lunedì 10 ottobre 2022

Lettera ad una professoressa, Lorenzo Milani


Lettera ad una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani è un'opera di saggistica che colpisce gli insegnanti che la leggano, oggi come ieri. Colpisce dell'opera la lucida analisi che mette in relazione la dispersione scolastica e condizioni sociali di partenza degli studenti - aspetto tutt'oggi trascurato da molti critici del sistema scolastico -, evidenziando come gli stessi risultati scolastici dipendano spesso dalle condizioni di nascita e dai risultati attesi dagli insegnanti: se oggi anche in Italia si parla largamente di distorsioni della valutazione, di effetto alone, di iperstereotipia e di effetto Pigmalione è anche per l'impatto che l'opera di Milani ha avuto. Ne viene fuori un mondo degli insegnanti che nel nostro paese, ieri, più che ambire a modificare la realtà che lo circondava, ne dava notarilmente conferma: il poverò è ignorante perché il povero è ignorante e non può essere altrimenti.

Gianni è milioni

La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.

La vostra «scuola dell’obbligo» ne perde per strada 462.000 l’anno.t A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli. Non noi che li troviamo nei campi e nelle fabbriche e li conosciamo da vicino.

I problemi della scuola li vede la mamma di Gianni, lei che non sa leggere. Li capisce chi ha in cuore un ragazzo bocciato e ha la pazienza di metter gli occhi sulle statistiche.

Allora le cifre si mettono a gridare contro di voi. Dicono che di Gianni ce n’è milioni e che voi siete o stupidi o cattivi.

Ci sarebbe da chiedersi: e oggi? Certamente oggi i dati della dispersione scolstica si sono grandemente abbassati, il legislatore ha imposto che l'obbligo scolastico non sia più di 8 anni ma di 10, ha esteso l'obbligo formativo. Eppure c'è da chiedersi se le stesse distorsioni di sessant'anni fa non agiscano ancora nella valutazione degli insegnanti.  È indubbio che ci siano ancora colleghi che vorrebbero poter urlare all'ignorante che è tale e che tale rimarrà, senza doversi porre le due fatidiche domande: come mai l'ignorante è tale e cosa io che insegno ho fatto davvero per lui. È molto più semplice recriminare contro le ingerenze del sistema, del legislatore, dei genitori, del gender, dei poteri forti...

Va anche detto che non tutto ciò che Milani propone risulta oggi condivisibile: la visione dell'autore è dichiaratamente classista, nel senso che s fonda sulla lotta di classe, messianica e antimoderna. Per Milani le scienze e le arti sono cose inutili, da ricchi, non adatte all'insegnamento nell'età dell'obbligo. Nell'età dell'obbligo vanno forniti esclusivamente saperi "utili". Però Milani esclude in questo modo qualsiasi forma di confronto con l'altro da sé: verrebbe da dire che rinchiude il povero nella stessa prigione da cui lo vuole fare evadere. Riprova ne è l'apprezzamento dell'autore per la scuola del doppio canale. Milani non pensa di dover far raggiungere ai figli dei poveri un sapere superiore, semplicemente perché non riconosce alcuna superiorità al sapere figlio dell'accademia e delle arti. Il sapere che ha in mente Milani è schiacciato sul presente: lui che è figlio di una cultura storicistica sembra abiurare alla necessità della comparazione diacronica.

Comunque sia l'opera è potentissima nella sua parte destruens: si leggano le pagine sull'insegnamento dell'Educazione civica e le si compari con il benaltrismo di tanti colleghi ancora oggi:

educazione civica

Un’altra materia che non fate e che io saprei è educazione civica.

Qualche professore si difende dicendo che la insegna sottintesa dentro le altre materie. Se fosse vero sarebbe troppo bello. Allora se sa questo sistema, che è quello giusto, perché non fa tutte le materie così, in un edificio ben connesso dove tutto si fonde e si ritrova?

Dite piuttosto che è una materia che non conoscete. Lei il sindacato non sa bene cos’è. In casa di un operaio non ha mai cenato. Della vertenza dei trasporti pubblici non sa i termini. Sa solo che l’ingorgo del traffico ha disturbato la sua vita privata.

