoli", ma di condizione di rischio: il rischio è infatti dipendente dalle azioni umane, come ad esempio quando decidiamo di camminare o correre  su un pavimento bagnato opportunamente segnalato o assumiamo farmaci scaduti o non seguendo le prescrizioni. Chi subisse un danno in una condizione di rischio siffatta andrebbe considerato responsabile di essersi messo in questa situazione. 

Osserviamo però che potenzialmente ogni azione umana implica una condizione di rischio: se la mattina non ci alzassimo dal letto non rischieremmo di cadere; se non uscissimo di casa non rischieremmo di essere investiti; se non acquistassimo un'automobile non rischieremmo di vedercela rubare. Possiamo quindi dedurre che non è ragionevole colpevolizzare ogni azione che compiamo, visto che ogni azione implica una certa dose di rischio.

E quindi, in che situazioni si può parlare di responsabilità della vittima nell'essersi messa in condizioni di rischio?
Solo alcune condizioni di rischio possono indurre ad addossare alla vittima la responsabilità di quanto subito, allorché l'effettivo realizzarsi di ciò di cui si paventava il rischio costituisce un danno per il singolo e per la comunità, tanto che risulta più conveniente che il singolo e la comunità non realizzino quelle condizioni. In questi casi infatti osserviamo l'intervento dello Stato o della comunità per impedire le condizioni di rischio; se queste non sono eliminabili quando meno esse vengono opportunamente segnalate, come con la varia segnaletica a cui siamo abituati nelle nostre strade. Si evince quindi che possiamo parlare di responsabilità della vittima a partire da un rapporto di costi/benefici per il singolo e per la comunità che se ne fa carico.

E qui viene il nodo: la comunità si fa carico della violenza di genere e degli stupri?

In realtà osserviamo che nei luoghi di ritrovo, di intrattenimento e socialità non sono vietati o realmente impediti vendita e uso degli alcolici che possono indurre le vittime della violenza alla perdita dei sensi e del controllo della situazione, infatti vendita e uso degli alcolici sono propagandati e incentivati dallo Stato stesso, pèur con formule generiche come "bevi responsabilmente"; ugualmente nei luoghi di ritrovo, di intrattenimento e socialità non sono vietati o realmente impediti vendita e uso degli allucinogeni, per i quali occorrerebbe o una militarizzazione delle nostre strade che la nostra società non accetta, o la loro legalizzazione e la vendita controllata da parte dello Stato, cosa ugualmente non accettata; osserviamo che non esiste in Italia un'adeguata educazione all'affettività e alla sessualità che limiti l'impatto degli stereotipi di genere tramandati da secoli, educazione anzi demandata alla famiglia con tutti i suoi limiti. 

È evidente insomma che nelle supposte condizioni di rischio legate alla violenza di genere non si realizza nessuna delle azioni di contenimento da parte della comunità. Anzi, osserviamo come in questo ragionamento si assuma come normale l'idea che l'uomo sia "cacciatore" e che abbia l'esigenza di sfogare i propri appetiti sessuali, tanto che in molti casi la prima reazione è quella di marchiare la vittima come poco di buono, sostenere che in fondo "alla donna piace" quanto le accade, realizzando insomma un ragionamento circolare: la vittima è tale pperché le piace, e le piace perché è normale che sia vittima.

Secondo questa visione quindi tutto sommato lo stupro è qualcosa di normale nella società, ma basta aver seguito il ragionamento e le confutazioni per accorgersi dell'abominio di questa tesi.

Questo è un ragionamento contraddittorio, che finisce per ritenere normale o fatalisticamente inevitabile che la violenza di genere e gli stupri esistano, addossando alla vittima la responsabilità di qualcosa che si vuole lasciare nell'ambito del privato (l'educazione alla sessualità all'interno della famiglia) o del sommerso. 

In conclusione, quella di cui si sta realmente discutendo è una condizione di pericolo, non di rischio: una condizione in cui la  vittima, anche lì dove abbia adottato comportamenti moralmente diiscutibili, non ha responsabilità rispetto all'agire di chi la aggredisce; quell'agire è infatti fatalisticamente tollerato (se non approvato) e comunque nessuna reale arma di prevenzione viene adottata per impedirlo, nel momento in cui la circolazione di sostanze psicotrope non è realmente contrastata o gestita dallo Stato, il consumo degli alcolici è sponsorizzato dallo Stato stesso e non esiste traccia di educazione all'aaffettività e alla sessualità. Per tutto ciò chi fa comunicazione, informazione, divulgazione su questi argomenti dovrebbe in ogni modo evitare di fare anche solo lontanamente pensare che nella violenza di genere, negli stupri ci possa essere un concorso di responsabilità.


martedì 29 agosto 2023

Giambruno è la controfigura di polemisti come Shapiro

Foto: Corriere.it

È di queste ore la polemica, l'ennesima, sulle parole di Andrea Giambruno, giornalista di Mediaset e compagno della presidente del consiglio Giorgia Meloni. Giambruno, commentando i recenti casi di stupri di Caivano e di Palermo, soprattutto in riferimento a quest'ultimo, ha sostanzialmente detto che la responsabilità degli stupri è ovviamente degli stupratori, ma che in ogni caso buonsenso consiglierebbe di evitare situazioni di pericolo, quindi che una donna ha tutto il diritto di fare quello che vuole, ma che se si ubriaca è facile che incontri "i lupi" perché la realtà non è fatta di diritti.

