sabato 30 dicembre 2023

Antonio e Cleopatra, William Shakespeare

Di Sébastien Bourdon - [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10591540

Antonrio e Cleopatra, scritta e messa in scena tra il 1607 e il 1608 da William Shakespeare, è fra le tragedie dell'autore più ambigue.

La trama del dramma segue lo sviluppo della passione amorosa di Antonio, triumviro di Roma, e Cleopatra, regina d'Egitto, già amante di Giulio Cesare. Antonio si barcamena tra l'amore per la regina e la posizione politica che lo vede alleato di Ottaviano e Lepido, gli altri due triumviri che avevano ereditato il potere politico di Cesare e ne avevano vendicato la memoria, come magistralmente raccontato dallo stesso Shakespeare nella tragedia Giulio Cesare.
Nel tentare di mantenere la propria posizione Antonio accetta di sposare la sorella di Ottaviano, Ottavia, ma infine gli risulta impossibile tenere contemporaneamente in vita il matrimonio e la relazione esotica con Cleopatra. Quando Antonio decide di ripudiare la moglie, e Ottaviano fa opportunamente trapelare il testamento del rivale in cui i figli avuti da Cleopatra venivano designati ad eredi e sovrani della parte orientale dei domini di Roma, la guerra diviene inevitabile.

Ottaviano e Antonio si scontrano, ma nello scontro marittimo sarà proprio la fuga delle navi di Cleopatra a consegnare la vittoria al futuro primo imperatore di Roma. L'assedio in terra d'Egitto, l'incapacità di Antonio a rassegnarsi alla sconfitta, dilatano i momenti della tragedia, la passionalità sensuale e tormentata dei due amanti, vinti da un fatale desiderio di distruzione. Infine Antonio e i suoi collaboratori trovano la morte, e lo stesso accade a Cleopatra, che per non farsi prendere prigioniera e trascinare per le strade di Roma nel trionfo di Ottaviano, si dà la morte con il morso di un serpente del Nilo.

Antonio e Cleopatra, fra le tragedie più note di Shakespeare, è anche una delle meno tragiche: poco si può realmente trovare di tragico nelle figure di Antonio e Cleopatra, incapaci di comprendere la realtà che li circonda e il sentimento che li tormenta; talvolta, soprattutto la regina d'Egitto appare come una bambina capricciosa che vuole e disvuole ad un tempo. Se Antonio nella tragedia di Cesare appare oratore infallibile e pieno di pathos, qui appare l'ombra di quel personaggio tragico: un generale che conduce alla sconfitta il suo esercito, tronfio di una gloria e di una forza che non possiede più ormai da troppo.  Ambigua è anche la figura di Ottaviano: lucido difensore degli interessi di Roma, o scaltro arrivista, come in fondo appare anche nel Giulio Cesare?

Forse ciò che rende atipica la tragedia è la dimensione umana antitragica dei protagonisti. Più vicini all'ethos della tragedia sono probabilmente alcuni fra i collaboratori di Antonio e Cleopatra, tormentati dalla realistica analisi della sconfitta imminente e l'amorosa lealtà verso i padroni o i compagni d'arme.

Una tragedia della mediocrità, incarnata in una regalità che ha poco di regale, lontana dai grandi dubbi di Amleto o dalla lucida lotta per il potere del Giulio Cesare, lontanissima persino dalle tragedie storiche ambientate nell'Inghilterra medievale.


mercoledì 15 novembre 2023

Della scuola di Messina, degli esami, delle vittime e dei carnefici, e dei deficit nella valutazione



Rispetto al caso della scuola di Messina di cui si è parlato in questi giorni, vorrei proporre due osservazioni. La prima che mi ha molto colpito: osservando come il caso è stato coperto sui giornali e negli altri media, mi è parso di poter notare come quella che comunque a tutti gli effetti sarebbe la vittima, cioè la ragazza che in qualche modo è stata penalizzata all'esame di luglio, sia invece passata come la carnefice per avere costretto tutti gli altri, con il suo ricorso, a ripetere l'esame di stato. Tanto per essere chiari, l'esame non sarebbe mai stato ripetuto se non ci fossero state delle irregolarità commesse dalla docente che aveva passato le domande alla classe, e dai ragazzi, che non possono essere immaginati come puri e innocenti e non conniventi con la docente, anche solo per non avere denunciato loro stessi l'irregolarità. A riprova di questa inversione di ruoli i giornali che hanno raccontato la ripetizione dell'esame hanno tenuto a precisare come la ragazza venisse quasi tenuta a distanza e guardata a vista dai compagni, evidentemente indispettiti, e dalla commissione d'esame costretta a ripetere quanto già aveva fatto a luglio. Il fatto che i voti siano poi stati confermati è soltanto l'ultimo tassello di questo fallimento pedagogico, ancor più punitivo dal momento che, guarda un po', anche alla ragazza è stato confermato lo stesso voto di luglio, come a voler significare che l'aiuto della docente rea dell'irregolarità non avesse realmente influito sugli esiti degli esami. 

Tutto ciò porta alla seconda considerazione, ovvero la mancanza di formazione di molta classe docente italiana sulla valutazione, concepita non come un momento della didattica ma come un semplice adempimento burocratico o, nella peggiore delle ipotesi, come uno strumento di potere. Un altro caso di cronaca di questi giorni fa luce su questo tema, ovvero la chiusura della sezione del liceo Morgagni a Roma impropriamente detta senza voti. In realtà in quella sezione veniva praticata una valutazione descrittiva come da diffusa letteratura pedagogica, letteratura che ormai da decenni dimostra, dati alla mano, come una valutazione di tipo descrittivo contribuisca meglio alla comprensione dell'errore e alla valorizzazione di ciò che viene fatto bene dagli studenti, a differenza di un semplice voto numerico che ha una funzione meramente classificatoria. Ciò che non è stato raccontato adeguatamente dai giornali è che utilizzare una valutazione descrittiva è molto più difficile e molto più impegnativo per i docenti, cosa che avrebbe spiegato bene perché nelle altre sezioni ci sia stata una rivolta contro la sezione sperimentale con tale valutazione, che stava accrescendo il numero di iscritti. È ipotizzabile che gli altri docenti abbiano avuto paura di doversi trovare ad applicare una metodologia per cui, nella migliore delle ipotesi non si sentivano formati. Tra le altre cose emerge come la sezione con valutazione descrittiva fosse preferita da alunni con bisogni educativi speciali o disturbi dell'apprendimento perché, con buona probabilità, quel tipo di valutazione li aiuta negli apprendimenti, non nel senso che venga regalata la sufficienza, ma perché chiarisce a uno studente in difficoltà in maniera molto più evidente ciò che sta andando bene e ciò che sta andando male nelle sue prestazioni. Leggere, come si è letto su alcuni giornali, che per qualche docente quella sezione stava attirando troppi alunni con bisogno educativi speciali riporta indietro la storia della scuola al periodo delle classi differenziali, quando si formavano classi ghetto per evitare ai cosiddetti normodotati di doversi confrontare con l'altro e il diverso. Pochi quotidiani hanno spiegato con dati, numeri e fatti ciò di cui stiamo parlando, forse solamente Domani con gli articoli di Cristian Raimo.

lunedì 30 ottobre 2023

Addio a Matthew Perry


Come tanti, ho conosciuto Matthew Perry come Chandler Bing in Friends. Poi, da adulto, l'ho scoperto attore drammatico in West Wing, ad impersonare un avvocato e a costruire una strana e magica alchimia con un altro grande attore, Bradley Whitford. Il duo tornerà assieme in Studio 60, dove Perry impersona il ruolo di un autore comico dipendente dall'alcool. Un ruolo, evidentemente, tagliato su misura per lui da un altro grande, Aaron Sorkin. Ruolo che Perry ha amato, e forse una delle sue più grandi frustrazioni è stata la chiusura anzi tempo di quella serie, la possibilità per lui di diventare qualcosa di diverso da Chandler Bing, qualcuno in cui essere se stesso ed aprirsi al pubblico. Ma il pubblico, quella stupenda serie, non la seguì, malgrado un'ottima sceneggiatura e due grandi attori.

venerdì 27 ottobre 2023

Israele, Gaza, giustizia e utilità

Dopo l'attentato del 7 ottobre ad Israele, attentato che ha lasciato sgomenti a causa della ferocia e della barbarie con cui è stato portato a termine, tutto il mondo a caldo ha immaginato un'immediata rappresaglia da parte dello stato ebraico. Tuttavia, a causa della diplomazia internazionale all'opera per evitare una lunga carneficina, nonché per la necessità di preparare la strategia militare, l'invasione di Gaza rallenta, lasciando il tempo per una riflessione a mente più lucida sull'opportunità e la necessità di un simile atto bellico da parte del governo di Tel Aviv.

Con questo post provo a ragionare sulle ragioni di una rappresaglia israeliana, su quali criteri lo giustifichino e ne mostrino la necessità; se tali criteri reggano, e in che modo. Una premessa è d'obbligo: è molto semplice e comodo discutere delle ragioni israeliane e palestinesi seduti comodamente alla scrivania di uno stato lontano, che non vive i problemi e le tensioni costanti che vivono e subiscono israeliani e palestinesi. La pretesa di razionalità nelle decisioni dai governanti e d'obbligo; non così però per la gente comune, per chi quelle emozioni e quelle paure le vive costantemente e sulla propria pelle, persone dalle quali è lecito aspettarsi reazioni emotive, cariche di rabbia, di odio, di paura.



Data quindi la tesi per cui è giusto e utile che Israele compia la propria rappresaglia dopo l’attentato di giorno 7 ottobre, quali sono gli argomenti che sostengono l'impianto logico di una simile decisione? Sostanzialmente le argomentazioni si possono dividere secondo due criteri, quello di giustizia e quello di utilità.

