mercoledì 27 luglio 2022

Il nome della rosa, Umberto Eco


Il nome della rosa di Umberto Eco è uno dei capolavori della letteratura italiana degli ultimi cinquant'anni. Già dalla sua pubblicazione nel 1980 il romanzo ha rappresentato la summa del postmodernismo italiano, rappresentando la via nostrana all'acquisizionne delle idee del movimento culturale.

Nel romanzo il protagonista, Adso da Melk, si presenta, all'epoca dei fatti che racconta era un giovane novizio, affidato alle cure del monaco francescano Guglielmo da Baskerville, dotto teologo ed ex inquisitore. I due sono in viaggio verso un'abazia italiana presso cui si terrà un incontro fra i teologi imperiali, fra i quali Guglielmo, e i teologi del papa avignonese. Tema del dibattere è la povertà francescana. In realtà però la permanenza dei protagonisti presso l'abazia viene funestata da una serie di ommicidi e dal mistero della biblioteca labirinto con i suoi inestimabili tesori, tra i quali il libro perduto di Aristotele, il volume sull'arte della commedia. 

Il romanzo è scritto in una lingua altissima, che si diverte divincolandosi tra citazioni dotte, latinismi, anglismi, francesismi, nonché nel pastiche letterario che porta i personaggi a parlare talvolta in tedesco o nella lingua di Babele di Salvatore, uno dei personaggi che popolano l'abazia, miscuglio di tutte le lingue con cui l'incolto ha avuto a che fare nella sua vita.

Ma Eco non lavora solo con la lingua: l'occasione gli permette di dissertare di teologia, semiologia, scienze, letteratura, e di esprimere l'assunto del postmodernismo: non esistono fatti, solo le interpretazioni.  Così è vero che Guglielmo scopre alla fine la realtà degli omicidi, e prima ancora la soluzione che gli permette di attraversare la biblioteca-labirinto: ma la soluzione degli enigmi è sempre casuale, l'interpretazione che Guglielmo dà ai problemi è al contempo lgica, legittima ed errata. Come sono errate le interpretazioni che altri personaggi danno ai fatti, come Bernardo Gui, inquisitore papale, dotto, coltissimo, fine teologo e totalmente privo della capacità di  dubitare del proprio sapere.

Se c'è un messaggio che il romanzo vuole veicolare è proprio questo: l'inno al dubbio come metodo; l'invito a non prendersi mai eccessivamente sul serio, a smascherare l'eccessiva supponenza con il riso comico, consapevoli che "stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus", la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi.

Il caffè della gioventù perduta, Patrick Modiano


 Ne Il caffè della gioventù perduta Patrick Modiano racconta da punti di vista diversi la vicenda di una giovane donna, Louki, della sua fuga dalla famiglia, del suo matrimonio e della sua sparizione. L'artificio adoperato dall'autore ha origine in un non luogo, il caffè Le Condé, presso cui ad un certo punto della sua vicenda la donna ha l'abitudine di trascorrere le sue giornate; qui vediamo Louki attraverso gli occhi di due astanti, un giovane studente ed uno scrittore, Roland, che ne diviene l'amante; a questi punti di vista si alternano quelli dell'investigatore privato assoldato dal marito per cercarla e che, avendo trovato sue notizie, decide di difendere la vita privata e il sentire della donna fingendo con il suo cliente l'impossibilità di svolgere il suo compito, e il punto di vista della donnna stessa, che attraverso dei flashbak ci introduce al suo passato, alle sue passioni, al  suo contatto con gli alcolici e la droga, fino al tragico finale.

Ma un'altra protagonista della vicenda, come al solito in Modiano, è  la ittà di Parigi, con la sua topografia precisissima, i suoi luoghi ormai scomparsi, e i suoi "Luoghi neutri", spazi di tutti e di nessuno, luoghi in cui far perdere le tracce, in cui esistere senza esistere, dei non-luoghi di eterno passaggio e di eterna fuga.

Come è un'eterna fuga quella di Louki, ma in fondo quella di tutti gli avventori  del Condé, ognuno immerso nelle velleità della propria vita, espresse nel chiacchiericcio del caffè letterario, dei colloqui fra scrittori, artisti, cantanti; tutti personaggi che però, in un eterno ritorno, spariranno nel nulla assieme al caffè, esprimendo l'unica certezza possibile, il ciclo della vita e della morte e del concludersi di ogni esperienza.

mercoledì 13 luglio 2022

Parlando di competenze: da Il nome della rosa al dibattito tra virologi durante la pandemia di Covid-19

 



Spesso nel dibattito pubblico sentiamo parlare di "competenti" e di "competenza"; quando, ogni anno, arrivano i risultati delle prove INVALSI, riparte sui media nostrani il ginepraio sulla perdita di competenze degli studenti, sulla scuola che non insegna, etc; ma anche in altro contesto si tira fuori il concetto di comeptenza, per esempio, chi è competente per parlare della pandemia? Chi per parlare della guerra in Ucraina? Forse quindi andrebbe meglio definito il concetto di competenza, allora, almeno agli occhi di chi, di questo concetto, ha un'idea tutto sommato vaga. 

