domenica 28 maggio 2023

Orizzontescuola, Galimberti, il clickbaiting


Buonasera,

è con vivo dispiacere che vi scrivo per segnalare un problema ricorrente sul vostro sito, o quanto meno ricorrente nell'uso che la vostra testata fa dei social network: più volte mi è capitato di vedere come OS ricorra a titoli e ad articoli volti al clickbaiting, spesso contenenti affermazioni tendenziose, quando non chiaramente false.

Vogliamo degli esempi?

In data 7 maggio 2023 OS riportava nell'articolo titolato Galimberti: “Il linguaggio si è impoverito. Un ginnasiale nel 1976 conosceva 1600 parole, oggi non più di 500. la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero” (link) la seguente affermazione: "Il linguaggio si è impoverito. Si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1600 parole, oggi non più di 500. Numeri che si legano alla diminuzione del pensiero, perché non si può pensare al di là delle parole che conosciamo. E la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero". 

Facendo su Facebook una semplice ricerca ("Galimberti 500 parole") si scopre che lo stesso articolo o le stesse affermazioni di Galimberti sono state pubblicate o ricondivise da OS almeno altre 2 volte: il 28 maggio 2023 e, addirittura, il 6 giugno 2016  (la stima, temo, sia per difetto: immagino che raffinando  la ricerca comparirebbero altre occorrenze del post). Il problema è che questa affermazione è sbagliata; ancora di più: che questa affermazione sia falsa lo si sa da tanto, e già tante volte è stata smentita; non di meno, la vostra testata continua a ripubblicarla. Dato che Galimberti tira fuori a più riprese le 500 (o 600) parole dei giovani d'oggi, va ricordato come già nel 2018 una testata di facile consultazione coome Fanpage abbia spiegato, citando Serianni, quanto le affermazioni del filosofo siano assurde (link). Vera Gheno, sempre nel 2018, smentì le affermazioni di Galimberti (link) , nel modo che cito, riportando le parole dello stesso De Mauro: «Un grande giornale, La Repubblica, tempo fa ha pubblicato senza battere ciglio un articolo di Umberto Galimberti, valente psicologo [...] ma assolutamente, virginalmente, puerilmente ignaro di rudimenti di linguistica: con aria autorevole Galimberti ha comunicato che gli adolescenti italiani d'oggi conoscono soltanto circa seicento parole. Ora, seicento parole è il patrimonio lessicale minimo produttivo di un bambino treenne [...]. In uscita dal primo ciclo delle elementari bambine e bambini sanno controllare produttivamente e ricettivamente molti usi delle 2.000 parole italiane del lessico fondamentale dell'italiano [...] e, a seconda della bontà dell'insegnamento e della solidità culturale del loro ambiente, posseggono altre migliaia di parole del vocabolario che diciamo di "alta disponibilità" e di quello di rilevante frequenza e comune. Certamente, abbiamo bisogno di accertare con maggiore precisione i numeri medi anche di questi anni di d'età e dei successivi. Ma le parole dei nostri adolescenti sono migliaia e migliaia. E un quotidiano stimato dovrebbe guardarsi dal diffondere sciocchezze di chi, evidentemente, è del tutto ignaro di questioni linguistiche. Dobbiamo uscire dall'innocenza e farci capaci di una valutazione critica di tutta l'informazione. Dobbiamo tenere conto del fatto che in materia di scuola e di lingua molti intellettuali e politici, dato che sono andati a scuola e a scuola ci va la sorellina o la nipotina, e dato che parlano, si sentono autorizzati a sparare panzane a ruota libera. Come se, per il fatto di vivere nel sistema solare, ci sentissimo autorizzati a dare pareri di astrofisica o, causa raffreddore, in materia di batteriologia e virologia. Eppure questo avviene per la scuola e per la lingua.»