Secondo il primo criterio, una delle prime argomentazioni che abbiamo visto emergere è quella per cui Israele è una democrazia e le democrazie vanno difese, infatti di fronte all’emergere delle democrature e di stati autoritari gli stati democratici hanno bisogno di risultare coesi contro ogni possibile attacco. Questa argomentazione quindi, non solo prevede il diritto di rappresaglia di Israele, ma anche l'obbligo di solidarietà da parte delle democrazie occidentali. Tuttavia, i recenti sviluppi del regime israeliano pongono profondi dubbi sulla deriva autoritaria di Tel Aviv, infatti, per definire una democrazia non basta votare, occorrono sistemi di contrappesi tra i poteri che il governo israeliano ha tentato di smantellare. Inoltre anche le democrazie possono commettere ingiustizie, a causa di errori di valutazione o di politiche sbagliate. Le loro azioni non possono essere giustificate dal semplice fatto di essere democrazie

Rimanendo nell'ambito criteriale della giustizia, una seconda argomentazione emersa è quella per cui è giusto che Israele faccia giustizia dell’ingiustizia che ha subito. È subito evidente però che i militanti di Hamas potrebbero obiettare che la loro azione terroristica ha a sua volta fatto giustizia delle ingiustizie subite in passato dal popolo palestinese, come i rastrellamenti nella Striscia di Gaza o la colonizzazione della West Bank. D'altro canto  gli Israeliani potrebbero obiettare che i rastrellamenti e la colonizzazione nascono dalla condizione di insicurezza costante in cui vive Israele; a loro volta i palestinesi potrebbero obiettare che quella condizione di insicurezza in cui vive lo stato di Israele deriva dalla stessa modalità della nascita unilaterale e violenta dello stato di Israele nel 1948, non da una scelta dei Palestinesi; ma ancora, dalla sponda israeliana si potrebbe ribattere che la nascita violenta di Israele fu causata dalla mancanza di un accordo in sede ONU sulla spartizione della Palestina in due stati; nondimeno i palestinesi potrebbero obiettare che la mancanza d’accordo ebbe origine nell’imposizione della presenza dello stato di Israele in un territorio già abitato, sulla base di una declinazione del nazionalismo occidentale al mondo ebraico, il Sionismo. Come si può intendere, questa argomentazione non fornisce in fin dei conti una giustificazione forte ad una massiccia rappresaglia, dato che entrambe le parti in causa possono, da questo punto di vista, rivendicare ragioni radicate nel tempo (senza neanche andare a scomodare i testi sacri degli uni e degli altri). Tornando alla teoria dei due stati per due popoli, sempre in merito a questa argomentazione, dalla sponda palestinese si potrebbe osservare come questa soluzione eviterebbe il costante conflitto e la costante insicurezza in cui vive Israele; tuttavia, come si nota da parte israeliana, Hamas nega la volontà di coesistere con Israele e propugna il genocidio di ogni ebreo, impedendo un simile compromesso, infatti i militanti di Hamas colpiscono non a seguito di uno specifico atto di Israele, ma in quanto il loro statuto prevede in maniera specifica l’annientamento di ogni israeliano in Palestina. Questa controargomentazione però viene almeno in parte indebolita da un dato di fatto, ovvero la colonizzazione della Cisgiordania, dove Hamas è minoranza e non governa, che dimostra che anche per Israele il problema reale non è Hamas, bensì la presenza di palestinesi in genere.

Rimanendo sull'argomentazione del diritto di Israele di farsi giustizia di un gravissimo torto subito, si può osservare come nel farsi giustizia, Israele a sua volta colpisca indiscriminatamente miliziani e civili, commettendo a sua volta ingiustizia. È vero però che esiste, nel diritto internazionale, un diritto di rappresaglia e quindi le morti di civili palestinesi che hanno deciso di non evacuare possono in qualche modo essere considerate un esito tragico ma necessario, vittime collaterali inevitabili. Tuttavia questa visione pone un grave problema: non è possibile quantificare qual è il limite tra vittime collaterali e una vera e propria ingiustizia, un grave crimine di guerra, questa volta eventualmente commesso da Israele, se non considerando come criterio l’utillità di chi sta eventualmente commettendo la stessa ingiustizia, in questo caso Israele stesso (a meno di non considerare un giudizio esterno e imparziale del consesso internazionale, oggi diviso se non inesistente, o al più un generico "giudizio della storia"). Tra l'altro anche Hamas potrebbe considerare le vittime civili israeliane e arabo-israeliane vittime collaterali della propria lotta armata. È vero che per il buon senso comune l’attacco compiuto da Hamas è un attacco terroristico per le barbare modalità con cui è avvenuto: ha colpito donne e bambini, non solo militari, e con il terrore vuole modificare le abitudini di vita dei civili israeliani. Nondimeno, anche Israele colpisce donne e bambini con i bombardamenti indiscriminati e anche Israele vuole modificare le abitudini e le opinioni di chi vive nella Striscia di Gaza con la paura dell’intervento armato e dei bombardamenti.

In maniera forse più significativa si dovrebbe ragionare sul fatto che stiamo discutendo di giustizia in condizioni del tutto straordinarie. Questo dovrebbe fare riflettere sul fatto che in simili condizioni forse il criterio di giustizia non può corrispondere al medesimo criterio applicabile in condizioni ordinarie. Tuttavia, a causa delle modalità con cui è nata, Israele vive normalmente una condizione di straordinarietà, e ogni suo atto viene giustificato da questa condizione, finendo per risultare poco credibile. Del resto poi, chi vive nella striscia di Gaza vive in una condizione di straordinarietà e precarietà incredibilmente superiore alla condizione quotidiana di Israele, per cui, anche per gli atti di guerra e di terrorismo di Hamas si potrebbe rivendicare la stessa straordinaria giustezza.

Spostandoci sempre di più da criteri astratti ad una politica rivolta al concreto, si potrebbe ipotizzare che sia giusto che Israele risponda ad una violazione della propria sovranità territoriale. Infatti l’incursione partita da Gaza ha violato un confine definito da Israele, configurandosi come un vero e proprio atto terroristico e di guerra a cui Israele dovrebbe rispondere per la sicurezza nazionale; tuttavia la condizione giuridica della striscia di Gaza configura dei problemi anche di ordine giuridico: il confine della striscia di Gaza è un confine definito unilateralmente da Israele, con l’abbandono del territorio nel 2005, lasciato alla gestione autonoma di una comunità che non è stato per la stessa volontà di Israele; le condizioni di quel territorio sono definite unilateralmente da Israele, che definisce ingressi e uscite dalla striscia di Gaza; la vita stessa a Gaza si svolge nelle modalità definite dalle sovvenzioni, dai fondi e dai vettovagliamenti che Israele fornisce agli abitanti della striscia; se ne può dedurre che, se esiste una sovranità palestinese, questa viene costantemente violata a Gaza e anche in Cisgiordania, lì dove nella West Bank lo stato ebraico favorisce l’invasione coatta dei coloni israeliani, proteggendone l’azione con l’esercito.

Viste le ragioni elencate, risulta difficile giustificare l'attuale azione israeliana a Gaza secondo il criterio di giustizia (sempre data la premessa esposta nell'introduzione su quanto sia comodo discutere di giustizia da lontano).

Rimane il criterio dell'utilità.

Secondo questo criterio è utile che Hamas venga annientata, perché annientare Hamas vorrebbe dire eliminare la principale fonte di pericolo di Israele. Tuttavia annientare Hamas a costo di gravi perdite fra i civili palestinesi accrescerebbe probabilmente il consenso per ogni forma di resistenza armata palestinese ad Israele, anziché ridurre il pericolo che lo stato ebraico corre quotidianamente (a meno che non si pensi ad un genocidio palestinese o ad una nuova e più violenta Nakba). Inoltre annientare Hamas colpendo i civili palestinesi alienerebbe ulteriormente il consenso all’esistenza dello stato di Israele nel mondo arabo, alimentando pericoli esterni potenzialmente più gravi di quelli già in essere. Per entrambe le obiezioni esiste un problema: potrebbe in tutti e due i casi realizzarsi un errore logico, la fallacia del piano inclinato: data una condizione, non scegliere la soluzione o la conseguenza più naturale in nome di una conseguenza lontana e solo ipotizzabile, ovvero, data l'esistenza di Hamas, non scegliere di eliminare Hamas che già esiste e che è un problema dimostrabile e misurabile, in nome di una paura, quella dell'intervento di altri paesi arabi o della nascita di un movimento islamista ancor più feroce di Hamas, sì ipotizzabile ma non dimostrabile o quantificabile.

Stando al criterio di utilità però si potrebbe porre una condizione paradossale per Israele: annientato Hamas, il governo israeliano non avrebbe più scuse per non procedere nell’applicare il principio dei due stati per due popoli; se non lo facesse, ad esempio non sgomberando i coloni della West Bank, dimostrerebbe che la condizione di pericolo vissuta da Israele è in realtà indotta e voluta da Israele stesso per legittimare i propri comportamenti. Secondo questa prospettiva la presenza di Hamas fra i palestinesi legittima le politiche autoritarie e discriminatorie di Israele. Certo, si potrebbe obiettare che questa sia dietrologia e che l’accusare Israele di comportamenti discriminatori e provocatori nasconda una forma di antisemitismo strisciante e che le politiche di Israele siano in assoluto giustificate dal comportamento di Hamas. Però anche l’accusare chiunque critichi Israele di antisemitismo è una forma di attacco ad personam che serve per non entrare nel merito delle critiche mosse ai governi israeliani, del resto, giustificando le azioni di Israele con la presenza di Hamas si finisce per tornare a cercare la giustificazione degli atti degli uni e degli altri nel criterio della giustizia:  a tal riguardo entrambe le parti possono portare buone ragioni a sostegno della propria posizione, risultando quindi questo criterio non dirimente.