Non ha mai studiato queste cose perché le fanno paura. Come le fa paura andare al fondo della geografia. Nel nostro libro c’era tutto fuorché la fame, i monopoli, i sistemi politici, il razzismo.

Ancora, si leggano le pagine e pagine sui maestri e le maestre incapaci di mettere in discussione la propria didattica, i propri criteri di valutazione. Milani mette in dubbio il fine stesso della didattica e della valutazione tradizionali:

arrivisti a 12 anni

Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse non esiste, forse è volgare.

Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null’altro.

Dietro a quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale. Il diploma è quattrini. Nessuno di voi lo dice. Ma stringi stringi il succo è quello.

Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere già arrivisti a 12 anni.

A 12 anni gli arrivisti son pochi. Tant’è vero che la maggioranza dei vostri ragazzi odia la scuola. Il vostro invito volgare non meritava altra risposta.

Ultima nota: quando si dice che Lettera ad una professoressa è libro di Lorenzo Milani si dice un'inesattezza: sono i ragazzi di Milani ad aver scritto l'opera, coordinati dal loro don ormai quasi sul letto di morte. Lettera ad una professoressa è opera di scrittura corale, in cui gli studenti di Milani hanno disseminato le loro competenze e la loro richiesta di chiarezza, dalla scuola, dallo Stato, dal mondo adulto.

Insomma, Lettera ad una professoressa è ancora oggi un libro che colpisce, che mette in discussione l'insegnamento, che scopre la lotta di classe dove non la si vuole vedere, anzi, dove la si vuole nascondere o obliare sotto la distopia del merito.

 

domenica 2 ottobre 2022

Epica e parodia: Orlando e Aiace

Quando nel 1516 Ludovico Ariosto conclude la prima edizione dell'Orlando furioso, la crisi che caratterizzerà Italia ed Europa tra Cinquecento e Seicento è agli inizi. In Italia è già avvenuta la discesa dell'invasore francese; la scoperta delle Americhe sta iniziando a spostare il baricentro economico verso le coste oceaniche; di lì a breve a Wittenberg compariranno le 95 tesi di Lutero.

In questo contesto, Ariosto riprende una tradizione, quella epico-cavalleresca, tornata alla luce in Italia nel secolo precedente. L'epica cavalleresca tentava di tenere assieme la tradizione cortese e lla riscoperta dell'epica classica; questo amalgama si inverava nell'ideale umanistico dell'uomo misura di tutte le cose perché immagine e somiglianza di Dio, rappresentato dagli eroi protagonisti dei canti. Orlando in primis.

Quando però Ariosto mette mano al genere è ormai difficile credere ciecamente a questo ideale: troppi eventi hanno messo in discussione l'idea che intelletto e azione possano regolamentare ordinatamente il mondo: gli anni di pace dopo gli acccordi di  Lodi parevano aver regalato una costruzione razionale ll'Italia, mentre si scopriva ora la debolezza delle signorie della penisola; la scoperta di un nuovo continente avveniva per errore, e metteva in luce che non tutto è contenuto nelle sacre scritture.

Contestando l'ideale stesso dell'eroe classico, Ariosto finisce per riprendere il genere dell'epica cavalleresca, trasformandolo. La struttura dell'opera non appare più lineare, si divide in tre filoni costellati da mille rivoli intrecciati; l'intrecciarsi delle vicende, il loro rovesciamento, ci viene anticipato già nelle prime ottave, con il celebre chiasmo dei primi due versi e con l'allontanamento dell'invocazione alla musa ispiratrice, posposta alla seconda ottava e, nuovamente, rovesciata nella richiesta alla donna amata di lasciare all'autore il sennno necessario per proseguire nell'opera; soprattutto, gli eroi si scoprono uomini comuni in balia degli eventi esterni e di passioni tutte interne, dei loro limiti in quanto esseri umani. Insomma, Ariosto finisce per fare spesso la parodia dell'epica, nel senso etimologico del termine: cammina accanto all'epica, nei riusa i topoi, ma per dire altro, talvolta l'opposto.

