giovedì 23 giugno 2022

La prima prova dell'Esame di Stato del 2022 è da bocciare?



Ormai svolta la prima prova dell'Esame di Stato 2022, non ci resta che giudicarne il valore. La prova prevedeva, per gli alunni del quinto anno delle scuole superioriori, la possibilità di scegliere fra sette tracce: le prime due sotto la forma di analisi e interpretazione di testi appartenenti alla tradizione letteraria italiana; tre tracce di analisi e produzione di testi argomentativi; due tracce di produzione di testi espositivi-argomentativi. Prima osservazione: è uscita di scena definitivamente la traccia atta a dimostrare le conoscenze storiche.

Le tracce 

Guardando le tracce, anche solo ad una prima occhiata, sono evidenti dei problemi.

Le prime due tracce, quelle di analisi del testo, riguardano opere e autori ottocenteschi, per quanto fondamentali, ovvero Pascoli e Verga. Qui occorre chiarire una questione: l'alunno dovrebbe essere in grado, in quinta superiore, di analizzare qualsiasi tipo di testo, dal menù del ristorante ad un saggio scientifico di media difficoltà, passando per testi letterari di qualsiasi epoca (in lingua italiana, ovviamente); però da anni ormai le raccomandazioni ministeriali pressano scuole ed insegnanti alla valorizzazione della letteratura del XX secolo, per cui non è infrequente che gli ultimi autori del XIX secolo siano trattati rapidamente all'inizio dell'anno, se non addirittura sul finale della quarta superiore, per lasciare più spazio possibile al secolo successivo. E qui casca il primo asino: da un lato diciamo agli studenti, in maniera più o meno formalizzata, di concentrarsi su una parte del programma, e poi, tutte e due le tracce inerenti l'analisi del testo, riguardano la parte che lo stesso ministero invita a trattare con minore approfondimento. Si aggiunga questo un altro problema: la traccia su Nedda di Verga mostra scarso aggiornamento critico da parte di chi ha formulato le domande guida per l'analisi (come sottolineato su Letteraturaenoi), sottintendendo che Nedda sia la prima opera verista di Verga, mentre la critica più recente (e tutti i libri di testo da almeno vent'anni) la considerano opera tardo romantica, mancante proprio degli aspetti che caratterizzano il Verismo.

Insomma, prime due tracce, bocciate.

Veniamo alle tracce di analisi e produzione di testi argomentativi.

Ennesimo, enorme problema: il brano riportato in traccia di Gherardo Colombo e Liliana Segre, per quanto toccante e significativo, non è un testo argomentativo (e qui casca l'ennesimo asino, la scarsa chiarezza su cosa il ministero intenda per testo argomentativo e la discrepanza rispetto a cosa linguisticamente e filosoficamente si intenda per testo argomentativo e argomentazione). Il brano riportato semmai è un testo espositivo, in cui emerge semmai una riflessione personale nell'ultima sezione, culminante nella metafora del gioco del bambino invisibile; ma confondere una riflessione personale con un testo argomentativo in senso stretto è un errore da principianti. Ne consegue che uno studente che analizza il testo, e che sa che avendo selezionato la tipologia B dovrebbe stare ad analizzare un testo argomentativo, è portato a cercare una tesi e delle argomentazioni che, semplicemente, lì non ci sono. A questo punto si immaginino le banalità e le stupidaggini che uno studente, già sotto pressione, può aver prodotto messo di fronte ad unna scelta del genere.

Traccia bocciata

Meglio, per fortuna, le altre due tracce sul testo argomentativo, ovvero quella che parte da un brano del musicologo Oliver Sacks e quella che parte da un discorso di Giorgio Parisi: è talmente evidente che in questo caso si tratti di testi argomentativi, che anche il lessico scelto nelle domande guida cambia, risultando molto più confacente alla tipologia testuale.

Infine veniamo alle tracce espositive-argoementative: la prima e la seconda traccia, quella tratta da un libro di Ferrajoli e quella trtta da un volume di Gheno e Mastroianni, risultano complessivamente attuali e confacenti alla tipologia testuale, tipologia però che rimane nell'alveo di un'ambiguità mai del tutto chiarita dalle linee guida ministeriali. Se il testo che gli studenti devono produrre è espositivo-argomentativo, ciò vuol dire che gli studenti devono essere in grado SIA di dire tutto quello che sanno sull'argomento in oggetto, SIA di formulare testi e argomentazioni sull'argomento, seguendo modalità e regole dell'argomentazione. Siamo sicuri che poi questo accada e venga valutato?

Veniamo al giudizio finale, e per farlo vediamo cosa gli studednti italiani hanno scelto.