In conclusione: Israele dovrebbe intervenire (o continuare e con più forza a intervenire) nella striscia di Gaza? Trovare una giustificazione nel criterio di giustizia per un simile atto è molto più complicato di quanto possa apparire in prima istanza, anzi, dalla disamina fatta si scopre che tutte e due la parti in causa possono accampare tante e tali ragioni da non permettere che questo criterio sia dirimente. Israele dovrebbe e potrebbe intervenire militarmente a Gaza perché le è utile, ma solo se poi lo stesso stato fosse disponibile a porre realmente in essere la nascita di un confinante e autonomo stato palestinese. Altrimenti, potrebbe incorrere in rischi ancora maggiori rispetto a quello presente, sebbene questi siano solo ipotizzabili (anche in base alla storia del Medio Oriente negli ultimi settant'anni). Se invece l'invasione della striscia di Gaza e una nuova Nakba non portassero alla nascita di una Palestina autonoma, ciò dimostrerebbe come l'esistenza di Hamas sia stata negli ultimi anni funzionale ad una politica repressiva e autoritaria, sempre più manifesta da parte del governo israeliano.  




sabato 30 settembre 2023

Il dibattito sul cadavere di Giulio Cesare, due orazioni a confronto nell'opera di Shakesepare



Nel Giulio Cesare di Shakespeare, rappresentato per la prima volta in un non ben definito arco di tempo che potrebbe andare dal 1598 al 1601, il drammaturgo inglese mette in scena uno dei più bei esempi di dibattito della storia della letteratura mondiale. La fonte di Shakespeare sono con ogni probabilità le vite di Cesare, di Bruto e di Antonio nelle Vite parallele di Plutarco (utilissimi approfondimenti sono rintracciabili per esempio sul blog del prof Ghiselli).

Nella scena II dell'atto III si alternano nel foro di Roma Bruto e Antonio: il primo espone alla popolazione le ragioni dell'azione dei tirannicidi; il secondo controbatte con l'obiettivo di causare una rivolta contro i nuovi possibili dominatori di Roma.

Leggiamo il testo (nella versione pubblicamente accessibile edita da Liber Liber)

BRUTO –

Romani, miei compatrioti, amici,

io vi chiedo pazienza;

ascoltatemi bene fino in fondo,

e restate in silenzio,

e vi esporrò la causa del mio agire.

Sul mio onore, credetemi,

ed abbiate rispetto del mio onore;

giudicatemi nella saggezza vostra,

e a meglio farlo aguzzate l'ingegno.

Se c'è alcuno fra voi

ch'abbia voluto molto bene a Cesare,

io dico a lui che l'amore di Bruto

per Cesare non fu meno del suo.

Se poi egli chiedesse perché Bruto

s'è levato con l'armi contro Cesare,

la mia risposta è questa:

non è che Bruto amasse meno Cesare,

ma più di Cesare amava Roma.

Preferireste voi Cesare vivo

e noi tutti morire come schiavi,

oppur Cesare morto, e tutti liberi?

Cesare m'ebbe caro, ed io lo piango;

la fortuna gli arrise, ed io ne godo;

fu uomo valoroso, ed io l'onoro.

Ma fu troppo ambizioso, ed io l'ho ucciso.

Lacrime pel suo amore,

compiacimento per la sua fortuna,

onore al suo valore,

ma morte alla sua sete di potere!

C'è alcuno tra voi che sia sì abietto

da bramare di viver come servo?

Se c'è, che parli, perché è lui che ho offeso!

Se alcuno c'è tra voi che sia sì barbaro

da rinnegare d'essere un Romano,

che parli, perché è a lui che ho fatto torto!

E chi c'è qui tra voi di tanto ignobile

da non amar la patria? Se c'è, parli:

perché è a lui ch'io ho recato offesa. 

[...] Vuol dire allora che nessuno ho offeso.

Ho fatto a Cesare non più di quello

che ciascuno di voi farebbe a Bruto.

Le ragioni per cui Cesare è morto

son tutte registrate in Campidoglio;

la sua gloria, dov'egli ne fu degno,

non è stata offuscata, né i suoi torti

per i quali ebbe morte, esagerati.



Il discorso di Bruto, breve, è un discorso che vuole essere razionale, pretende di non incorrere nell'emotività (pur blandendola). Tuttavia, per alcuni motivi che verranno evidenziati, specialmente nelle sue premesse esso è più debole di quel he può apparire

La tesi del discorso di Bruto è che sia stato giusto uccidere Cesare e che di conseguenza i suoi uccisori non vadano perseguiti, anzi. Per sostenere questa tesi Bruto introduce un'argomentazione che farà da premessa alle altre: Bruto è persona onorevole e quindi è degno di essere creduto. Ma perché Bruto è onorevole? A guardar bene Bruto non ce lo dice, anzi, quello che si realizza è un vero ragionamento circolare: Bruto è onorevole perché credibile, ed è credibile perché onorevole.

Quindi, partendo dal presupposto che i Romani debbano credere a Bruto per la sua onorabilità, l'assassino di Cesare introduce una nuova argomentazione: lui amava Cesare, ma più di Cesare amava la sua patria. Perché Bruto ci dice questo? Perché se Bruto amava Cesare non poteva fare altro che desiderare il suo bene, ma se amava più la sua patria uccidere Cesare deve essere stato per Bruto un sacrificio da apprezzare, non certo un gesto da condannare. Quindi Cesare è stato ucciso per la sua ambizione, un'azione legittima visto che l'eccessiva ambizione mette a rischio l'intera Roma.

A questo punto Bruto pone una serie di domande retoriche che devono chiudere la discussione e che devono costringere i cittadini Romani a seguire il suo ragionamento.  Come prima cosa Bruto chiede chi potrebbe preferire morire schiavo con Cesare vivo anziché vivere libero con Cesare morto. Si tratta, a ben guardare, di una falsa dicotomia: nulla dimostra che vivendo Cesare agli altri cittadini spetti la schiavitù o che, viceversa, morto Cesare ai Romani spetti la libertà. Tuttavia, a questa domanda ne seguono altre: la prima sposta la questione sul piano morale: Bruto chiede chi possa essere così abietto moralmente da preferire la schiavitù, perché solo una persona simile può sentirsi offesa; questa domanda implica che la schiavitù non sia un accidente, ma che sia una condizione moralmente patologica; la risposta, ovvia, implica che nessuno può sentirsi offeso dall'azione di Bruto. La domanda retorica successiva chiede chi possa preferire l'essere barbaro all'essere romano: la domanda ha come premessa la considerazione posta dalla domanda retorica precedente: i barbari sono schiavi mentre i Romani liberi, perché i primi sono moralmente inferiori rispetto ai secondi. Anche in questo caso, la risposta è ovvia, nessuno può preferire essere barbaro all'essere Romano, e di conseguenza nessuno è stato offeso dall'omicidio di Cesare. L'ultima domanda retorica si fonda sulle prime due: se la schiavitù è un'abiezione morale, e se questa abiezione è tipica dei barbari, Bruto si chiede chi possa essere così vile da non desiderare di difendere la propria patria da un rischio come quello posto da Cesare. La risposta, di nuovo, è per Bruto ovvia, e ovvie ne sono le conseguenze: è stato giusto uccidere Cesare.

Dopo questo discorso Bruto pare avere convinto la folla. È importante immaginare il contesto: Bruto, e poi Antonio, sono di fronte ad una folla che desidera giustizia, quindi non stanno solo discutendo di etica: si stanno battendo per la propria vita, per non rischiare il linciaggio in quanto l'uno colpevole dell'omicidio di un potenziale tiranno, l'altro come suo primo collaboratore.

Abbiamo osservato come il discorso di Bruto si fondi su una premessa, quella dell'onorabilità, e su una serie di domande retoriche sempre più stringenti. Di fatto Bruto non ha dimostrato nulla, non ha portato dati a sostegno della propria tesi. Bruto ha tentato di convincere, con uno stile che poco ha lasciato all'emozione e che dà le proprie premesse e le proprie conclusioni come autoevidenti

Entra Antonio
Romani, amici, miei compatrioti,
vogliate darmi orecchio.
Io sono qui per dare sepoltura
a Cesare, non già a farne le lodi.
Il male fatto sopravvive agli uomini,
il bene è spesso con le loro ossa
sepolto; e così sia anche di Cesare.
V'ha detto il nobile Bruto che Cesare
era uomo ambizioso di potere:
ed egli gravemente l'ha scontata.
Qui, col consenso di Bruto e degli altri
– ché Bruto è uom d'onore,
come lo sono con lui gli altri –
io vengo innanzi a voi a celebrare
di Cesare le esequie. Ei mi fu amico,
sempre stato con me giusto e leale;
ma Bruto dice ch'egli era ambizioso,
e Bruto è certamente uom d'onore.
Ha addotto a Roma molti prigionieri,
Cesare, e il lor riscatto ha rimpinzato
le casse dell'erario: sembrò questo
in Cesare ambizione di potere?
Quando i poveri han pianto,
Cesare ha lacrimato: l'ambizione
è fatta, credo, di più dura stoffa;
ma Bruto dice ch'egli fu ambizioso,
e Bruto è uom d'onore.
Al Lupercale – tutti avete visto –
per tre volte gli offersi la corona
e per tre volte lui la rifiutò.
Era ambizione di potere, questa?
Ma Bruto dice ch'egli fu ambizioso,
e, certamente, Bruto è uom d'onore.
Non sto parlando, no,
per contraddire a ciò che ha detto Bruto:
son qui per dire quel che so di Cesare.
Tutti lo amaste, e non senza cagione,
un tempo... Qual cagione vi trattiene
allora dal compiangerlo? O senno,
ti sei andato dunque a rifugiare
nel cervello degli animali bruti,
e gli uomini han perduto la ragione?
Scusatemi... il mio cuore giace là
nella bara con Cesare,
e mi debbo interromper di parlare
fin quando non mi sia tornato in petto.
[...] Ancora ieri, la voce di Cesare
avrebbe fatto sbigottire il mondo:
ed ei giace ora là,
e nessuno si stima tanto basso
da render riverenza alla sua spoglia.
Oh, amici, fosse stata mia intenzione
eccitare le menti e i cuori vostri
alla sollevazione ed alla rabbia,
farei un torto a Bruto e un torto a Cassio,
i quali sono uomini d'onore,
come tutti sapete.
Non farò certo loro questo torto;
preferisco recarlo a questo ucciso,
a me stesso ed a voi,
piuttosto che a quegli uomini onorevoli.
Ma ho qui con me una pergamena scritta,
col sigillo di Cesare;
l'ho rinvenuta nel suo gabinetto:
è il suo testamento.
Se solo udisse la gente del popolo
quello ch'è scritto in questo documento
– che, perdonate, non intendo leggere –
andrebbe a gara a baciar le ferite
di questo corpo, e a immergere ciascuno
i propri lini nel suo sacro sangue;
e a chiedere ciascuno, per reliquia,
un suo capello, di cui far menzione
in morte, per lasciarlo in testamento,
prezioso lascito, ai suoi nipoti.
[...] Gentili amici, no,
siate pazienti, non lo debbo leggere.
Non è opportuno che voi conosciate
fino a che punto Cesare vi amasse.
Non siete né di legno, né di pietra,
ma siete uomini, e, come uomini,
sentendo quel che Cesare ha testato,
v'infiammereste, fino alla pazzia.
È bene non sappiate
che suoi eredi siete tutti voi,
perché, se lo sapeste,
oh, chi sa mai che cosa ne verrebbe!
[...] Davvero non volete pazientare?
Non volete aspettare ancora un po'?
Ho trasgredito a me stesso a parlarvene.
Fo torto, temo, agli uomini d'onore
i cui pugnali hanno trafitto Cesare.