Andrea Giambruno sugli stupri: «Se eviti di ubriacarti, non trovi il lupo».

Giambruno fa qui riferimento ad una categoria logica ben presente in tutti noi, quella del buonsenso, categoria di cui dovremmo imparare a fare a meno (si veda Facciamo che la smettiamo di parlare di "buonsenso"?) e che accorpa stereotipi e luoghi comuni avvalorati dall'essere patrimonio di una maggioranza della popolazionee, quasi mai verificati o realmente aderenti alla realtà. In fin dei conti quando si parla di soluzioni di buonsenso si gioca sulla fallacia logica ad populum, l'idea che un'opinione condivisa a maggioranza sia ipso facto valida e ragionevole. Questo modo di argomentare è ampiamente adoperato e diffuso nell mondo conservatore, in special  modo in quello repubblicano statunitense, grazie soprattutto ad opinionisti come Ben Shapiro che hanno larghissimo e facilissimo successo. Giambruno sta semplicemente facendo in Italia qualcosa che polemisti come Shapiro hanno già fatto negli USA. 


Ascoltate le parle di Shapiro sulla responsabilità dello stupro. Miracoloso il passaggio in cui Shapiro afferma che due cose in antitesi possono essere contemporaneamente vere, un passaggio linguisticamente perfetto, logicamente falso. Capire che la competizione con la destra si combatte sui dati e sulla comunicazione è l'unico modo per non perdere. Per essere chiari su questa competizione, si guardi nuovamente Shapiro discutere di cambiamento climatico


Questo tipo di retorica va sbugiardata mettendone in luce le implicazioni paradossali con esempi come "Se esci e ti rubano la macchina è un po' anche colpa tua; hai pieno diritto di girare in macchina, ma se la tiri fuori dal garage devi anche mettere in conto che te la rubino". Un esempio perfetto? Questo splendido sketch di Chiara Becchimanzi


sabato 26 agosto 2023

Il silenzio, Don DeLillo

 


Nel 2020, ancora in piena emergenza pandemia, Don DeLillo pubblica Il silenzio, opera che evidentemente risente di quanto sta accadendo nel mondo. Cinque personaggi si alternano e si incrociano. I primi sono Jim Kripps e Tessa Berens che vengono colti da un'improvvisa emergenza mentre sono in volo: improvvisamente l'aereo su cui si trovano è costretto ad un atterraggio d'emergenza a causa dello spegnimento di tutti i dispositivi digitali. Intanto nell'East Side di New York Diana Lucas, Max Stenner e Martin Dekke li attendono a casa per un evento mondiale, la finale del Superbowl; poco prima della partita lo schermo della televisione diviene nero, la catastrofe è planetaria, il digiale è morto, funziona solamente la tecnologia analogica.

I cinque personaggi, che riescono alla fine a ricongiungersi, si alternano in domande, supposizioni, angosce e teorie. Ne emergono alcuni aspetti chiave: DeLillo descrive la società digitalizzata come in procinto di una zombificazione, che rimane inerme e inerte di fronte agli schermi neri. Una società che accetta il cambiamento antropologico figlio del cambiamento tecnologico senza chiedersi cosa e come stia avvenendo. Una società egoriferita, di gente che non vive nella società. Tutti sono presi di mira: l'uomo medio deluso dalla vita, che di fronte all'emergenza cerca uno sfogo per le sue delusioni, come Diane:

 Voglio riprendere a insegnare, voglio tornare in classe, parlare con i miei studenti dei principî della fisica. La fisica di questo, la fisica di quest’altro. La fisica del tempo. Il tempo assoluto. La freccia del tempo. Tempo e spazio. Voglio citare, e poi mi taccio, una frase a caso da Finnegans Wake, libro che sto leggendo a sprazzi, qua e là, da un tempo che definirei immemore. Questa frase è rimasta al sicuro nell’apposita sacca della mente dove si conservano le parole. Prima che il sockson luccasse le dure. Ho ancora un’ultima cosa da dire. A me stessa stavolta. Taci, Diane.

Ma anche gli intellettuali e il loro mondo di dubbi egoriferiti, incarnati da Tessa:

 Io scrivo, penso, consiglio, fisso nel vuoto. È naturale in momenti come questo pensare e parlare in termini filosofici, come alcuni di noi stanno facendo? Oppure dovremmo avere un atteggiamento piú pragmatico? Qualcosa da mangiare, un luogo dove stare riparati, amici, tirare lo sciacquone, se possibile? Tendere alle cose fisiche piú semplici. Toccare, percepire, mordere, masticare. Il corpo alla fine fa di testa sua.