Dato che OS è una testata che si rivolge a professionisti della scuola, i quali dovrebbero trattare in maniera consapevole argomenti così attinenti all'istruzione, alla formazione e all'educazione degli studenti italiani, è possibile sperare che voi, assieme ad altre testate a voi simili, smettiate di pubblicare e condividere simili corbellerie?

Cortesemente vostro

Sebastiano Cuffari


mercoledì 17 maggio 2023

Parlare allegorico, parlare simbolico: Dante, Leopardi, Ungaretti e Montale



Nel percorso ininterrotto dalle sue origini ad oggi, la poesia italiana si è, tra le altre cose, sviluppata in un uso quasi contrapposto tra due forme metaforiche del linguaggio, l'uso del simbolo e l'uso dell'allegoria. Il parlare allegorico e il parlare simbolico si realizzano come due visioni antitetiche del linguaggio: l'allegoria è nella sua realizzazione un parlare di universali a partire dal particolare, il simbolismo invece un parlare di particolari, spesso nascosti e di difficile comprensione se non per chi ne possieda la chiave di lettura; ancora di più, potremmo dire che il parlare allegorico è un parlare di noi a partire dal sé, intendendo con noi una comunità oggettivamente conoscibile di individui che condividono idee, sentimenti, fino alla stessa esistenza in quanto esseri umani; chi parla in chiave allegoria parla dal proprio vissuto per dichiarare la condizione dell'intera umanità; invece il parlare simbolico è un palare di sé, magari a partire da esperienze che possono anche essere condivise, ma che vengono sempre interpretate a partire poi dalla soggettività del singolo individuo o al massimo di una singola comunità caratterizzata da esperienze e senstire in comune; chi parla in chiave simbolica discute a volte a partire da referenti apparentemente condivisi, ma in realtà analizza se stesso, la propria esperienza, la scandaglia, fino a pretendere di giungere ad una rivelazione accessibile solamente al proprio io poetico o al massimo a pochi iniziati che ne condividano l'essenza o lo status. Le differenze nell'uso di questi due dispositivi letterari possono essere analizzate in quattro autori di spicco della nostra letteratura: Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale.

Nella sua opera "La Divina Commedia", Dante utilizza sia il simbolo che l'allegoria per descrivere l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Il suo parlare simbolico è evidente nelle figure come la selva oscura, simbolo delle tenebre in cui sente avvolto il suo animo, o il monte del purgatorio, che rappresenta la purificazione spirituale a cui Dante aspira. D'altra parte, l'allegoria è utilizzata per rappresentare personaggi storici o mitologici, come Ulisse o Beatrice, che sono contemporaneamente referenti oggettivi, dati quindi come realmente vissuti, e incarnazione di idee più ampie o valori morali condivisi dall'intera umanità a cui Dante fa riferimento; Dante infatti, anche quando ricorre a simboli che oggi a noi possono apparire fantastici, dà per scontata la loro oggettività, in un mondo, quello dell'Italia medievale, che non può non definirsi cristiano.

Leopardi, iniziatore della poesia moderna italiana, utilizza il simbolo per esprimere il suo pessimismo nei confronti dell'esistenza umana. Ad esempio, L'Infinito esprime una rilevazione, quasi un'epifania, che il poeta vive nell'inevitabile confronto tra l'infinito della natura e la finitezza dell'essere umano. Nella poesia, Leopardi utilizza l'immagine del panorama naturale, in particolare della campagna, delimitata da sensazioni visive, la siepe che impedisce la vista, e uditive, il frusciare delle foglie al vento, per evocare il concetto di infinito. Descrive un momento in cui si trova su una collina e immagina l'orizzonte senza limiti; questa suggestione gli procura una sensazione di piacere e di apertura verso l'immensità del mondo. Qui oggetti come la siepe, sensazioni come il fruscio delle foglie, sono simmbolo di una propria esperienza personale di finitezza, che apre al confronto  tra l'infinito della natura e la finitezza dell'essere umano. Mentre la natura si estende all'infinito, l'uomo è intrappolato nei limiti del suo essere. Questo contrasto crea una profonda consapevolezza della condizione umana e del desiderio di superare le proprie limitazioni; di fronte a questo confronto l'io poetico che sceglie di perdersi in questo mare come un naufrago che si abbandoni alle onde, simboleggia la perpetua ricerca umana di significato e di comprensione del mondo, che è destinata a rimanere irraggiungibile e per questo, agli occhi del poeta, fonte di piacere. Tuttavia, qui, Leopardi, nel parlare di sé parla anche di noi come uomini, perché, come spiega nello Zibaldone, l'impossibilità di raggiungere il piacere non riguarda il singolo  individuo, il poeta, ma è esperienza collettiva, dell'uomo in quanto tale, racchiuso nella sua finitezza. Il parlare di Leopardi, pur racchiuso nella piccola esperienza personale che si distende come simbolo, finisce per essere un parlare allegorico.