Secondo ANSA uno studente su cinque (21,2%) ha preferito l'ultima traccia espositivo-argomentativa (Gheno - Mastroianni). Seguono con il 18% la prma traccia della tipologia B (Colombo - Segre), e con il 16,5% l'analisi del testo di Nedda. Ne consegue che quasi il 35% degli studenti italiani, in preda all'ansia e alla pressione, hanno scelto delle tracce tecnicamente scritte male o, peggio, sbagliate. A questi si aggiunga il 2,9% di studenti che ha provato ad analizzare il testo di Pascoli, per capire che quasi il 40% degli studenti italiani ha affrontato, e non per sua colpa, probabilmente male questa prima prova, perché portato dalle stesse tracce fornite dal ministero a scrivere cose scontate, banali o, semplicemente, sbagliate.

Certo, questi studenti avrebbero potuto provare le altre tracce, come fatto dal 60% degli studenti (Il 15,8% ha scelto il brano tratto da "Musicofilia" di Oliver Sacks, il 14% ha scelto la traccia tratta dal testo di Luigi Ferrajoli, il  restante 11,6% ha scelto quella sul discorso di Giorgio Parisi). Però, allora, che senso ha avuto fornire quelle possibilità, se da strumenti per provarsi in qualcosa di sensato hanno rischiato di divenire prova di insensatezza?.

mercoledì 22 giugno 2022

Una riflessione su "La notte della scuola" di Roberto Maragliano




Leggendo l'articolo La notte della scuola, pubblicato su Doppiozero, mi  sono venute in mente alcune riflessioni, frutto anche della condivisione e della discussione con alcuni colleghi.

Mi sembra che Maragliano parta da alcuni punti fondamentali: la scuola post covid e immersa nella guerra è costretta a prendere atto di alcune considerazioni che, a dire la verità, appartengono alla riflessione filosofica e culturale già da almeno un cinquantennio. È  da notare che questa consapevolezza, parallelamente, secondo Maragliano dovrebbe sempre di più appartenere anche all'opinione pubblica. Maragliano cita ad uopo le considerazioni di Esposito su EditorialeDomani: il filosofo sostiene che, con lo scoppio della guerra, siamo entrati in una nuova fase per l'Occidente (e del resto è stato facile per tutti osservare in questi mesi come le previsioni di Fukuyama sulla cosiddetta fine della storia siano miseramente cadute); facendo la parafrasi di quanto sostenuto da Esposito, ed aggiungendo delle considerazioni personali, potremmo dire che sono avvenuti diversi avvicendamenti nella percezione del fluire dei fatti e dell'azione dell'uomo: dall'ottimistica fine della storia di Fukuyama eravamo già entrati in un'età caratterizzata da una permanente percezione della crisi (se volessimo dare dei numeri, forse potremmo datare questa percezione a partire dal 2001): crisi intesa come continua messa in discussione dell'ordine e conseguente reazione, in un rapporto dialettico costante che dal superamento della crisi genera una nuova crisi, a cui segue una nuova reazione, etc.. Da un meccanismo del genere, per quanto ondivago, si conferma tutto sommato però una percezione lineare del divenire, quella che già apparteneva alla teorizzazione di Fukuyama, fatta ora di rallentamenti e accelerazioni attraverso però una linea del tempo che rimane retta, tesa comunque ad un potenzialmente infinito progresso. Da una forma di neopositivismo liberista fondato su tecnologia e mercato ad un neoidelismo hegeliano, ancora però fondato sull'idea che mercato e tecnologia possano fornire gli strumenti per superare le crisi.  Tuttavia per Esposito oggi saremmo entrati in una nuova fase, che alla crisi sostituisce la percezione diffusa della catastrofe, ovvero di una situazione di messa in discussione dello status quo che, in linea di massima, non può che portare ad un esito infausto. È vero, come dice Esposito, che anche la parola catastrofe ha, etimologicamente, un significato non esclusivamente negativo: catastrofe in greco può significare il totale rovesciamento della situazione di partenza, ovvero l'espressione di un bisogno di radicale messa in discussione dello status quo. Catastrofe quindi non solo come epilogo tragico, ma come fase germinale per un nuovo inizio. 

Cosa c'entra tutto ciò con la scuola? Per Maragliano, e anche per me, c'entra. Quello che sta accadendo ha o dovrebbe avere una ripercussione sull'istruzione, nel metodo, ma anche nel merito: infatti per larga parte il sistema scolastico è rimasto ancorato ad una visione dell'apprendimento e delle discipline ottocentenschi o primo novecenteschi. Cosa vuol dire questo? Due cose, fondamentalmente: l'insegnante come colui che sa, l'apprendimento come pratica trasmissiva di infusione del sapere.