Il discorso di Antonio esordisce con una considerazione, apparentemente simile ad una delle considerazioni di Bruto: Cesare fu amico fidato e giusto di Antonio. Se guardiamo bene Bruto aveva affermato di aver amato Cesare: Antonio afferma di essere stato amato come amico da Cesare. Tuttavia, attraverso l'uso sempre più evidente dell'arma retorica dell'ironia e del sarcasmo, Antonio dice che Bruto deve avere ucciso Cesare giustamente per l'ambizione del tiranno, ma inizia a porci il sospetto che la realtà stia esattamente nel rovescio di questa affermazione. A questo punto seguono una serie di evidenze, portate da Antonio, che hanno come scopo dimostrare quanto Cesare non fosse ambizioso e quanto operasse per il bene pubblico, e di conseguenza, quanto Bruto sia poco credibile e quinti tutt'altro che onorevole. Cesare avrebbe arricchito Roma portando una grande quantità di schiavi e ricavandone per la città grandi compensi con i riscatti; Cesare avrebbe mostrato la propria empatia verso i poveri e, potendo essere nominato re, per ben tre volte aveva rifiutato la corona. Tutto ciò, attraverso la negazione del contrario, permette ad Antonio di dimostrare come Cesare non fosse stato ambizioso, spuntando la giustificazione dell'omicidio condotto dai tirannicidi Bruto e Cassio.

Antonio poi ragiona su come l'amore per Cesare fosse condiviso dall'intera cittadinanza, e su come questo amore fosse giustificato, tanto da dover pensare che il mancato lutto e la mancata rabbia dei cittadini Romani si possa giustificare solamente con uno smarrimento del senno collettivo. Cesare infatti amò i propri cittadini, e a riprova sta il fatto che a loro ha lasciato la propria eredità, come sancito nel suo testamento. Qui Antonio infiamma gli animi con la reticenza nel dire, nel fornire dettagli; solletica il sentimento collettivo, le speranze su quanto è contenuto nel testamento, nonché la rabbia nei confronti degli assassini.

Antonio fa ampio uso della retorica, della captatio benevolentiae, della negazione del contrario, dell'ironia e del sarcasmo, ma a differenza di quello di Bruto, il discorso di Antonio colpisce l'emotività anche attraverso una struttura che costruisce un climax, con al suo apice la scoperta del testamento, l'asso nella manica in mano al collaboratore di Cesare.

A questo punto, sempre attraverso l'ironia, diviene scoperta la confutazione di ciò che era stata la premessa del discorso di Bruto, la sua onorabilità: nella frase gli uomini d'onore i cui pugnali hanno trafitto Cesare abbiamo l'esito finale, l'accusa agli assassini, i quali per aver ucciso un uomo benemerito e tutt'altro che ambizioso per forza non sono autorevoli come sostengono, e di conseguenza non sono neanche credibili, anzi, sono meritevoli della condanna e della rivolta che Antonio sta cercando di fare montare.

Antonio vince il confronto: un po' perché ha un'arma da giocarsi, il testamento, che Bruto ignora; un po' perché lui ha potuto dimostrare anziché convincere; un po' perché anche nel convincere l'amico di Cesare è stato superiore al figlio del dittatore, più lineare nella costruzione, più capace di toccare le corde dell'emotività, più sagace nell'usare la retorica. 

Antonio vince, i tirannicidi sono costretti alla fuga: la strada per la fine della Repubblica è aperta.

 

giovedì 28 settembre 2023

La questione della povertà della Chiesa, come viene dibattuta ne Il nome della rosa, come esempio di produzione e analisi argomentativa

 Di recente, insieme a dei colleghi della mia scuola, è capitato di tenere un'ora di formazione su pratiche didattiche orientative e collaborative. In questa circostanza, svoltasi presso un monastero passato di mano in mano tra vari ordini monastici, cluniacensi e francescani compresi, insieme ai compagni di avventura abbiamo presentato ai presenti all'incontro l'attività del debate come pratica strutturata; del debate o dibattito regolamentato però in questo caso abbiamo affrontato soprattutto gli aspetti introduttivi, ovvero le attività che possono servire ad avvicinare gli studenti a questa pratica, come l'uso di giochi didattici, per passare poi alla fase di ricerca delle informazioni e alla strutturazione delle linee argomentative. Nell'affrontare le linee argomentative possibili di due squadre di dibattito abbiamo fatto un esempio, calato nel contesto dell'incontro di formazione. È stata così affrontata una disputa su una questione evidentemente sentita dagli ordini cluniacensi e francescani, ovvero il possesso e l'uso della ricchezza da parte della Chiesa. Per stutturare le linee argomentative si è deciso di adoperare una fonte letteraria nobile ma contemporanea, ovvero il romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco. A partire da alcuni capitoli del romanzo sono state così delineate tre argomentazioni per la squadra pro (la squadra che avrebbe sostenuto la liceità della ricchezza in possesso della Chiesa) e tre argomentazioni a sostegno della squadra contro (quella che avrebbe dovuto sostenere la necessità dell'assoluta povertà per la Chiesa). Di seguito si riportano le mappe argomentative che riassumono questo lavoro.



L'uso delle mappe, come spiegato da Pietro Alotto nel suo recente volume Le mappe argomentative, ha permesso di evidenziare il meccanismo delle inferenze e dei ragionamenti deduttivi e induttivi. Ciò che abbiamo osservato è stato come anche fra i colleghi in pochi avessero chiaro o immediatamente evidente il meccanismo con cui si traggono conclusioni a partire da premesse esplicite o implicite. Risulta così chiaro come, nell'analizzare o nell'affrontare la stesura delle argomentazioni fra docenti e studenti, sia necessario non soltanto evidenziare quanto è esplicito, ma anzi chiedere di esplicitare l'implicito. Osservando le due linee argomentative infatti i colleghi hanno notato come la possibilità di confutazione dei ragionamenti altrui spesso si annidi proprio nell'esplicitare l'implicito, nell'evidenziare le debolezze e gli errori logici di un ragionamento a partire dal non detto: cosa che, se è valida per i docenti, è ancora più necessaria per e nell'apprendimento degli studenti.

mercoledì 27 settembre 2023

Mobilitiamoci contro la riforma dei tecnici e dei professionali allo studio del ministro Valditara




C'è una cosa di cui solo qualcuno sta parlando e che, sotto l'insegna dell'innovazione, rischia di far fare alla scuola italiana un passo indietro epocale. Di cosa parlo? Della riforma dell'istruzione tecnica e professionale che il ministro Valditara ha intenzione di varare con il governo Meloni. Di cosa si tratta?

È prevista la costituzione (a partire dall’anno scolastico 2024/2025) di una vera e propria “filiera formativa tecnologico-professionale” costituita dai percorsi sperimentali del secondo ciclo di istruzione, dai percorsi formativi degli ITS (Istituti Tecnologici Superiori) Academy, dai percorsi di istruzione e formazione professionale e da quelli di istruzione e formazione tecnica superiore. Anche le Regioni, si legge nel testo, potranno aderire alla filiera.

La riforma prevede anche la creazione di un’unica offerta di istruzione e formazione attraverso la costituzione di reti (Campus), tra gli Uffici scolastici regionali e le Regioni (che si occupano di formazione professionale), a cui potranno aderire le scuole secondarie di secondo grado, le università, gli istituti dell’Alta formazione artistica e musicale e anche altri soggetti pubblici o privati.

Tra le novità della riforma, agli studenti viene offerta la possibilità di completare il percorso di studi tecnico-professionali in quattro anni. Gli stessi studenti in possesso di un diploma professionale conseguito dopo un percorso di durata almeno quadriennale potranno iscriversi direttamente ai percorsi ITS Academy (previsti altri due anni di formazione), a seguito di validazione INVALSI. Mentre per gli studenti in possesso del diploma professionale conseguito a conclusione di un percorso di durata quadriennale, è stata stabilita la possibilità di sostenere l’esame di Stato senza esame preliminare.

Per quanto riguarda i contenuti didattici e formativi dei nuovi percorsi di formazione tecnica e professionale, sono previsti il rafforzamento delle materie di base come italiano e matematica e sale anche la qualità dell’apprendistato e dell’alternanza scuola-lavoro (previste più ore nel triennio). Gli istituti arricchiranno l’offerta didattica e i laboratori anche attraverso il coinvolgimento di esperti provenienti dal mondo produttivo e professionale. La nuova filiera avrà, inoltre, un taglio “internazionale”: previsti più scambi con l’estero, visite, stage e soggiorni di studio. 