La poesia di Giuseppe Ungaretti sviluppatasi principalmente durante la Prima Guerra Mondiale è caratterizzata da un uso estremamente simbolico del linguaggio, tanto da poter dire che il poeta porta alle estreme conseguenze la poetica del Simbolismo, precedentemente rappresentata in Italia sotto altre forme da autori come Pascoli e D'Annunnzio. Le sue composizioni brevi e concise utilizzano parole e immagini evocative per trasmettere l'orrore della guerra e l'angoscia del poeta di fronte all'esperienza diretta e soggettiva del fronte. Ungaretti crea un simbolismo potente e immediato che lascia poco spazio all'allegoria. I suoi versi densi e frammentati catturano l'essenza delle esperienze umane in modo diretto ed essenziale. Nella poesia Mattina vediamo rappresentata un'esperienza epifanica, estremamente concentrata nella ricerca del significato primigeneo della parola; l'esperienza epifanica del poeta ha un termine di paragone in quella raccontata da Leopardi ne L'infinito, ma è interpretabile, ancora di più di quanto avveniva nella poesia di Leopardi, solo avendo a mente il dove e il quando della poesia: il fronte, la Prima guerra mondiale, la continua e costante esperienza di morte e devastazione a cui il poeta assiste. Quindi la scoperta dell'immensità da parte del poeta è legata al contesto della sua esperienza in maniera imprescindibile: la sensazione di una rinascita legata al sorgere del sole, l'illuminazione di una scoperta, la consapevolezza dell'estrema finitezza delle cose umane di fronte all'immensità, è qui consolatoria non per una universale teoria del piacere, come per Leopardi, ma perché l'esperienza di dolore e sofferenza da cui l'epifania parte è tutta interiore e soggettiva del poeta buttato in trincea come carne da macello.

Dal canto suo Eugenio Montale tende a prediligere l'uso dell'allegoria, specie nella forma del correlativo oggettivo: questo vuol dire che agli occhi di Montale i referenti che costituiscono gli elementi delle comparazioni metaforiche che adopera per descrivere la condizione dell'uomo sono dati come oggettivi, ancorché ne possa risultare difficile la comprensione. In Meriggiare pallido e assorto torniamo ad incontrare una poesia degli oggetti, in cui il paesaggio bruciato dal sole e la muraglia irta dei cocci di bottiglia sono allegoria di una condizione che è del poeta ma non solo del poeta, bensì dell'intero genere umano: non è solo la difficile condizione dell'intellettuale che si trova fuori posto nell'Italia che esce dalla Prima guerra mondiale e che si avvia a divenire fascista; è la condizione dell'uomo in quanto tale che, non solo ha scoperto la sua limitatezza, la muraglia, ma apprende sempre più l'insensatezza del vivere. Che il punto di riferimento di Montale sia Leopardi è reso evidente dal continuo richiamo proprio a L'Infinito: abbiamo già detto della muraglia, allegoria del male di viviere dovuta all'impossibilità di trovare un senso, varcare il limitare, e che ricorda la siepe leopardiana, ma si può evidenziare l'uso dei verbi ai modi indefiniti, gerundio e, a punto, infinito.
In conclusione possiamo affermare che L'infinito di Leopardi è quindi contemporaneamente fonte d'ispirazione per Ungaretti e per Montale: il primo ne coglie l'aspetto simbolico, epifanico, dell'esperienza individuale; il secondo ne afferma l'aspetto allegorico, oggettivo, in chiave negativa, nell'affermazione della limitatezza umana e dell'impossibilità conseguente di trovare una soluzione al male di vivere moderno.