Cerchiamo di essere obiettivi: cambiamenti ce ne sono stati, soprattutto per quanto riguarda la seconda parte dell'asserzione precedente. Già da decenni la pedagogia cerca di mettere in discussione l'esculisività del modello trasmissivo nell'istruzione, proponendo pratiche esperenziali (si pensi alle scuole montessoriane) e laboratoriali, coinvolgendo le migliori conoscenze provenienti dalle neuroscienze per una conoscenza sempre più approfondita degli stili di apprendimento, delle pratiche e metodologie che possano facilitare l'acquisizione del sapere del discente.

Dove però si è rimasti incredibilmente indietro è sulla prima considerazione, quella sull'insegnante e sul suo status. L'insegnante è colui che sa, che conosce la propria disciplina, spesso assurge addirittura a figura di tuttologo. Basta sapere per insegnare, quante volte è stata espressa questa considerazione dagli insegnanti stessi dalla classe dirigente che ruota attorno e parla  di scuola? Ne conseguono rivendicazioni sullo status sociale, ormai decaduto, salariali, e di postura in aula. Potremmo dire che per molti colleghi il rifiuto delle pratiche laboratoriali in aula dipende da questa visione del proprio essere insegnante: io so, e gli alunni devono semplicemente assorbire il mio sapere, ascoltarmi, imitarmi, non c'è bisongo di altro.

In pratica, la seconda parte della asserzione di cui sopra dipende dalla prima.

Il problema è che l'età della catastrofe rimette in discussione questo statuto dell'insegnante. Dico rimette, perché che qualcuno sapesse, l'insegnante nello specifico, era una verità che già la cultura della seconda metà del Ventesimo secolo aveva messo in discussione. Secondo Maragliano il digitale ha costretto (sarebbe meglio dire, vorremmo che avesse costretto) gli insegnanti a mettere in discussione il paradigma che la conoscenza sia immutabile e acquisibile una volta per tutte. La Didattica a Distanza e l'obbligo ad adoperare strumenti digitali e, soprattutto, la rete internet hanno costretto gli insegnanti a svelare l'arcanum, ovvero che la conoscenza, in qualsiasi ambito o disciplina, è parziale, temporanea, convenzionale, sociale e sempre disponibile ad essere messa in discussione. L'insegnante quindi è colui che sa di non sapere. Dopo tutto questo giro di due millenni e mezzo, alla fine, torniamo a Socrate. Per Maragliano, come dicevo, questa scoperta sarebbe il frutto dell'introduzione del digitale nella scuola; per come la vedo io, il digitale ha fatto riscoprire qualcosa che il postmoderno come movimento culturale aveva già evidenziato: la conoscenza come costruzione labirintica, il sapere come rete senza un centro o un baricentro, la negazione della possibilità stessa di una verità che non sia frutto di convenzione e di interpretazione, l'impossibilità di conoscere i fatti in sé, ma la loro conoscenza solo come sistema di relazioni.

Mi pare quindi che Maragliano attribuisca alla tecnologia un merito che è, forse, più strutturato: la tecnologia, la rete internet (che infatti nasce nell'ambito delle teorie e viene immaginata a partire dagli spunti letterari del postmodernismo e del genere cyberpunk in particolare) hanno reso all'opinione pubblica quanto detto e scrittto dagli anni '60 dello scorso secolo: cose che già avevano dato propri frutti nella scuola (si pensi al movimento sessantottino), ma che l'ottimismo della "fine della storia" e del trionfo del liberalismo sembravano aver fatto dimenticare, salvo poi rimergere, come un movimento carsico a causa dell'improvvisa percezione della catastrofe.

Oggi come in passato sono osservabili resistenze, inviti al realismo, tentativi di ritorno all'ordine. Ma, come dice Esposito, la catastrofe richiede un rovesciamento del tavolo, se non vogliamo che prevalga la prima e più diffusa accezione del termine, quella dell'esito tragico.

L'assessora Donazzan

credit: elenadonazzan.it


L'assessora Donazzan è quella della settimana dello sport, che, come lei stessa ha dichiarato, serve a sospendere la didattica nelle scuole per fare un favore agli albergatori delle Dolomiti invogliando le famiglie a sfruttare quei giorni per la classica settimana bianca;

l'assessora Donazzan è quella dei libri della casa editrice di CasaPound distribuiti nelle scuole;

l'assessora Donazzan è quella delle ricostruzioni astoriche sulle foibe imposte alle scuole del Veneto per circolare;

l'assessora Donazzan è quella che si vanta del suo passato e presente fascista;

l'assessora Donazzan è quella della battaglia per lingua veneta come lingua di una minoranza da proteggere, resa obbligatoria come seconda lingua per chi lavora nel settore pubblico nel Veneto, in modo di impedire l'afflusso di insegnanti e funzionari da altre regioni d'Italia;

l'assessora Donazzan è quella che legittima e legalizza bullismo e transfobia nei confronti dei suoi docenti e degli studenti appartenenti, loro sì, a minoranze.