Un esempio concreto è il riuso del topos della follia dell'eroe. Ariosto riprender l'immagine di Orlando innamorato da Boiardo, ma lo porta agli estremi. Gà nell'epica classica però incontriamo il tema della follia dell'eroe: si pensi per esempio all'Ercole furente e, più ancora, alla follia di  Aiace.

Proprio il confronto con Aiace può risultare utile a capire ciò Ariosto realizza. Cos'è infatti la follia? Essa è uno stato di alterità, il rovesciamento della realtà, l'incrocio tra reale e immaginario, lo scarto dalla norma, l'irrazionalità che svela l'inganno della ragione. Dirà Erasmo da Rotterdam che la follia mette in luce la contraddizione della saggezza, perché solo il folle sfida e oltrepassa i limiti che i saggi conoscono senza averne fatto esperienza: insomma, solo il folle è saggio.

Date queste premesse, si può confrontare la follia dei due personaggi. Se per Orlando essa è causata dall'amore, ovvero da un sentimento che nasce e cresce nell'animo del personaggio. È vero che quando Astolfo si impegnerà nella ricerca del senno dell'eroe, Giovanni Evangelista dirà che la follia di Orlando sia stata voluta da Dio per punirlo del suo eccesso di amore, ma questo intervento in fin dei conti riprende l'idea che la causa ultima della follia di Orlando è Orlando stesso e il suo amore smisurato.  La follia di Aiace è voluta dalla divinità. Aiace, a contesa con Odisseo per le armi del defunto Achille e quindi per la preminenza fra gli eroi greci, viene punito e umiliato da Atena, punito per non aver voluto il suo soccorso in battaglia, umiliato e distrutto come eroe per il puro gaudio della divinità, mostrandoci il concorrente di Aiace, Odisseo, atterrito per la violenza e profonda cattiveria del dio.

Nel momento della sua follia Orlando uccide e distrugge ciò che gli capita a tiro, uomini e bestie, non distinguendo le une dalle altre; nel momento della follia Aiace uccide greggi e armenti convinto che siano gli eroi greci su cui vuole vendetta.

Qui però emerge la differenza fra i due eroi che sottende una diversa concezione da parte di Ariosto: quando Orlando recupera il senno grazie all'interventto dii Astolfo, ritorna al suo ruolo di eroe, il suo onore non è compromesso, ne giunge invece la consapevolezza che l'eroe non è altro che un uomo come gli altri, di certo non infallibile, spesso vittima di agenti esterni e di passioni interne. 



Quando Aiace rinsavisce, invece, ha immediatamente chiaro che il suo onore è perduto, perché esso deriva dall'essere stato padrone delle proprie azioni, della propria forza smisurata; nel momento in cui Aiace finisce vittima dello strapotere di Atena, il suo status stesso di eroe è venuto meno. La scelta di Aiace è consequenziale: l'unico modo per recuperare lo status di eroe è riaffermare, contro la divinità, il poossesso delle proprie scelte. Per questo Aiace conficca la spada sul suolo e vi si lancia sopra suicidandosi, come ci raccconta Sofocle nella sua tragedia.

Quindi, se Aiace è, anche nell'esito tragico, eroe classico che riafferma il pieno possesso di sé, Orlando è al contrario eroe della crisi, che nel momento di massima espressione della propria potenza di fa quasi figura tragicomica, solo per scoprire infine di non essere altro che pedina nelle mani di forze per lui incontrollabili.




Bibliografia

Brillante, C. (2013). La morte di Aiace in Sofocle e nei poemi del ciclo epico. Quaderni Urbinati Di Cultura Classica, 103(1), 33–51. https://www.jstor.org/stable/44740659?read-now=1#page_scan_tab_contents

Floris, G. (2020). Parodia del mito nel Furioso. Cahiers d’études Romanes, 40, 13–31. https://doi.org/10.4000/etudesromanes.10288

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....