Tuttavia le teorie del più geniale dei personaggi, Martin, che cercano di spiegare gli accadimenti, sono lo specchio di un'altra fetta di società, speculare comunque alla comunità descritta negli altri personaggi; quella di Martin è la popolazione che vede il complotto ovunque, paranoica, luddista, vittima a sua volta di bias cognitivi che ne caratterizzano il ragionamento narcisistico:

– Nessuno vuole chiamarla Terza guerra mondiale, ma è di questo che si tratta, – dice Martin.

e poi ancora  

 E le strade, queste strade. Non ho bisogno di guardare fuori dalla finestra. La folla ormai dispersa. Le strade ormai vuote.

Questo è quanto dice il giovane Martin, lo sguardo rivolto verso il basso tra le dita a ventaglio.

– Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?

A tutti si contrappone Max, ingenuamente pragmatico. L'unico che osa uscire dalla stanza per andare a vedere cosa davvero sta accadendo fuori, e che torna poi a fissare lo schermo in attesa che qualcosa accada:

Max non ascolta. Non ha capito niente. Sta seduto davanti al televisore con le mani intrecciate sulla nuca, i gomiti all’infuori.

E poi fissa lo schermo nero.


 Mi sembra evidente che Il silenzio sia un romanzo della pandemia. Non perché parli della pandemia da Covid19 in sé, ma perché analizza e mette allo scoperto paure e idiosincrasie emerse negli anni dopo il 2019. La paura di rimanere totalmente soli senza nemmeno il digitale a garantirci un aggancio con il mondo fuori, e la scoperta di essere sempre stati soli; la scoperta che competenze e conoscenze profondissime ma settoriali non garantiscono affatto la capacità di analisi di avvenimenti del tutto inaspettati e fuori dalla nostra portata; la scoperta di quanto il rapporto con la realtà sia filtrato dalle tecnologie che adoperiamo dalla notte dei tempi; la scoperta, infine, di quanto i nostri comportamenti siano spesso egoriferiti, e di come un'emergenza globale ci faccia scoprire la nostra esigenza di essere individui nel momento in cui è più evidente il nostro esistere solo in quanto collettività.

Stilisticamente l'opera si può dividere in due sezioni: la prima, narrativa, che mette in scenda l'accadimento; la seconda dialogica e riflessiva, che analizza i personaggi alla luce degli accadimenti. Soprattutto nella seconda parte, in cui accanto al dialogo fanno da padrone il monologo e il monologo interiore, DeLillo appare più didascalico; lì dove all'autore, pur sempre un peso massimo della letteratura, servirebbe la capacità di essere massimamente analitico, di essere un David Foster Wallace, o di essere massimamente tragico, di essere un McCarthy, per intenderci, in entrambi casi a mio giudizio DeLillo non riesce. È come se l'esigenza di esprimersi dell'autore, in questi casi, abbia superato la necessità di lavorio letterario e di scavo che l'opera avrebbe richiesto.

Ugualmente Il silenzio, romanzo breve, è un'opera di cui si può consigliare la lettura come esempio eccezionale di analisi contemporanea di un'esperienza altrettanto contemporanea ed eccezionale, come quella che la nostra generazione ha vissuto negli ultimi anni.

sabato 19 agosto 2023

Ancora sulla valutazione: risposta alla lettera del dirigente scolastico Citarelli

 Il 10 aprile 2023 il dirigente scolastico Citarelli ha sentito la legittima necessità di dire la sua sulla questione della valutazione, inviando una lettera ad Orizzonte Scuola. Trovo interessante questa lettera, perché proviene da un addetto ai lavori, qualcuno che ha potere decisionale nella scuola e un certo seguito sui social. Per analizzare la lettera, e confutarne premesse e considerazioni, ho deciso di mapparla. Di seguito quindi troverete la mappa argomentativa del testo originale che ne esplicita tesi, premesse e argomentazioni, nonché ne segnala gli errori logici e ne confuta i passaggi.

Link


La tesi del dirigente scolastico è che la valutazione numerica, il voto, sia l'unica forma di valutazione significativa e che sia ingiustamente messa sotto attacco. L'autore della lettera inizia ad argomentare sostenendo che

Chi continua, ormai, tutto sommato, da vari decenni, a demonizzare i voti, rispetto agli stessi apprendimenti ed al successo formativo degli alunni, vive in una realtà parallela, che non corrisponde al comune intendere e sentire della stragrande maggioranza di alunni e famiglie.