(Fonte: Riforma Valditara, come cambierà l’istruzione tecnica e professionale )

In soldoni? Dove sta l'inghippo? Dove lo scempio?  A me sembra sia ingiusto, iniquo e inutile che una scelta compiuta a 13 anni debba di fatto condizionare il resto della propria vita, e questo è quanto accadrà differenziando così nettamente il percorso tecnico-professionale da quello liceale. La riforma, con la riduzione a quattro anni della durata del percorso, l'ulteriore incremento delle ore di PCTO (l'ex Alternanza Scuola - Lavoro), la rimodulazione delle ore delle diverse discipline d'insegnamento, avrà per forza di cose come conseguenza un avvicinamento dell'istruzione tecnico-professionale alla formazione professionale regionale; i corsi quadriennali plausibilmente non permetteranno di conseguire il diploma, come si legge in controluce nella possibilità dell'iscrizione diretta agli ITS; probabilmente questo nuovo percoso finirà per fornire un titolo equipollente che permetterà SOLO la frequenza degli ITS Academy ma non delle università. Un ritorno al doppio canale, alla scuola che precede la contestazione del 1968. Un balzo indietro che impedirà quello che vediamo acccadere ogni anno fra tanti nostri maturandi, tanti ragazzi che cambiano idea in corso d'opera durante il loro percorso formativo, indirizzandosi alla fine del percorso di studi della secondaria verso altri interessi e passioni sviluppati in quel periodo fatidico e fondamentale che è l'adolescenza. Certo, gli studenti che dagli istituti professionali e tecnici si iscrivono poi all'università non saranno la maggioranza, ma esistono, l'obiettivo della riforma è, semplicemente, impedire questa possibilità. In un paese che già ora ha meno lauerati rispetto ai paesi comparabili per popolazione e potenza economica, questa riforma rischia di riportarci ad una visione classista e immobile della società, se, come sappiamo, già oggi la scelta del percorso della secondaria di secondo grado dipende tanto, troppo, dalla condizione socioeconomica e da scelte familiari, più che dalla volontà e dagli interessi di studenti che, alla fine della secondaria di primo grado, sono spesso ancora lontani da sapere cosa sono e cosa vorranno essere davvero nella vita.
L'ingiustizia, l'iniquità e l'inutilità di questa riforma sono tutte ragioni valide per mobilitarsi contro di essa e fare sentire la voce di chi ritiene la libertà di scegliere il proprio percorso di vita, a partire dalla prorpria formazione, un diritto inviolabile che non può essere definito a priori da questo o quel ministro e dalle esigenze più o meno immediate di questa o di quella previsione economica interessata di settori industriali e della produzione economica, clamorosamente interessati a che tutto cambi perché nulla cambi mai davvero.

martedì 19 settembre 2023

Una tranquilla giornata di paura

Vi faccio notare che nella stessa giornata abbiamo letto, sentito e discusso di: una norma che allunga la detenzione (ovvero la privazione di libertà) fino a 18 mesi prima di decidere cosa fare di loro per persone che SOSPETTIAMO non avere il diritto di stare in Italia; 
una norma che prevede il ritiro immediato della patente se un pubblico ufficiale SOSPETTA, pur non avendone le prove, l'uso di stupefacenti da parte del fermato, senza attendere le analisi;
una riforma dei professionali e dei tecnici che li differenzia talmente tanto dai licei da non poter non implicare che il titolo di studi che queste scuole forniranno dovrà per forza essere diverso dal diploma dei licei, e quindi impedire l'accesso all'università, come in ben altre e più nere epoche in cui, a seconda del censo, si stabiliva chi aveva diritto all'istruzione e chi ad essere manovalanza;
un programma sulla principale radio nazionale con giornalista, scelto e voluto dal governo per la sua storia di propagatore di notizie infondate e per i suoi insulti al presidente della Repubblica, in cui si intervista come ospite un altrettanto millantatore medico radiato dall'ordine dei medici per le sue posizioni antiscientifiche, e gli viene permesso di spacciare le sue stupidaggini senza contraddittorio nel compiacimento dell'intervistatore.

Tutto in una sola giornata che, forse, a voi può apparire una giornata normalissima, a me pare l'anticamera dell'abisso.

lunedì 11 settembre 2023

The Great Debaters - Il potere della parola


 The Great Debaters - Il potere della parola è un film uscito nel 2007 per la regia di Denzel Washington, che interpreta anche uno dei protagonisti, il prof.  Melvin B. Tolson. La trama del film ripercorre la storia vera della squadra di dibattito del Wiley College, college per soli neri nel Texas del 1935. La squadra, guidata dal suo insegnante, inanella una serie di vittorie tale da indurre il prestigioso college di Harvard a sfidarla. Nella cornice della prestigiosa istituzione per soli anglosassoni il Wiley College prevale nello scontro con tema il valore della disobbedienza civile

 Il valore del fillm non sta tanto nella resa realistica delle gare di dibattito, quanto nella testimonianza di come un evento di per sé secondario, relegato al mondo accademico, come la vittoria di un torneo di dibattito, possa aver contribuito a mettere in luce le contraddizioni e il razzismo della società americana del primo Novecento.

Il film ha ottenuto la caondidatura come miglior film drammatico ai Golden Globe del 2008, e si pregia soprattutto della splendida interpretazione di Washington e di una buona scrittura, anche se talvolta lenta, soprattutto nella prima fase del film, ma a tratti potente, soprattutto nel mettere in scena l'imperante discrimiazione razziale della società americana dell'epoca.


The Sandman

 

Immagine: Wikipedia

The Sandman è una serie tv distribuita da Netflix e basata sulla omonima serie a fumetti di Neil Gaiman.

La prima stagione della serie si basa sulle storie raccolte nel volume Preludi e Notturni e nel volume Casa di bambola. Protagonista della serie è Morfeo, re del mondo dei sogni. Morfeo viene imprigionato da un magus, convinto di aver catturato un altro degli eterni, Morte, per imporle di restituirgli il figlio morto. Assente il re dei sogni, il suo regno è caduto nel caos, e così quando Morfeo riesce a liberarsi è costretto ad adoperarsi per recuperare i suoi arnesi e rimettere in sesto il suo mondo. Nel fare questo però sogno e realtà finiscono peer intrecciarsi, scoprendosi legati visceralmente. Il sogno è quindi la matrice delle speranze, dei progressi come delle paure dell'uomo.
La serie, molto attesa, è stata criticata,in particolare per la prestazione dell'attore protagonista, Tom Sturridge, in realtà molto bravo nell'interpretare l'inespressività del personaggio che interpreta, superiore ai sentimenti umani che tuttavia cerca di comprendere calandosi nella realtà dell'uomo. Proprio per questo gli episodi migliori della serie risultano essere quelli centrali, intitolati 24 ore e Il rumore delle sue ali, dove più traspare questo continuo, incessante anelito a conoscersi tra mondo del reale e mondo dello spirituale. In generale la prima stagione della serie appare ben fatta, anche e soprattutto perché nasce da un grande fumetto. Proprio per questo The Sandman merita il successo raggiunto e risulta una visione consigliata

mercoledì 30 agosto 2023

Perché non è corretto addossare alle vittime la responsabilità degli stupri

 Riflettendo su alcuni recenti casi di cronaca, e su come i media ne stanno discutendo (Giambruno è la controfigura di polemisti come Shapiro) ho deciso di provare a condurre un ragionamento che spieghi il fenomeno della vittimizzazione secondaria.


Sostanzialmente in questi giorni da più parti si è sentito dire che chi rischia di essere vittima di un reato legato alla violenza di genere, parliamo soprattutto degli stupri, dovrebbe adottare comportamenti responsabili: il non detto (neanche troppo taciuto) sarebbe che chi subisce reati legati alla violenza di genere è stato con i suoi comportamente parzialmente responsabile di quanto accaduto, perché, adottando comportamenti non responsabili la vittima si è messa in pericolo. 

Possiamo osservare qui un primo problema, al contempo terminologico e concettuale: secondo questo ragionamento rischio e pericolo sono la stessa cosa. Si fa evidentemente confusione: il pericolo è per definizione totalmente indipendente dalle azioni della vittima, ad esempio pensiamo al crollo improvviso di un ponte mentre lo si attraversa in auto, alla diffusione di una nube tossica, etc.. Insomma, la vittima non può essere colpevole dell'essere in pericolo.

Evidentemente quindi qui secondo il ragionamento condotto sui media non parliamo di "pericoli", ma di condizione di rischio: il rischio è infatti dipendente dalle azioni umane, come ad esempio quando decidiamo di camminare o correre  su un pavimento bagnato opportunamente segnalato o assumiamo farmaci scaduti o non seguendo le prescrizioni. Chi subisse un danno in una condizione di rischio siffatta andrebbe considerato responsabile di essersi messo in questa situazione. 

Osserviamo però che potenzialmente ogni azione umana implica una condizione di rischio: se la mattina non ci alzassimo dal letto non rischieremmo di cadere; se non uscissimo di casa non rischieremmo di essere investiti; se non acquistassimo un'automobile non rischieremmo di vedercela rubare. Possiamo quindi dedurre che non è ragionevole colpevolizzare ogni azione che compiamo, visto che ogni azione implica una certa dose di rischio.

E quindi, in che situazioni si può parlare di responsabilità della vittima nell'essersi messa in condizioni di rischio?
Solo alcune condizioni di rischio possono indurre ad addossare alla vittima la responsabilità di quanto subito, allorché l'effettivo realizzarsi di ciò di cui si paventava il rischio costituisce un danno per il singolo e per la comunità, tanto che risulta più conveniente che il singolo e la comunità non realizzino quelle condizioni. In questi casi infatti osserviamo l'intervento dello Stato o della comunità per impedire le condizioni di rischio; se queste non sono eliminabili quando meno esse vengono opportunamente segnalate, come con la varia segnaletica a cui siamo abituati nelle nostre strade. Si evince quindi che possiamo parlare di responsabilità della vittima a partire da un rapporto di costi/benefici per il singolo e per la comunità che se ne fa carico.

E qui viene il nodo: la comunità si fa carico della violenza di genere e degli stupri?