sabato 6 maggio 2023

Si attacca Ultima Generazione sui metodi per non discutere delle idee e delle richieste di Ultima Generazione

Osservare come i media discutono delle posizioni e dei comportamenti degli attivisti climatici di Ultima Genrazione permette di analizzare un caso di studio su come l'opinione pubblica discute, o non discute, delle tesi e delle argomentazioni che le vengono sottoposte.



Il caso comunicativo è abbastanza chiaro: quando gli attivisti di Ultima Generazione agiscono, ciò di cui si discute non è la tesi che portano avanti, o non sono le argomentazioni con cui le sostengono, bensì la forma della loro protesta, scandalosa, fastidiosa. Per carità, si può discutere dell'utilità dela forma di protesta di Ultima Generazione, ma questo ha poca attinenza con la protesta di questa organizzazione di attivisti climatici, mentre c'entra molto con il nostro limite di tolleranza verso il dissenso. In ogni caso, il fatto che i media trattino solo della forma della protesta, e non del contenuto della protesta è una forma di fallacia logica, del tipo dell'attacco ad hominem. Nella pratica, concentrandosi sulla forma della protesta, si decide di attaccare Ultima Generazione come organizzazione, in ultima istanza un grruppo di persone delle quali non apprezziamo i comportamenti, in modo da non dover discutere delle idee di quelle persone che con quei comportamenti cercano di veicolare. È importante notare che mettere in discussione le forme di protesta di Ultima Generazione non dovrebbe limitare o impedire la discussione delle tesi e delle rivendicazioni dell'organizzazione: se ciò acccade, allora quell'attacco si configura come un tentativo di distrazione argomentativo, un modo per portare la dicussione lontano dai temi che gli ambientalisti vogliono discutere.

Questo è ciò che accade quotidianamente sui giornali e i telegiornali, ogni volta in cui Ultima Generazione o altre organizzazioni di attivisti climatici inscenano forme di protesta. Ciò accade anche quando Ultima Generazione viene invitata a presenziare a programmi televisivi, come recentemente nel programma di Formigli su La7. In questo caso l'attivista climatica decide di intervenire in maniera forte durante un dibattito a cui presenziano in maniera paritetica commentatori che riconoscono o no il cambiamento climatico


L'attivista decide di non accettare la premessa stessa della discussione. e questo porta, sui media, ad una reazione violenta. Tutti contro l'attivista di Ultima Generazione che non accetta la discussione con il negazionista del cambiamento climatico. Da un punto di vista tecnico però l'attivista ha fatto l'unica cosa sensata: non si accetta la discussione quando non si condividono le premesse stesse della discussione. E quando non si possono nemmeno condividere le premesse stesse di una discussione? Per discutere bisogna almeno condividere qualcosa, fossero anche le regole del gioco. Ma se si discute con un negazionista del cambiamento climatico non si gioca alla pari per il semplice fatto che non è più da dimostrare se il cambiamento climatico sta avvenendo: lo ha già fatto la scienza negli ultimi vent'anni. Discuterne ancora vuol dire semplicemente non discutere, imbandire un discorso vuoto. Ciò di cui si può discutere è il cosa fare contro il cambiamento climatico, persino se e come decidere di non fare niente. Nient'altro.