La premessa di questo ragionamento è la fallacia logica dell'argumentum ad populum, che scambia la comodità di una decisione a maggioranza con l'idea che la maggioranza, in quanto tale, abbia sempre ragione; ovviamente sappiamo che la maggioranza può prendere clamorose cantonate e che richiamare l'idea che il comune sentire veda in una certa maniera la valutazione non sposta di un millimetro la questione della validità della stessa.

Successivamente Citarelli inanella una serie di premesse che dovranno sostenere succcessive argomentazioni. Dice l'autore:

Per “valutazione” è da intendersi, oltre che l’atto del valutare, anche il “dare valore”. Quindi, valorizzare il potenziale di tutti gli alunni, accogliendo anche le diversità di ciascuno di essi nel percorso di insegnamento/apprendimento.

Ma

“Valutare” e “valorizzare”, ad ogni buon conto, nel linguaggio corrente hanno un differente significato.

Cioè

Valutare significa attribuire un valore, stimare (un oggetto, un terreno, una prestazione, ecc…). Serve, in tal caso, qualcuno che per i suoi studi e la sua esperienza abbia gli strumenti per farlo.

E

Valorizzare vuol dire, invece, far acquistare valore o mettere in risalto il valore di qualcosa o di qualcuno. Nel caso del docente, vuol dire mettere un allievo nelle condizioni di scoprire e utilizzare al meglio le proprie capacità; una competenza, questa, che integra quella strettamente disciplinare.

Ciò che viene lasciato implicito è che per l'autore entrambe le funzioni sono assolte a dovere e unicamente dal voto numerico. Alla luce di quanto detto il dirigente sostiene che

Possiamo, dunque, adesso porci il quesito, se gli studenti siano stimolati o demotivati da un voto negativo. C’è prima di tutto da chiedersi se, da questo punto di vista, esista differenza tra un 5 e un “insufficiente” o un “iniziale” o tra un 4 e un “gravemente insufficiente” o “in via di prima acquisizione”. E possiamo chiederci se è vero, come molti credono, che le parole siano “più eque e meno limitanti” dei voti decimali.

La premessa implicita di quanto qui sostenuto è che non ci sia una reale differenza informativa fra voto numerico e valutazione descrittiva: entrambe fornirebbero le stesse informazioni e non ci sarebbero particolari vantaggi nel passaggio dai numeri alle descrizioni. Da ciò deriverebbe che 

La risposta a tali quesiti è tanto evidente, da non richiedere ulteriori approfondimenti, dal momento che risulta chiaro che una valutazione negativa espressa tramite giudizio sintentico non possa demotivare in misura minore rispetto ad una valutazione negativa espressa con voto decimale; l’unica differenza è che quella con voto decimale risulta molto più comprensibile, sia per gli alunni che per le famiglie (e possiamo allora dedurne anche che le succitate “parole” non sono “più eque e meno limitanti” dei voti decimali). Meglio discutere, dunque, degli effetti di una valutazione negativa, comunque sia espressa.

A questa argomentazione si può facilmente contestare che avendo fondato il ragionamento su una petizione di prinipio - non c'è differenza fra voto numerico e giudizio sintetico perché giudizio sintetico e voto numerico sono di fatto la stessa cosa -, il discorso si infrange sull'impossibilità di essere dimostrato, tanto che l'autore è costretto a sostenere che si tratti di qualcosa talmente evidente da non dover essere dimostrata. Inoltre, definendo "del tutto evidente" l'autore evita di citare i dati che smentiscono la sua asserzione, frutto di quasi un secolo di ricerca pedagogica, incorrendo nella fallacia dell'evidenza soppressa. In ultimo, l'autore evita  di citare dati a sostegno della propria posizione che siano frutto di documentazione scientifica, venendo meno all'onere della prova.
Possiamo osservare come il dirigente scolastico prosegua il proprio argomento, di fatto limitandolo, sostenendo che

È ovvio che [gli effetti della valutazione] in buona parte dipendono dalla sensibilità e dal carattere dello studente, ma anche, e forse soprattutto, dalla qualità del rapporto con l’insegnante. All’interno di un rapporto di fiducia, la valutazione negativa può non fare piacere, come è logico, ma è probabile che sia un incentivo a fare meglio. E proprio in tal senso, più è chiara, più l’incentivo risulta evidente ed in certo senso funge maggiormente da “stimolo” (a migliorare).

Così facendo l'autore però  pone dei limiti alla stessa validità della propria argomentazione, tra l'altro avallando l'idea che lo studio debba dipendere da motivazioni estrinseche (il voto) anziché intrinseche (la volontà di apprendere di più e meglio). Lo stesso autore finisce per confermare che l'aspetto realmente importante della valutazione è la descrizione della prestazione, cioè quella forma di feedback che permette di rendere significativa la valutazione per il discente, e infatti è costretto ad ammettere che l'esito della valutazione dipende dal rapporto docente - discente, non dalla semplice lettura del voto numerico, di per sé un significante vuoto.

Citarelli porta successivamente una terza argomentazione.