In realtà osserviamo che nei luoghi di ritrovo, di intrattenimento e socialità non sono vietati o realmente impediti vendita e uso degli alcolici che possono indurre le vittime della violenza alla perdita dei sensi e del controllo della situazione, infatti vendita e uso degli alcolici sono propagandati e incentivati dallo Stato stesso, pèur con formule generiche come "bevi responsabilmente"; ugualmente nei luoghi di ritrovo, di intrattenimento e socialità non sono vietati o realmente impediti vendita e uso degli allucinogeni, per i quali occorrerebbe o una militarizzazione delle nostre strade che la nostra società non accetta, o la loro legalizzazione e la vendita controllata da parte dello Stato, cosa ugualmente non accettata; osserviamo che non esiste in Italia un'adeguata educazione all'affettività e alla sessualità che limiti l'impatto degli stereotipi di genere tramandati da secoli, educazione anzi demandata alla famiglia con tutti i suoi limiti. 

È evidente insomma che nelle supposte condizioni di rischio legate alla violenza di genere non si realizza nessuna delle azioni di contenimento da parte della comunità. Anzi, osserviamo come in questo ragionamento si assuma come normale l'idea che l'uomo sia "cacciatore" e che abbia l'esigenza di sfogare i propri appetiti sessuali, tanto che in molti casi la prima reazione è quella di marchiare la vittima come poco di buono, sostenere che in fondo "alla donna piace" quanto le accade, realizzando insomma un ragionamento circolare: la vittima è tale pperché le piace, e le piace perché è normale che sia vittima.

Secondo questa visione quindi tutto sommato lo stupro è qualcosa di normale nella società, ma basta aver seguito il ragionamento e le confutazioni per accorgersi dell'abominio di questa tesi.

Questo è un ragionamento contraddittorio, che finisce per ritenere normale o fatalisticamente inevitabile che la violenza di genere e gli stupri esistano, addossando alla vittima la responsabilità di qualcosa che si vuole lasciare nell'ambito del privato (l'educazione alla sessualità all'interno della famiglia) o del sommerso. 

In conclusione, quella di cui si sta realmente discutendo è una condizione di pericolo, non di rischio: una condizione in cui la  vittima, anche lì dove abbia adottato comportamenti moralmente diiscutibili, non ha responsabilità rispetto all'agire di chi la aggredisce; quell'agire è infatti fatalisticamente tollerato (se non approvato) e comunque nessuna reale arma di prevenzione viene adottata per impedirlo, nel momento in cui la circolazione di sostanze psicotrope non è realmente contrastata o gestita dallo Stato, il consumo degli alcolici è sponsorizzato dallo Stato stesso e non esiste traccia di educazione all'aaffettività e alla sessualità. Per tutto ciò chi fa comunicazione, informazione, divulgazione su questi argomenti dovrebbe in ogni modo evitare di fare anche solo lontanamente pensare che nella violenza di genere, negli stupri ci possa essere un concorso di responsabilità.


martedì 29 agosto 2023

Giambruno è la controfigura di polemisti come Shapiro

Foto: Corriere.it

È di queste ore la polemica, l'ennesima, sulle parole di Andrea Giambruno, giornalista di Mediaset e compagno della presidente del consiglio Giorgia Meloni. Giambruno, commentando i recenti casi di stupri di Caivano e di Palermo, soprattutto in riferimento a quest'ultimo, ha sostanzialmente detto che la responsabilità degli stupri è ovviamente degli stupratori, ma che in ogni caso buonsenso consiglierebbe di evitare situazioni di pericolo, quindi che una donna ha tutto il diritto di fare quello che vuole, ma che se si ubriaca è facile che incontri "i lupi" perché la realtà non è fatta di diritti.

Andrea Giambruno sugli stupri: «Se eviti di ubriacarti, non trovi il lupo».

Giambruno fa qui riferimento ad una categoria logica ben presente in tutti noi, quella del buonsenso, categoria di cui dovremmo imparare a fare a meno (si veda Facciamo che la smettiamo di parlare di "buonsenso"?) e che accorpa stereotipi e luoghi comuni avvalorati dall'essere patrimonio di una maggioranza della popolazionee, quasi mai verificati o realmente aderenti alla realtà. In fin dei conti quando si parla di soluzioni di buonsenso si gioca sulla fallacia logica ad populum, l'idea che un'opinione condivisa a maggioranza sia ipso facto valida e ragionevole. Questo modo di argomentare è ampiamente adoperato e diffuso nell mondo conservatore, in special  modo in quello repubblicano statunitense, grazie soprattutto ad opinionisti come Ben Shapiro che hanno larghissimo e facilissimo successo. Giambruno sta semplicemente facendo in Italia qualcosa che polemisti come Shapiro hanno già fatto negli USA. 


Ascoltate le parle di Shapiro sulla responsabilità dello stupro. Miracoloso il passaggio in cui Shapiro afferma che due cose in antitesi possono essere contemporaneamente vere, un passaggio linguisticamente perfetto, logicamente falso. Capire che la competizione con la destra si combatte sui dati e sulla comunicazione è l'unico modo per non perdere. Per essere chiari su questa competizione, si guardi nuovamente Shapiro discutere di cambiamento climatico


Questo tipo di retorica va sbugiardata mettendone in luce le implicazioni paradossali con esempi come "Se esci e ti rubano la macchina è un po' anche colpa tua; hai pieno diritto di girare in macchina, ma se la tiri fuori dal garage devi anche mettere in conto che te la rubino". Un esempio perfetto? Questo splendido sketch di Chiara Becchimanzi


sabato 26 agosto 2023

Il silenzio, Don DeLillo

 


Nel 2020, ancora in piena emergenza pandemia, Don DeLillo pubblica Il silenzio, opera che evidentemente risente di quanto sta accadendo nel mondo. Cinque personaggi si alternano e si incrociano. I primi sono Jim Kripps e Tessa Berens che vengono colti da un'improvvisa emergenza mentre sono in volo: improvvisamente l'aereo su cui si trovano è costretto ad un atterraggio d'emergenza a causa dello spegnimento di tutti i dispositivi digitali. Intanto nell'East Side di New York Diana Lucas, Max Stenner e Martin Dekke li attendono a casa per un evento mondiale, la finale del Superbowl; poco prima della partita lo schermo della televisione diviene nero, la catastrofe è planetaria, il digiale è morto, funziona solamente la tecnologia analogica.

I cinque personaggi, che riescono alla fine a ricongiungersi, si alternano in domande, supposizioni, angosce e teorie. Ne emergono alcuni aspetti chiave: DeLillo descrive la società digitalizzata come in procinto di una zombificazione, che rimane inerme e inerte di fronte agli schermi neri. Una società che accetta il cambiamento antropologico figlio del cambiamento tecnologico senza chiedersi cosa e come stia avvenendo. Una società egoriferita, di gente che non vive nella società. Tutti sono presi di mira: l'uomo medio deluso dalla vita, che di fronte all'emergenza cerca uno sfogo per le sue delusioni, come Diane:

 Voglio riprendere a insegnare, voglio tornare in classe, parlare con i miei studenti dei principî della fisica. La fisica di questo, la fisica di quest’altro. La fisica del tempo. Il tempo assoluto. La freccia del tempo. Tempo e spazio. Voglio citare, e poi mi taccio, una frase a caso da Finnegans Wake, libro che sto leggendo a sprazzi, qua e là, da un tempo che definirei immemore. Questa frase è rimasta al sicuro nell’apposita sacca della mente dove si conservano le parole. Prima che il sockson luccasse le dure. Ho ancora un’ultima cosa da dire. A me stessa stavolta. Taci, Diane.

Ma anche gli intellettuali e il loro mondo di dubbi egoriferiti, incarnati da Tessa:

 Io scrivo, penso, consiglio, fisso nel vuoto. È naturale in momenti come questo pensare e parlare in termini filosofici, come alcuni di noi stanno facendo? Oppure dovremmo avere un atteggiamento piú pragmatico? Qualcosa da mangiare, un luogo dove stare riparati, amici, tirare lo sciacquone, se possibile? Tendere alle cose fisiche piú semplici. Toccare, percepire, mordere, masticare. Il corpo alla fine fa di testa sua.

Tuttavia le teorie del più geniale dei personaggi, Martin, che cercano di spiegare gli accadimenti, sono lo specchio di un'altra fetta di società, speculare comunque alla comunità descritta negli altri personaggi; quella di Martin è la popolazione che vede il complotto ovunque, paranoica, luddista, vittima a sua volta di bias cognitivi che ne caratterizzano il ragionamento narcisistico:

– Nessuno vuole chiamarla Terza guerra mondiale, ma è di questo che si tratta, – dice Martin.

e poi ancora  

 E le strade, queste strade. Non ho bisogno di guardare fuori dalla finestra. La folla ormai dispersa. Le strade ormai vuote.

Questo è quanto dice il giovane Martin, lo sguardo rivolto verso il basso tra le dita a ventaglio.

– Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?

A tutti si contrappone Max, ingenuamente pragmatico. L'unico che osa uscire dalla stanza per andare a vedere cosa davvero sta accadendo fuori, e che torna poi a fissare lo schermo in attesa che qualcosa accada:

Max non ascolta. Non ha capito niente. Sta seduto davanti al televisore con le mani intrecciate sulla nuca, i gomiti all’infuori.

E poi fissa lo schermo nero.


 Mi sembra evidente che Il silenzio sia un romanzo della pandemia. Non perché parli della pandemia da Covid19 in sé, ma perché analizza e mette allo scoperto paure e idiosincrasie emerse negli anni dopo il 2019. La paura di rimanere totalmente soli senza nemmeno il digitale a garantirci un aggancio con il mondo fuori, e la scoperta di essere sempre stati soli; la scoperta che competenze e conoscenze profondissime ma settoriali non garantiscono affatto la capacità di analisi di avvenimenti del tutto inaspettati e fuori dalla nostra portata; la scoperta di quanto il rapporto con la realtà sia filtrato dalle tecnologie che adoperiamo dalla notte dei tempi; la scoperta, infine, di quanto i nostri comportamenti siano spesso egoriferiti, e di come un'emergenza globale ci faccia scoprire la nostra esigenza di essere individui nel momento in cui è più evidente il nostro esistere solo in quanto collettività.