Il fatto che non si colga che l'attivista ha di per sé compiuto una scelta logica è indice di quanto il dibattito pubblico sia scadente. Ripeto, si può anche discutere di non fare niente contro il cambiamento climatico, per esempio perché si ritiene che intervenire costerebbe troppo, causerebbe traumi sociali tali da essere persino superiori a quelli dovuti alle variazioni del clima, o altre ragioni anche molto valide; imbastire invece una discussione sulla reale esistenza del cambiamento ha lo stesso valore del disccutere in pubblica piazza della sfericità o meno della terra: zero.

C'è un ultima cosa da discutere: perché Ultima Generazione decide di tenere forme di protesta così controverse, al netto dell'evidenza di come questa forma di comunicazione viene così facilmente strumentalizzata? Al riguardo si potrebbero fare varie considerazioni: la prima è che una forma di protesta che non genera un trauma nell'opinione pubblica, semplicemente non è una forma di protesta; se protesto e nessuno se ne accorge, se non creo un disservizio, nessuno è consapevole della mia protesta. Se protesto e la mia protesta non genera scalpore, scandalo, essa semplicemente, da un punto di vista comunicativo, non esiste. In secondo luogo, la protesta di Ultima Generazione è certamente violenta, anche se il nostro paese ha conosciuto ben altre forme di lotta violenta contro le decisioni di uno stato: ma quella violenza vuole essere solo lontanamente paragonabile alla violenza che una generazione, la prossima, sta subendo, nella misura delle risorse e delle possibilità che le stanno venendo negate dalla generazione e dalla classe dirigente attuale. Quanto i media stanno spiegando la ratio della protesta? Pochissimo. Avrebbe Ultima Generazione altre forme per rappresentare in maniera così icastica il problema che solleva, forme che non prevedano forme di violenza inflitta o autoinflitta ben peggiori? Qualcuno si ricorda in che modo o con quale forza sono nate le primavere arabe o la prostesta del Vietnam? 


Preferiremmo che i ragazzi di Ultima Generazione compissero quel tipo di gesti?

mercoledì 3 maggio 2023

Una lettera inviata a Il Post su un articolo di Claudio Giunta, che parla di leggi, ma parla male di istruzione


Buonasera,

parto subito con una captatio benevolentiae: apprezzo tantissimo Il Post, a cui sono abbonato, i vostri articoli e i vostri podcast.