Il voto rappresenta, in ogni caso, un elemento di chiarezza che, nella mia personale esperienza (e, aggiungo, anche in quella dei docenti con i quali mi sono confrontato, sia da collega che, successivamente, da Dirigente), gli alunni apprezzano (e che io stesso ricordo molto bene di avere apprezzato anche da alunno, soprattutto allorquando, con mia somma delusione, entrato in prima media, nel lontano 1978, scoprii che non sarei stato più valutato tramite i miei amati voti, bensì tramite un giudizio descrittivo!).

Osserviamo qui come l'autore della lettera ricorra all'aneddotica per motivare una asserzione che pretende di essere rigorosa, universale, e necessaria , e che quindi, per questo, avrebbe bisogno di ben altri dati a suo sostegno. 
Citarelli continua sostenendo che

Il giudizio descrittivo (anche in forma sintetica) è spesso ondivago, sottoposto da parte dei genitori a mille interpretazioni (anche in considerazione del dato di fatto che non tutti i genitori posseggono gli strumenti interpretativi adeguati), laddove il voto numerico è preciso, secco, universalmente comprensibile e non dà adito ad interpretazioni difformi e/o sommarie. Il giudizio può essere inteso in maniera molto personale; la valutazione in decimi, come risulta intuitivamente evidente, no.

Ma l'autore non porta prove al riguardo. Lui stesso ammette che la sua sia una semplice opinione, asserendo che la differenza fra giudizio e voto è semplicemente intuibile, cercando di spostare il discorso dagli esiti della ricerca scientifica a quelli dell'esperienza aneddotica e personale, quindi soggettiva.
Nondimeno il discorso del dirigente scolastico prosegue su questa linea argomentativa sostenendo che

L’alunno, già dalla scuola primaria, dovrebbe avere contezza dell’importanza di una prova (scritta od orale che sia) e dovrebbe essere convinto di averla svolta correttamente oppure no. Se prende 5 (o, per la scuola secondaria, anche 4) significa che deve migliorare le sue performance; se prende 6, 7, 8, fino a 10 significa che deve migliorare sempre più, per avere il massimo. Il giudizio, invece, non offre all’alunno questa possibilità e lo lascia nell’incertezza (assieme al genitore, che sicuramente richiederà poi spiegazioni al/ai docente/i). Si sente spesso affermare: “Mio figlio alla verifica scritta (o orale) ha avuto ‘intermedio’ (o ‘buono’). Ma questo ‘intermedio’ (o ‘buono’) a che voto corrisponde?”.

In realtà le parole di Citarelli continuano a rigirare intorno al discorso circolare già evidenziato, il voto è oggettivo e la valutazione è soggettiva perché il voto è oggettivo e la valutazione è soggettiva. Nulla che dimostri nulla viene portato agli occhi del lettore. Infatti, come già visto, l'oggettività del voto e la soggettività del giudizio sono date per certe attraverso un ragionamento circolare. Si tratta di opinioni dell'autore spacciate per verità.
A sostegno del ragionamento l'autore scrive che

E il docente deve dare spiegazioni al genitore [quando usa valutazioni descrittive]. Questo, il più delle volte, non è facile. E per questo motivo, anche nella scuola primaria, la valutazione numerica è migliore, perché l’alunno possa avere consapevolezza delle personali capacità e potenzialità.

Tuttavia il fatto che "Il docente deve dare spiegazioni al genitore" dimostra, semmai, che nel momento in cui si passa dal voto numerico ad una valutazione di tipo descrittivo si svela l'arcanum della valutazione, ovvero che essa non ha un valore in sé, che essa è un atto di arbitrio e che essa diventa significativa solo nel momento in cui dà chiaramente al discente gli strumenti per renderla produttiva di migliorammenti nelle prestazioni e nelle conoscenze.

A questo punto il dirigente scolastico, quasi inconsciamente, sembra prendere le distanze da quanto ha appena scritto

Il voto, certo, ha bisogno di essere spiegato e motivato, si tratti di verifica scritta o orale. E non c’è dubbio che sia molto importante motivare una valutazione, soprattutto quando non è positiva, e “valorizzare” eventuali miglioramenti o l’impegno che c’è stato e/o la possibilità di correggere gli errori (secondo l’antico, ma sempre valido proverbio “sbagliando s’impara”, poi sostituito dal concetto di… “valutazione formativa”).

E che quindi 

Possiamo, dunque, dire che il voto ha bisogno del giudizio, ovvero di una spiegazione, ma, di converso, anche un giudizio ha comunque bisogno di confrontarsi con il voto, per evitare scarsa chiarezza, ambiguità, reticenze.

In realtà il ragionamento fin qui condotto e le confutazioni portate dimostrano che il voto senza spiegazione è poco significativo, ma non il contrario, visto che la soggettività del giudizio descrittivo è stata sostenuta come verità autoevidente senza portare alcun tipo di dimostrazione.