Per tutto ciò, cosa vi stupisce nell'atteggiamento e nelle parole che l'assessora Donazzan ha usato, usa e suerà in merito alla morte di Cloe Bianco?

martedì 7 giugno 2022

La profezia dell'armadillo, Zerocalcare


 Si chiama "profezia dell'armadillo" qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei secoli dei secoli. Amen.»

(La profezia dell'armadillo)

La profezia dell'armadillo è un libro a fumetti del fumettista Zerocalcare pubblicato in prima edizione nel 2011. L'opera in bianco e nero rievoca un lutto molto significativo per l'autore, la morte dell'amica e amore adolescenziale Camille: attraverso continue prolessi e analessi viaggiamo attraverso il tempo, rievocando l'epoca in cui Zero e Camille si sono frequentati senza che mai il loro amore possa sbocciare davvero, fino ad arrivare al presente, alla notizia della morte della ragazza e alle delusioni della vita adulta del ragazzo. Accanto al protagonista ruotano altri personaggi, anche loro in bilico tra l'adolescenza e la maturità, Secco, Greta, e poi gli animali antropomorfi e simbolici del bestiario di Zerocalcalre, la mamma chioccia, la coscienza che assume la forma dell'armadillo, etc.

Proprio l'armadillo accompagna le riflessioni e le decisioni di Zero, il continuo rinviare, la convinzione che il prendere tempo sia la strategia vincente per evitare sicuri fallimenti o le batoste che la vita ha in serbo, fino alla scoperta che proprio il prendere tempo è la causa dello svanire dell'unica possibilità di felicità con Camille.

Quella di Zerocalcare, fatta attraverso microstorie di poche pagine, è una disillusa analisi della vita di un giovane della piccola borghesia di provincia (perché abitare a Rebibbia è, per Zerocalcare, l'equivalente dell'abitare in un piccolo centro lontano dal cuore di Roma), a ridosso del passaggio al Ventunesimo secolo: disillusione, precariato, inflazione culturale, le speranze dovute alla globalizzazione e alla rete internet, la sotterranea e silenziosa paura del futuro che balena (e che si esprimerà con chiarezza anni dopo). E intorno Roma e la romanità, i suoi centri sociali, i suoi luoghi di ritrovo e i suoi modi di dire e pensare.

L'opera è una lettura consigliata per chi voglia conoscere moderni schemi narrativi che vadano oltre la classica letteratura, affacciandosi sulla letteratura a fumetti, che nelle sue pagine più alte non ha nulla da invidiare alla letteratura tradizionale. 

giovedì 2 giugno 2022

Musk è un imprenditore del XIX secolo

 Elon Musk: da alcuni venerato, da altri temuto. Più probabilmente frainteso.

L'ultima uscita di Musk contro lo smartworking è solo l'ennesima conferma rispetto a quanto serpeggia nella mente di molti.

“Chiunque desideri lavorare da remoto, deve essere in ufficio per un minimo (e intendo *minimo*) di 40 ore a settimana o lasciare Tesla”,"




Infatti negli ultimi anni Musk se ne è uscito sempre più frequentemente con posizioni che ne hanno radicalmente mutato il profilo pubblico. Se per anni Musk è apparso quale l'innovatore tecnico che realmente è, a questa immagine è stata, probabilmente a sproposito, associata l'idea del Musk progressista. La realtà dei fatti pare invece dire altro.

È infatti di pochi giorni fa l'attacco alla celebrazione del mese dell'orgoglio LGBTQ


che segue l'attacco a Netflix per i suoi contenuti, giudicati eccessivamente di sinistra (con un termine che nel vocabolario dell'estrema destra americana risulta particolarlmente spregiativo, "woke"). Del resto è nota l'avversione di Musk per la cultura liberale e inclusiva, nonché per la pratica di un uso politicamente corretto della lingua.

Che Elon Musk abbia un'alta opinione di sé è cosa ovvia: basti pensare a come dispensa consigli a governi e a popolazioni intere, come la raccomandazione data agli italiani a fare più figli, la sua pretesa di risolvere il problema dell'inquinamento o di essere l'unico ad aver capito come vada difesa la libertà d'opinione. Il problema è che ad ogni posizione espressa da Musk corrisponde la difesa di un privilegio.