Stilisticamente l'opera si può dividere in due sezioni: la prima, narrativa, che mette in scenda l'accadimento; la seconda dialogica e riflessiva, che analizza i personaggi alla luce degli accadimenti. Soprattutto nella seconda parte, in cui accanto al dialogo fanno da padrone il monologo e il monologo interiore, DeLillo appare più didascalico; lì dove all'autore, pur sempre un peso massimo della letteratura, servirebbe la capacità di essere massimamente analitico, di essere un David Foster Wallace, o di essere massimamente tragico, di essere un McCarthy, per intenderci, in entrambi casi a mio giudizio DeLillo non riesce. È come se l'esigenza di esprimersi dell'autore, in questi casi, abbia superato la necessità di lavorio letterario e di scavo che l'opera avrebbe richiesto.

Ugualmente Il silenzio, romanzo breve, è un'opera di cui si può consigliare la lettura come esempio eccezionale di analisi contemporanea di un'esperienza altrettanto contemporanea ed eccezionale, come quella che la nostra generazione ha vissuto negli ultimi anni.

sabato 19 agosto 2023

Ancora sulla valutazione: risposta alla lettera del dirigente scolastico Citarelli

 Il 10 aprile 2023 il dirigente scolastico Citarelli ha sentito la legittima necessità di dire la sua sulla questione della valutazione, inviando una lettera ad Orizzonte Scuola. Trovo interessante questa lettera, perché proviene da un addetto ai lavori, qualcuno che ha potere decisionale nella scuola e un certo seguito sui social. Per analizzare la lettera, e confutarne premesse e considerazioni, ho deciso di mapparla. Di seguito quindi troverete la mappa argomentativa del testo originale che ne esplicita tesi, premesse e argomentazioni, nonché ne segnala gli errori logici e ne confuta i passaggi.

Link


La tesi del dirigente scolastico è che la valutazione numerica, il voto, sia l'unica forma di valutazione significativa e che sia ingiustamente messa sotto attacco. L'autore della lettera inizia ad argomentare sostenendo che

Chi continua, ormai, tutto sommato, da vari decenni, a demonizzare i voti, rispetto agli stessi apprendimenti ed al successo formativo degli alunni, vive in una realtà parallela, che non corrisponde al comune intendere e sentire della stragrande maggioranza di alunni e famiglie.

La premessa di questo ragionamento è la fallacia logica dell'argumentum ad populum, che scambia la comodità di una decisione a maggioranza con l'idea che la maggioranza, in quanto tale, abbia sempre ragione; ovviamente sappiamo che la maggioranza può prendere clamorose cantonate e che richiamare l'idea che il comune sentire veda in una certa maniera la valutazione non sposta di un millimetro la questione della validità della stessa.

Successivamente Citarelli inanella una serie di premesse che dovranno sostenere succcessive argomentazioni. Dice l'autore:

Per “valutazione” è da intendersi, oltre che l’atto del valutare, anche il “dare valore”. Quindi, valorizzare il potenziale di tutti gli alunni, accogliendo anche le diversità di ciascuno di essi nel percorso di insegnamento/apprendimento.

Ma

“Valutare” e “valorizzare”, ad ogni buon conto, nel linguaggio corrente hanno un differente significato.

Cioè

Valutare significa attribuire un valore, stimare (un oggetto, un terreno, una prestazione, ecc…). Serve, in tal caso, qualcuno che per i suoi studi e la sua esperienza abbia gli strumenti per farlo.

E

Valorizzare vuol dire, invece, far acquistare valore o mettere in risalto il valore di qualcosa o di qualcuno. Nel caso del docente, vuol dire mettere un allievo nelle condizioni di scoprire e utilizzare al meglio le proprie capacità; una competenza, questa, che integra quella strettamente disciplinare.

Ciò che viene lasciato implicito è che per l'autore entrambe le funzioni sono assolte a dovere e unicamente dal voto numerico. Alla luce di quanto detto il dirigente sostiene che

Possiamo, dunque, adesso porci il quesito, se gli studenti siano stimolati o demotivati da un voto negativo. C’è prima di tutto da chiedersi se, da questo punto di vista, esista differenza tra un 5 e un “insufficiente” o un “iniziale” o tra un 4 e un “gravemente insufficiente” o “in via di prima acquisizione”. E possiamo chiederci se è vero, come molti credono, che le parole siano “più eque e meno limitanti” dei voti decimali.

La premessa implicita di quanto qui sostenuto è che non ci sia una reale differenza informativa fra voto numerico e valutazione descrittiva: entrambe fornirebbero le stesse informazioni e non ci sarebbero particolari vantaggi nel passaggio dai numeri alle descrizioni. Da ciò deriverebbe che 

La risposta a tali quesiti è tanto evidente, da non richiedere ulteriori approfondimenti, dal momento che risulta chiaro che una valutazione negativa espressa tramite giudizio sintentico non possa demotivare in misura minore rispetto ad una valutazione negativa espressa con voto decimale; l’unica differenza è che quella con voto decimale risulta molto più comprensibile, sia per gli alunni che per le famiglie (e possiamo allora dedurne anche che le succitate “parole” non sono “più eque e meno limitanti” dei voti decimali). Meglio discutere, dunque, degli effetti di una valutazione negativa, comunque sia espressa.

A questa argomentazione si può facilmente contestare che avendo fondato il ragionamento su una petizione di prinipio - non c'è differenza fra voto numerico e giudizio sintetico perché giudizio sintetico e voto numerico sono di fatto la stessa cosa -, il discorso si infrange sull'impossibilità di essere dimostrato, tanto che l'autore è costretto a sostenere che si tratti di qualcosa talmente evidente da non dover essere dimostrata. Inoltre, definendo "del tutto evidente" l'autore evita di citare i dati che smentiscono la sua asserzione, frutto di quasi un secolo di ricerca pedagogica, incorrendo nella fallacia dell'evidenza soppressa. In ultimo, l'autore evita  di citare dati a sostegno della propria posizione che siano frutto di documentazione scientifica, venendo meno all'onere della prova.
Possiamo osservare come il dirigente scolastico prosegua il proprio argomento, di fatto limitandolo, sostenendo che

È ovvio che [gli effetti della valutazione] in buona parte dipendono dalla sensibilità e dal carattere dello studente, ma anche, e forse soprattutto, dalla qualità del rapporto con l’insegnante. All’interno di un rapporto di fiducia, la valutazione negativa può non fare piacere, come è logico, ma è probabile che sia un incentivo a fare meglio. E proprio in tal senso, più è chiara, più l’incentivo risulta evidente ed in certo senso funge maggiormente da “stimolo” (a migliorare).

Così facendo l'autore però  pone dei limiti alla stessa validità della propria argomentazione, tra l'altro avallando l'idea che lo studio debba dipendere da motivazioni estrinseche (il voto) anziché intrinseche (la volontà di apprendere di più e meglio). Lo stesso autore finisce per confermare che l'aspetto realmente importante della valutazione è la descrizione della prestazione, cioè quella forma di feedback che permette di rendere significativa la valutazione per il discente, e infatti è costretto ad ammettere che l'esito della valutazione dipende dal rapporto docente - discente, non dalla semplice lettura del voto numerico, di per sé un significante vuoto.

Citarelli porta successivamente una terza argomentazione.

Il voto rappresenta, in ogni caso, un elemento di chiarezza che, nella mia personale esperienza (e, aggiungo, anche in quella dei docenti con i quali mi sono confrontato, sia da collega che, successivamente, da Dirigente), gli alunni apprezzano (e che io stesso ricordo molto bene di avere apprezzato anche da alunno, soprattutto allorquando, con mia somma delusione, entrato in prima media, nel lontano 1978, scoprii che non sarei stato più valutato tramite i miei amati voti, bensì tramite un giudizio descrittivo!).

Osserviamo qui come l'autore della lettera ricorra all'aneddotica per motivare una asserzione che pretende di essere rigorosa, universale, e necessaria , e che quindi, per questo, avrebbe bisogno di ben altri dati a suo sostegno. 
Citarelli continua sostenendo che

Il giudizio descrittivo (anche in forma sintetica) è spesso ondivago, sottoposto da parte dei genitori a mille interpretazioni (anche in considerazione del dato di fatto che non tutti i genitori posseggono gli strumenti interpretativi adeguati), laddove il voto numerico è preciso, secco, universalmente comprensibile e non dà adito ad interpretazioni difformi e/o sommarie. Il giudizio può essere inteso in maniera molto personale; la valutazione in decimi, come risulta intuitivamente evidente, no.

Ma l'autore non porta prove al riguardo. Lui stesso ammette che la sua sia una semplice opinione, asserendo che la differenza fra giudizio e voto è semplicemente intuibile, cercando di spostare il discorso dagli esiti della ricerca scientifica a quelli dell'esperienza aneddotica e personale, quindi soggettiva.
Nondimeno il discorso del dirigente scolastico prosegue su questa linea argomentativa sostenendo che

L’alunno, già dalla scuola primaria, dovrebbe avere contezza dell’importanza di una prova (scritta od orale che sia) e dovrebbe essere convinto di averla svolta correttamente oppure no. Se prende 5 (o, per la scuola secondaria, anche 4) significa che deve migliorare le sue performance; se prende 6, 7, 8, fino a 10 significa che deve migliorare sempre più, per avere il massimo. Il giudizio, invece, non offre all’alunno questa possibilità e lo lascia nell’incertezza (assieme al genitore, che sicuramente richiederà poi spiegazioni al/ai docente/i). Si sente spesso affermare: “Mio figlio alla verifica scritta (o orale) ha avuto ‘intermedio’ (o ‘buono’). Ma questo ‘intermedio’ (o ‘buono’) a che voto corrisponde?”.