Il dirigente scolastico prosegue la propria lettera fornendo un'ulteriore argomentazione a sostegno della propria tesi, di tipo, diciamo, psicologico. Scrive Citarelli:

C’è un ulteriore elemento da tenere presente in questa discussione: la necessità di ricercare in un processo educativo un equilibrio tra codice paterno (principio di realtà) e codice materno (protezione, accoglienza), secondo una terminologia cara agli psicologi.

La premessa implicita della linea argomentativa ora scelta è che il voto numerico è oggettivo e paterno, il voto descrittivo è soggettivo e materno. Citarelli prosegue sostenendo che

A volte la contrarietà al voto nasce soprattutto dal desiderio di proteggere sempre e comunque gli allievi dalla frustrazione e dalla delusione, che una valutazione negativa inevitabilmente comporta.

Anche in questo caso, per capire il ragionamento dell'autore dobbiamo cercare di definire le premesse implicite, in questo caso il fatto che la valutazione descrittiva non è vera valutazione, ma un tentativo di addolcire la pillola. Da queste premesse ne consegue che

Ma nell’educazione un eccesso di maternage può avere serie conseguenze sulla personalità dei ragazzi, che possono diventare ‘narcisi’, incapaci di confrontarsi con qualsiasi delusione o insuccesso

Come abbiamo visto però anche questa argomentazione si fonda sull'assunto indimostrato della soggettività di una valutazione descrittiva, quando al contrario la premessa di ogni valutazione è l'essere massimamente rigorosa per essere massimamente significativa.
Citarelli prosegue aggiungendo che

Inoltre, può succedere pure che il docente tenda a “proteggere” piuttosto se stesso (anche inconsciamente), per evitare una scelta che in qualche caso può essere penosa. Il tema è importante nel rapporto tra genitori e figli e spesso coinvolge anche gli stessi insegnanti.

Qui l'autore sostiene che la valutazione descrittiva tenda a nascondere le reali prestazioni, quando semmai è proprio il contrario, perché descrivendo il prodotto questa valutazione non può allontanarsi da ciò che realmente è stato realizzato. Al contrario, il voto numerico, non descrivendo nulla può permettere più facilmente ciò che viene sostenuto dall'autore.

A questo punto il dirigente scolastico decide di introdurre una nuova argomentazione, che potremmo riassumere nel "fan tutti così". Citarelli infatti scrive che

Un rapido confronto con i sistemi di valutazione scolastica di altri Paesi europei ed extraeuropei risulta anche importante. Prendiamo, ad esempio, i sistemi dei tre Paesi leader in Europa (Germania, Francia e Regno Unito) e degli Stati Uniti.

Di fatto torniamo ad una forma diversa dell'argumentum ad populum che avevamo osservato ad inizio lettera. Per rafforzare l'argomento il dirigente scolastico precisa

Si parla qua, è bene sottolinearlo, di alcuni tra i Paesi più sviluppati al mondo, riconosciuti universalmente come le “culle” della democrazia.

La premessa implicita è che se questi paesi in passato hanno fatto bene in altri campi (e dobiamo prendere per buono che questa idea sia sempre e comunque vera), è impossibile che abbiano torto su questa questione.
L'autore riporta gli esempi di Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti, paesi diversi tra di loro, con sistemi scolastici anche molto diversi (e non per forza invidiabili, aggiungo io). Sistemi scolastici, tutti comunque accomunati da sistemi di valutazione numerici o per lettere. Possiamo osservare come qui Citarelli cada nella fallacia del campione non rappresentativo: si prendono quattro paesi e si pretende che questo sia un campione rappresentativo di ogni forma scolastica, tra l'altro inviluppandosi in una evidente forma di cherry picking: la scelta degli esempi è infatti funzionale a dimostrare la propria tesi ma omette casi che la smentirebbero, come quello, clamoroso, della scuola finlandese.
Partendo dagli esempi forniti, sicuramente interessanti ma non ipso facto rappresentantivi, Citarelli scrive che

Se, dunque, in quei Paesi (che ci sopravanzano in pratica in tutti i settori) i sistemi di notifica della valutazione scolastica sono questi ed a nessuno è mai venuto in mente di eliminare la valutazione chiara del numero (o della lettera corrispondente al numero, come nel caso degli Stati Uniti), per quale ragione in Italia da almeno 5 decenni si continua a tutti i costi a contrastare ciò che è universalmente riconosciuto come valido?

Come abbiamo già visto, si tratta di argumentum ad populum: se la maggioranza fa così, vuol dire che è giusto fare così. Abbiamo già visto come Citarelli non dimostri neanche il fatto che sia la maggioranza dei paesi a scegliere questo tipo di valutazione, preferisce semmai puntare sulla rappresentatività degli esempi scelti. In realtà il fatto che un certo numero di paesi scelga la valutazione numerica non dimostra di per sé una maggiore o minore validità di questa forma di valutazione. Tra l'altro, possiamo aggiungere il fatto che non è vero che in questi paesi non sia stata messa in discussione la valutazione numerica, anzi, molta della ricerca pedagogica sulla validità della valutazione descrittiva, del feedback formativo, nasce proprio in quei sistemi scolastici che Citarelli cita.