Questa introduzione per dire che per una volta non sono del tutto d'accordo con voi. L'ho detto. Mi  riferisco all'articolo di Claudio Giunta intitolato "Le oscure leggi sull’istruzione". Sia chiaro, trovo letteralmente perfetta la rappresentazione della babele di norme che si sono accavallate rendendo contorto il percorso di formazione degli insegnanti. Trovo tuttavia sbrigativo un passaggio, che cito:
A mio parere (e a parere di tanti altri) non è una buona legge, tra l’altro perché asseconda una deriva ormai più che decennale, una deriva che – nonostante le buone intenzioni e le dichiarazioni in contrario – scredita le discipline curricolari e accredita, sopravvalutandone l’importanza, le discipline psico-pedagogiche: come qualcuno ha detto, si finisce per moltiplicare le ore di ‘teoria del nuoto’, e si entra pochissimo in acqua, mentre la strada da percorrere sarebbe quella opposta.
Ecco, questo passaggio è un tantino banale, tra l'altro figlio di una visione della scuola tutto sommato miope, la visione di chi la scuola la guarda da fuori ma è convinto di guardarla da dentro, ovvero molti docenti universitari. Perché miope? Perché spesso nel mondo universitario si è convinti che conoscere qualcosa equivalga a saperla insegnare, e del resto, a guardare i profili delle docenze accademiche, si scopre che è proprio lì che si è investito meno sulla didattica. È anche evidente il perché: tendenzialmente uno studente che si è iscritto alla facoltà di lettere è motivato a studiare quelle discipline, io che insegno in quella facoltà non devo lavorare sul profilo motivazionale, forse neanche sul metodo di studi, non avrebbe scelto quel percorso se già non bazzicasse le mie discipline. Ecco che all'università l'idea che l'insegnamento richieda un sapere tecnico, che non è il sapere disciplinare, ma il sapere come veicolare quei contenuti, appare un fatto secondario.
Il problema è che questo sapere è apparso secondario praticamente per tutta la storia della scuola italiana, e non lo era; fate un giro in un istituto professionale e poi vediamo quanto serva o non serva un sapere psico-pedagogico, anche per insegnare lettere o storia; il paradosso è che, da decenni, i risultati migliori la nostra suola li ottiene lì dove questa padronanza della didattica, nelle scuole primarie (le vecchie elementari), è più diffusa; contemporaneamente i risultati scendevano e scendono, fino ad arrivare all'evidente fallimento della quota enorme di dispersione scolastica, lì dove sempre di più sopravvive l'idea che non occorra la pedagogia, non occorra la didattica, basti la conoscenza della disciplina.  Infatti Giunta propone i concorsi subito dopo la laurea: chi a scuola ci sta davvero sa che i docenti piombati a scuola senza una formazione didattica vanno a braccio, mendicano dai colleghi più esperti nozioni tecniche, finiscono alla fine per formarsi a loro spese in autonomia dopo essere entrati nel sistema, non prima di aver fatto danni per la loro incompetenza didattica (oppure proseguono per tutta la vita a far danni convinti che l'esperienza sia l'unica formazione possibile, incapaci di riconoscere che, magari, per trent'anni hanno fatto e faranno disastri che nessuno mai sanzionerà).
L'articolo risulta in questo passaggio banale anche per un altro motivo, ovvero perché crea una falsa dicotomia: o formo bene sulle discipline, o formo bene sul sapere psico-pedagogico. E chi lo dice? Lo ha prescritto il medico? La realtà è che il sistema scolastico è estremamente conservatore, vede come lesa maestà ogni minimo slittamento che metta in discussione quanto fatto non dico negli anni recenti, ma addirittura dalla riforma Gentile: si vedano il libro di Maastrocola e Ricolfi o le continue fesserie sparate da Canfora, Crepet o Galimberti sulle competenze per averne un'idea.
Da questo punto di vista le norme vigenti, tra mille resistenze, stanno cercando di spostare l'attenzione dell'insegnamento (e di conseguenza della formazione dei docenti) dalla mera trasmissione di contenuti all'acquisizione di competenze. La critica tipica dell'ala più conservatrice del sistema istruzione è che quello di competenza sia  un concetto vuoto, astratto, che discredita i saperi, come dice Giunta. Questo è di per sé un falso: in soldoni possedere una competenza vuol dire sapere adoperare le conoscenze trasmesse dalle discipline in maniera concreta, benché simulata, perché la scuola è sempre e comunque un ambiente simulato e protetto. Le conoscenze disciplinari non sono per niente abolite, anzi, ma non sono più il fine: il fine è lo studente. È chiaro che questo richiede un ripensamento della scuola: la lezione frontale (quella cara al mondo accademico, in maniera comprensibile, lì è ancora lo strumento più adatto per le ragioni espresse prima) non può essere adatta, almeno non può essere l'unica, per permettere il raggiungimento di competenze. Ugualmente non possono bastare i soli voti, ovvero dei numeretti che in maniera più o meno arbitraria catalogano una prestazione senza fornire un feedback su cosa realmente è andato bene o male in quella prova. Per paradosso, lo hanno capito gli studenti, che lo stanno chiedendo a gran voce, ma non lo capiscono gli adulti che parlano di scuola fuori dalla scuola. Tutte cose che fanno orrore e paura nella scuola conservatrice che abbiamo in sorte di avere. Ma sono anche cose che non si conoscono solo da qualche decennio: proprio la ricerca accademica dimostra da ormai un secolo, almeno da Dewey in poi, quanto la scuola funzioni meglio se fa queste cose.
Era Rousseau che diceva che
«Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino»
e mica lo diceva nel 2022.

Dopo questo papello, che spero verrà perdonato, porgo i miei saluti e ringraziamenti

Sebastiano Cuffari

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....