In realtà le parole di Citarelli continuano a rigirare intorno al discorso circolare già evidenziato, il voto è oggettivo e la valutazione è soggettiva perché il voto è oggettivo e la valutazione è soggettiva. Nulla che dimostri nulla viene portato agli occhi del lettore. Infatti, come già visto, l'oggettività del voto e la soggettività del giudizio sono date per certe attraverso un ragionamento circolare. Si tratta di opinioni dell'autore spacciate per verità.
A sostegno del ragionamento l'autore scrive che

E il docente deve dare spiegazioni al genitore [quando usa valutazioni descrittive]. Questo, il più delle volte, non è facile. E per questo motivo, anche nella scuola primaria, la valutazione numerica è migliore, perché l’alunno possa avere consapevolezza delle personali capacità e potenzialità.

Tuttavia il fatto che "Il docente deve dare spiegazioni al genitore" dimostra, semmai, che nel momento in cui si passa dal voto numerico ad una valutazione di tipo descrittivo si svela l'arcanum della valutazione, ovvero che essa non ha un valore in sé, che essa è un atto di arbitrio e che essa diventa significativa solo nel momento in cui dà chiaramente al discente gli strumenti per renderla produttiva di migliorammenti nelle prestazioni e nelle conoscenze.

A questo punto il dirigente scolastico, quasi inconsciamente, sembra prendere le distanze da quanto ha appena scritto

Il voto, certo, ha bisogno di essere spiegato e motivato, si tratti di verifica scritta o orale. E non c’è dubbio che sia molto importante motivare una valutazione, soprattutto quando non è positiva, e “valorizzare” eventuali miglioramenti o l’impegno che c’è stato e/o la possibilità di correggere gli errori (secondo l’antico, ma sempre valido proverbio “sbagliando s’impara”, poi sostituito dal concetto di… “valutazione formativa”).

E che quindi 

Possiamo, dunque, dire che il voto ha bisogno del giudizio, ovvero di una spiegazione, ma, di converso, anche un giudizio ha comunque bisogno di confrontarsi con il voto, per evitare scarsa chiarezza, ambiguità, reticenze.

In realtà il ragionamento fin qui condotto e le confutazioni portate dimostrano che il voto senza spiegazione è poco significativo, ma non il contrario, visto che la soggettività del giudizio descrittivo è stata sostenuta come verità autoevidente senza portare alcun tipo di dimostrazione.

Il dirigente scolastico prosegue la propria lettera fornendo un'ulteriore argomentazione a sostegno della propria tesi, di tipo, diciamo, psicologico. Scrive Citarelli:

C’è un ulteriore elemento da tenere presente in questa discussione: la necessità di ricercare in un processo educativo un equilibrio tra codice paterno (principio di realtà) e codice materno (protezione, accoglienza), secondo una terminologia cara agli psicologi.

La premessa implicita della linea argomentativa ora scelta è che il voto numerico è oggettivo e paterno, il voto descrittivo è soggettivo e materno. Citarelli prosegue sostenendo che

A volte la contrarietà al voto nasce soprattutto dal desiderio di proteggere sempre e comunque gli allievi dalla frustrazione e dalla delusione, che una valutazione negativa inevitabilmente comporta.

Anche in questo caso, per capire il ragionamento dell'autore dobbiamo cercare di definire le premesse implicite, in questo caso il fatto che la valutazione descrittiva non è vera valutazione, ma un tentativo di addolcire la pillola. Da queste premesse ne consegue che

Ma nell’educazione un eccesso di maternage può avere serie conseguenze sulla personalità dei ragazzi, che possono diventare ‘narcisi’, incapaci di confrontarsi con qualsiasi delusione o insuccesso

Come abbiamo visto però anche questa argomentazione si fonda sull'assunto indimostrato della soggettività di una valutazione descrittiva, quando al contrario la premessa di ogni valutazione è l'essere massimamente rigorosa per essere massimamente significativa.
Citarelli prosegue aggiungendo che

Inoltre, può succedere pure che il docente tenda a “proteggere” piuttosto se stesso (anche inconsciamente), per evitare una scelta che in qualche caso può essere penosa. Il tema è importante nel rapporto tra genitori e figli e spesso coinvolge anche gli stessi insegnanti.

Qui l'autore sostiene che la valutazione descrittiva tenda a nascondere le reali prestazioni, quando semmai è proprio il contrario, perché descrivendo il prodotto questa valutazione non può allontanarsi da ciò che realmente è stato realizzato. Al contrario, il voto numerico, non descrivendo nulla può permettere più facilmente ciò che viene sostenuto dall'autore.

A questo punto il dirigente scolastico decide di introdurre una nuova argomentazione, che potremmo riassumere nel "fan tutti così". Citarelli infatti scrive che

Un rapido confronto con i sistemi di valutazione scolastica di altri Paesi europei ed extraeuropei risulta anche importante. Prendiamo, ad esempio, i sistemi dei tre Paesi leader in Europa (Germania, Francia e Regno Unito) e degli Stati Uniti.

Di fatto torniamo ad una forma diversa dell'argumentum ad populum che avevamo osservato ad inizio lettera. Per rafforzare l'argomento il dirigente scolastico precisa

Si parla qua, è bene sottolinearlo, di alcuni tra i Paesi più sviluppati al mondo, riconosciuti universalmente come le “culle” della democrazia.

La premessa implicita è che se questi paesi in passato hanno fatto bene in altri campi (e dobiamo prendere per buono che questa idea sia sempre e comunque vera), è impossibile che abbiano torto su questa questione.
L'autore riporta gli esempi di Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti, paesi diversi tra di loro, con sistemi scolastici anche molto diversi (e non per forza invidiabili, aggiungo io). Sistemi scolastici, tutti comunque accomunati da sistemi di valutazione numerici o per lettere. Possiamo osservare come qui Citarelli cada nella fallacia del campione non rappresentativo: si prendono quattro paesi e si pretende che questo sia un campione rappresentativo di ogni forma scolastica, tra l'altro inviluppandosi in una evidente forma di cherry picking: la scelta degli esempi è infatti funzionale a dimostrare la propria tesi ma omette casi che la smentirebbero, come quello, clamoroso, della scuola finlandese.
Partendo dagli esempi forniti, sicuramente interessanti ma non ipso facto rappresentantivi, Citarelli scrive che

Se, dunque, in quei Paesi (che ci sopravanzano in pratica in tutti i settori) i sistemi di notifica della valutazione scolastica sono questi ed a nessuno è mai venuto in mente di eliminare la valutazione chiara del numero (o della lettera corrispondente al numero, come nel caso degli Stati Uniti), per quale ragione in Italia da almeno 5 decenni si continua a tutti i costi a contrastare ciò che è universalmente riconosciuto come valido?

Come abbiamo già visto, si tratta di argumentum ad populum: se la maggioranza fa così, vuol dire che è giusto fare così. Abbiamo già visto come Citarelli non dimostri neanche il fatto che sia la maggioranza dei paesi a scegliere questo tipo di valutazione, preferisce semmai puntare sulla rappresentatività degli esempi scelti. In realtà il fatto che un certo numero di paesi scelga la valutazione numerica non dimostra di per sé una maggiore o minore validità di questa forma di valutazione. Tra l'altro, possiamo aggiungere il fatto che non è vero che in questi paesi non sia stata messa in discussione la valutazione numerica, anzi, molta della ricerca pedagogica sulla validità della valutazione descrittiva, del feedback formativo, nasce proprio in quei sistemi scolastici che Citarelli cita.

A questo punto il dirigente scolastico si avvia verso la conclusione della lettera. Scrive

Personalmente, infine, sento troppo spesso persone (pedagogisti, addetti ai lavori, politici) che non si limitano a sostenere la necessità di adottare nuove strategie didattiche, ma che lo fanno a partire dalla colpevolizzazione degli insegnanti, ai quali si addebitano tutti gli insuccessi scolastici.

Ciò che l'autore lascia implicito è un sentimento spesso strisciante fra i docenti, almeno quelli social, ovvero che il passaggio dal voto numerico a diverse forme di valutazione sia un attacco ai docenti italiani in quanto tali proveniente da forze esterne alla scuola. Scrive infatti

Anche qui, non di rado, capita di ascoltare finanche battute sprezzanti sul godimento che, non qualche insegnante, bensì gli insegnanti in genere, proverebbero nel sentirsi ripetere a pappagallo le loro spiegazioni.

Mi permetto di obiettare alcune considerazioni: chi adopera la valutazione in classe? Insegnanti o studenti? A chi va addossata la responsabilità dell'emissione del giudizio, a chi lo emette o a chi lo subisce? Del resto, anche in questo caso Citarelli lancia il sasso ma nasconde la mano: non vengono riportati esempi che dimostrino questa critica indiscriminata ai docenti da parte di chi propone la valutazione descrittiva. 
L'autore quindi conclude scivendo che

Se si vuole che gli insegnanti riflettano sul proprio modo di lavorare e prendano in considerazione i cambiamenti giusti (non quelli delle didattiche che prevedono l’utilizzo dei giudizi al posto dei voti numerici e neppure quelli che generalizzano l’idea del “docente liquido” delle… “flipped classrooms”, ecc…) non credo sia questo il modo di incoraggiarli in tal senso.

La premessa implicita di questa conclusione è che la valutazione descrittiva e altre forme didattiche sperimentali sono inutili e quindi inutili nel favorire una riflessione sulla didattica. Anche qui però il dirigente incorre in una petitio principii: ogni innovazione didattica è inutile perché è inutile nella sua stessa innovazione didattica. Si tratta di un ragionamento indimostrato e involuto.


A conclusione di questa analisi, una precisazione: avere dimostrato che le argomentazioni del dirigente scolastico Citarelli a sostegno della propria tesi non siano valide non rende in automatico non valida la tesi; dimostra semplicemente che la tesi sia sostenuta male. Personalmente non la condivido. Al riguardo rimando alla recensione del volume La valutazione che educa  e al picccolo dibattito conseguente tenuto su piattaforma Kialo.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....