A questo punto il dirigente scolastico si avvia verso la conclusione della lettera. Scrive

Personalmente, infine, sento troppo spesso persone (pedagogisti, addetti ai lavori, politici) che non si limitano a sostenere la necessità di adottare nuove strategie didattiche, ma che lo fanno a partire dalla colpevolizzazione degli insegnanti, ai quali si addebitano tutti gli insuccessi scolastici.

Ciò che l'autore lascia implicito è un sentimento spesso strisciante fra i docenti, almeno quelli social, ovvero che il passaggio dal voto numerico a diverse forme di valutazione sia un attacco ai docenti italiani in quanto tali proveniente da forze esterne alla scuola. Scrive infatti

Anche qui, non di rado, capita di ascoltare finanche battute sprezzanti sul godimento che, non qualche insegnante, bensì gli insegnanti in genere, proverebbero nel sentirsi ripetere a pappagallo le loro spiegazioni.

Mi permetto di obiettare alcune considerazioni: chi adopera la valutazione in classe? Insegnanti o studenti? A chi va addossata la responsabilità dell'emissione del giudizio, a chi lo emette o a chi lo subisce? Del resto, anche in questo caso Citarelli lancia il sasso ma nasconde la mano: non vengono riportati esempi che dimostrino questa critica indiscriminata ai docenti da parte di chi propone la valutazione descrittiva. 
L'autore quindi conclude scivendo che

Se si vuole che gli insegnanti riflettano sul proprio modo di lavorare e prendano in considerazione i cambiamenti giusti (non quelli delle didattiche che prevedono l’utilizzo dei giudizi al posto dei voti numerici e neppure quelli che generalizzano l’idea del “docente liquido” delle… “flipped classrooms”, ecc…) non credo sia questo il modo di incoraggiarli in tal senso.

La premessa implicita di questa conclusione è che la valutazione descrittiva e altre forme didattiche sperimentali sono inutili e quindi inutili nel favorire una riflessione sulla didattica. Anche qui però il dirigente incorre in una petitio principii: ogni innovazione didattica è inutile perché è inutile nella sua stessa innovazione didattica. Si tratta di un ragionamento indimostrato e involuto.


A conclusione di questa analisi, una precisazione: avere dimostrato che le argomentazioni del dirigente scolastico Citarelli a sostegno della propria tesi non siano valide non rende in automatico non valida la tesi; dimostra semplicemente che la tesi sia sostenuta male. Personalmente non la condivido. Al riguardo rimando alla recensione del volume La valutazione che educa  e al picccolo dibattito conseguente tenuto su piattaforma Kialo.

giovedì 17 agosto 2023

Camere separate, Pier Vittorio Tondelli

 


Camere separate, pubblicato nel 1989, è una delle ultime opere di Pier Vittorio Tondelli, uno dei maestri del postmodernismo italiano. Il volume racconta la storia di Leo, scrittore italiano trentenne, e del suo amore travagliato per Thomas, giovane musicista tedesco. La vicenda viene ripercorsa attraverso continue analessi e prolessi, che sviluppano la vicenda dello scrittore prima e dopo i trent'anni, spartiacque simbolico che fa da cornice allo svilupparsi della relazione tra Leo e Thomas e alla dipartita per tumore del musicista. Così la relazione diventa l'occasione per l'analisi e l'introspezione del protagonista, le sue idiosincrasie, i suoi rimpianti, le sue paure, la sua relazione con il sesso, con la mondanità, con il successo e con la famiglia. L'Emilia, Milano, Roma, Firenze, Parigi, Monaco, Londra, New York e Los Angeles, Montreal fanno da paesaggio per lo svilupparsi dell'analisi, nei loro  quartieri bene, nei party mondani come in squallidi night e in piccoli tuguri in cui Leo finisce per abitare con i suoi amanti. Nel frattempo Leo ripercorre e rielabora il suo rapporto con l'arte, il suo bisogno di scrivere, il suo essere sempre stato diverso dagli altri e il rischio di fare di quella sua diversità una semplice abitudine. È l'Italia degli anni '80, anzi l'Europa, anzi l'Occidente, un mondo in cui l'omosessualità e la bisessualità iniziano ad essere all'ordine del giorno ma al contempo sono cose di cui occorre avere pudore a parlare, a meno che non si sia abbastanza ricchi per poterne essere fieri; è la società della movida,  delle discoteche, dei cocktail, dell'alcool e della droga, ma anche di  sentimenti profondi e complicati; è il mondo della musica degli Smiths e di Morrisey, più volte citati nel romanzo, con frasi, versi e situazioni che appartengono decisamente alle canzoni del gruppo e dello scrittore. Alto e basso, tragedia e farsa, masturbazione e amore platonico, poesia, arte, musica cantatutorale e da discoteca si mescolano  nell'opera di uno dei pochi maestri della letteratura postmoderna italiana, producendo un piccolo capolavoro tristemente meno noto rispetto a ponderosi libri provenienti da altri lidi e di certo di minor valore.