La competenza è il saper adoperare in contesti concreti abilità possedute e affinate e conoscenze acquisite. Proprio per questo la competenza è "plastica", mutevole, ed esiste solo in contesto. In realtà è sempre stato così, anche prima che venisse sviluppato il concetto di competenza: agli albori della scrittura il sapiente non era tale solo perché sapeva scrivere, ma perché con quel sapere faceva concretamente cose dicibili o, altrettanto spesso, solo supposte, indicibili e temute; Aristotele è stato per secoli l'auctoritas non solo e non tanto per quello che sapeva, ma perché con quel sapere aveva sviluppato meglio e più di altri un sistema che pareva dare risposta ad ogni quesito possibile e, ugualmente, pareva dare ordine a ciò che al comune mortale pareva caos. Quindi la competenza è sempre in contesto: ciò che oggi può essere considerata dimostrazione di competenza potrà far ridere in futuro; la fisica aristotelica o il sistema tolemaico possono oggi fare sorridere fisici e astronomi, ma per secoli sono apparsi la migliore risposta possibile a quesiti concreti.

Un altro esempio plastico di cosa voglia dire competenza lo incontriamo nel romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco: il personaggio di Gugliemo da Baskerville è indubbiamente dottissimo, fine teologo, con la fortuna di essersi abbeverato nel sapere e nelle conversazioni con Francesco Bacone e Gugielmo di Occam, di cui, in fondo, riassume metodi e pensieri; però Guglielmo da Baskerville non è l'unico personaggio che può vantare simili conoscenze nel romanzo, anzi, almeno altri due personaggi possono vantare titoli pari ai suoi, Ubertino da Casale e Bernardo Gui. Tuttavia né Ubertino né Bernardo sono in grado di adoperare le proprie conoscenze per venire a capo della serie di omicidi e dei misteri che investono l'abazia dentro la quale si svolgono le vicende narrate nel romanzo. È vero che, per paradosso, Guglielmo arriva per caso alla soluzione del principale enigma del romanzo, trovare l'accesso del Finis Africae nella biblioteca dell'abazia, e l'episteomologia della complessità dovrebbe tenerci sull'all'erta nel pensare che il reale tenda all'ordine, ma proprio perché competente Guglielmo sa insierire una casualità in un sistema in cui saperi e abilità gli permettono di interpretare la realtà che lo circonda e gli consentono di trovare una soluzione ad  un problema concreto, la catena di omicidi e il mistero del libro misterioso nascosto nella biblioteca. Lì dove Ubertino non sa cosa cercare e Bernardo interpreta la realtà che lo circonda secondo uno schema consolidato ma non rispondente alla realtà del caso concreto, la censura del falso eretico, Guglielmo ragiona in maniera critica, sviluppa teorie, le prova, le scarta, ne sviluppa altre in maniera creativa, le sottopone a prova. Insomma, si mostra competente.

Venendo a tutt'altro caso, ovvero al dibattito sulla pandemia da Covid-19, un medico che prende posizione sulle misure da adottare per fronteggare la malattia non è competente perché ha studiato per anni, ma è competente perché sa usare in contesto quello che ha appreso in anni di studio. Detto questo, quando chiediamo ai "competenti" di esprimersi, per esempio, sulla pandemia, la prima cosa da fare, certo, è vedere a che titolo ne parlino; ma poi andrebbe fatto un ulteriore vaglio: quando hanno discusso di pandemia, questi competenti hanno centrato l'obiettivo o hanno preso svarioni? Perché nel secondo caso, forse, si sta confondendo tra conoscenza astratta e competenza. Esempi concreti: Zangrillo in tre anni ha più volte fornito interpretazioni e suggerimenti sui comportamenti da tenere durante la pandemia mostratisi poi decisamente sbagliati; qualcosa di simile è accaduto anche con Bassetti; al contrario Crisanti, pur non essendo di per sé un medico, ha adoperato il proprio sapere e le proprie abilità per fornire risposte concrete allo sviluppo della pandemia che si sono rivelate sostanzialmente corrette; lo stesso si può dire delle analisi che sono state realizzate da un fisico come Parisi o per i lavori di tanti statistici o ingegneri che meglio hanno saputo analizzare lo sviluppo del contagio o mezzi concreti per rallentarne la diffusione.  Zangrillo e Bassetti sicuramente hanno studiato tanto la propria materia, ed in altri contesti saranno sicuramenti più competenti di Crisanti e degli altri esempi citati, ma non è vantando titoli di studi che possono pretendere di essere considerati competenti: ad oggi non hanno mostrato di saper adoperare le proprie conoscenze per capire la pandemia, ergo, non sono competenti; ciò non vuol dire che non possano essere considerati competenti in futuro, ma questo dipenderà da come adopereranno i propri saperi e le proprie abilità, non dal numero di saperi e abilità che possono vantare di possedere come delle medaglie.

Uguale ragionamento si potrebbe intavolare per quanto riguarda il conflitto in Ucraina: ha titolo a parlare del conflitto come competente in primis chi conosce la questione, non conta tanto come abbia acquisito i saperi per parlarne, ma come poi adoperi quei saperi per analizzare gli avvenimenti in campo. 

Ricapitolando: la competenza è sempre in contesto, plastica, mutevole, non si misura in una semplice somma di saperi e abilità, ma è data dall'uso concreto di saperi formali e informali, assieme ad abilità individuali, per risolvere un problema concreto. La competenza non è data dai titoli, ma dipende dai saperi: è indubbio che più so più è probabile che io sia competente, ma questo non è un automatismo. Ne consegue anche altro: se è tutto sommato semplice misurare il possesso di conoscenze, dovrebbe essere altrettanto chiaro che valutare il possesso di competenze è molto molto più complesso, di certo non si può valutare la competenza attraverso batterie di test a risposta chiusa. Quindi, no, le INVALSI non misurano competenze, rassegnatevi.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....