Le mappe argomentative, Pietro Alotto

 


Le mappe argomentative, di Pietro Alotto, è un utilissimo e chiarissimo volume dedicato all'uso di uno strumento adatto alla comprensione, all'analisi e alla produzione di argomenti e testi argomentativi.  Le mappe di cui discute Pietro Alotto, insegnante di filosofia e blogger piuttosto noto fra gli addetti ai lavori, iniziano ad essere adoperate già dalla fine del XIX secolo, per trovare pieno sviluppo nel XX secolo nell'ambito del Critical Thinking. Esse permettono, a punto, di mappare i ragionamenti di tipo deduttivo, induttivo e abduttivo: cosa vuol dire esattamente mappare? Vuol dire costringere la nostra mente ad un lavoro di analisi e di orgnizzazione, mettendo in ordine premesse e conseguenze, evidenziando i rapporti causalità e le premesse lasciate implicite nei ragionamenti, in modo da poterne valutare consistenza, validità e veridicità.

L'uso di questi strumenti, e dei software che permettono di svilupparle con facilità, è consigliatissimo per chi si trovi a dover produrre ragionamenti e testi argomentativi, ma anche a chi si trovi invece a dover valutare le argomentazioni altrui, o per mestiere o semplicemente nell'esercizio dei diritti di cittadinanza;  un ultimo uso, consigliato, è quello per la preprarazione e per l'analisi dei debate scolastici, rendendoli dei confronti in cui si possa discernere tra validità e verità delle argomentazioni da un lato, e capacità di convincimento delle strategie argomentative dal'altro.

martedì 1 agosto 2023

Rumore bianco, Don DeLillo



 Rumore Bianco di Don DeLillo è considerato una delle pietre miliari della letteratura postmoderna. Il romanzo racconta le vicende di Jack Gladney, docente di studi hitleriani in un fantomatico college del Midwest americano. Jack è stato sposato più volte, così come la sua ultima moglie, Babette, nondimeno i due personaggi incarnano l'apparentemente mite ma ipocondriaco conservatorismo della società americana degli anni '80 del Novecento, impregnata di consumismo, di dipendenze, di televisione, di una semrpe più marcata differenza fra piccoli centri di provincia e le grandi metropoli, e di paure latenti. La prima parte del romanzo appare infatti un'analisi dei rapporti articolati fra Jack, Babette e i quattro figli e figlie avuti dai diversi matrimoni, nonché dei legami non del tutto soluti con le mogli e i mariti precedenti. Nella seconda parte però eventi sempre più straordinari fanno emergere le contraddizioni della famiglia medio colta, medio borghese, tranquillamente consumista e distopica che ruota intorno a Jack, e di tutta la società intorno a loro. La fuoriuscita di materiali climici non ben conosciuti e l'esposizione di Jack a quei patogeni fanno emergere la sua paura di morire, l'insensatezza apparente dei suoi studi, nonché il loro reale e torbido significato profondo; ma la paura della morte e della mancanza di senso è comune anche a Babette, che tradisce Jack in cerca di un farmaco che possa curare la propria fobia. Deus ex machina diventa quindi lo sgarrupato cowboy suocero di Jack, che gli forniscce l'arma che farà seguito all'ispirazione cresccente nata dai colloqui con diversi colleghi del college. Jack così finisce per cercare vendetta per il tradimento della moglie. Nell'atto di sparare all'inventore del Dylar, il farmaco spacciato per miracoloso alla moglie a costo del suo tradimento, la mente di Jack si obnubila, come se ogni altro gesto o suono venisse coperto da un rumore bianco, e la sua stessa esistenza trova come unica soluzione un cupio dissolvi distruttivo e autodistruttivo ma non realizzabile.

Rumore bianco, come detto, è assieme alle opere di autori come Wallace e Pynchon, uno dei capisaldi della letteratura postmoderna, una letteratura che anche quando scava la realtà lo fa per demistificare le ideologie, senza prendere sul serio se stessa, la tragedia o la commedia. Così DeLillo fa letteratura psicologica ma i suoi personaggi sono credibilmente incredibili; la distopia della piccola cittadina americana anni '80 poi non conduce a visioni tragiche alla Orwell, semmai ad un surreale biasimo per una società dipendente dalla TV e che, di fronte agli effetti di una nube tossica, si ferma a rimpiangere gli splendidi tramonti che però essa aveva regalato. Una lettura consigliata e ancora inccredibilmente attuale.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....