Per esempio, la giusta ambizione a sostituire i mezzi di trasporto a combustibili fossili con sistemi a motore elettrico, si accompagna alla pretesa necessità di eliminare il trasporto pubblico: bus, metropolitane, tram, sono dei pesi, dei fardelli per Musk, ed il motivo è evidente: limitano le vendite delle sue auto e quindi la possibilità di fare businness. 

La libertà di parola che Musk difende è la libertà di parola di chi si vede oggi contestati i privilegi e non tiene minimamente in conto di chi correrebbe più rischi dall'azione dell'imprenditore, ovvero le comunità intrinsecamente deboli e scarsamente difese. Non per niente l'acquisizione di Twitter da parte di Musk riceve il plauso di Donald Trump e dei gruppi di destra o estrema destra americani, mentre è temuta dai gruppi più marginalizzati e, se privi di difesa, privi anche di una voce pubblica, come le minoranze etniche, religiose, politiche o di orientamento sessuale. La libertà di parola che Musk difende è la libertà del forte di sbraitare contro il debole. Tra l'altro, dando in mano all'uomo più ricco al mondo, e a chi lo sostiene politicamente, i dati e la privacy di una platea di utenti enorme.

Ma che Musk abbia negli ultimi anni sempre più avvicinato le proprie posizioni a quelle del partito repubblicano a guida Trump è evidente osservando i comportamenti tenuti da Testla e dal suo ceo nel bel mezzo dell'epidemia da Covid19. Musk, critico nei confronti delle politiche messe in atto per contrastare la diffusione della pandemia, ha ricalcato sulla questione le peggiori fake news diffuse da Donald Trump e dal partito repubblicano; l'imprenditore ha apertamente contestato e violato le restrizioni all'apertura delle fabbriche di beni non essenziali o limitatamente essenziali, minacciando prima, e realizzandolo poi, lo spostamento della sede dell'unica fabbrica americana di Tesla dalla California (stato a guida democratica) verso il Texas (stato a guida repubblicana), in barba alla crescente all'epoca preoccupazione per il diffuso contagio. Ma che per Musk la produzione venga prima delle condizioni di sicurezza dei propri dipendenti risulta evidente dalla violazione del lockdown imposto dalla Cina a Shangai per l'insorgenza di nuovi focolai di Covid: in questo caso Musk ha sostanzialmente costretto i propri dipendenti a risiedere in fabbrica pur di non sospendere le attività produttive.

Questa visione della politica di Musk si traduce, nell'ultimo anno, in una serie di tweet molto controversi.  Ad aprile l'uomo più ricco del mondo ha aperto le danze con un meme decisamente contestabile che, secondo lui, dovrebbe spiegare lo spostamento a sinistra del partito democratico.


Tuttavia, come notato da molti osservatori, quanto sostiene da Musk (e immeditamante ripreso da tanti suoi adoratori, ad esempio in Italia Matteo Renzi) è semplicemente scorretto nel metodo e nel merito.

Anche al netto dell’iperbole ricercata per ottenere l’effetto comico, la vignetta condivisa da Musk è «semplicemente sbagliata» nella sua comprensione di come gli Stati Uniti siano cambiati negli ultimi anni, ha scritto il giornalista Philip Bump sul Washington Post. Se si tiene conto di alcuni indicatori che prendono in considerazione gli orientamenti delle persone scelte durante le riunioni dei dirigenti dei partiti (i caucus) e poi elette al Congresso, ha scritto Bump, la realtà è abbastanza chiaramente l’opposto di quanto presentato nella vignetta di Musk. I maggiori cambiamenti hanno interessato il Senato, dove dall’inizio del 2009 sono stati eletti tra i Repubblicani senatori mediamente più conservatori, più di quanto dalla parte opposta fossero progressisti i senatori Democratici.

A questo tweet è poi seguito la dichiarazione di voto di Musk (nel bel mezzo della comrpaventita di Twitter).


 Torniamo però al punto di partenza del post: Musk contro lo smartworking. Nel suo attacco al lavoro da remoto Musk intraprende una via decisamente diversa rispetto ad altre grandi compagnie americane, giustificando la scelta con la premessa - più un postulato non dimostrato che una verità - che solo Tesla fra le grandi aziende stia producendo reale innovazione, e che l'innovazione non si realizza con "sole" 40 ore di lavoro a settimana. Ora, che tutto questo sia un discorso fortemente ideologizzato, non necessità neanche di dimostrazione. Ma c'è un di più: sostanzialmente Musk fonda il suo attacco allo smartworking sull'idea che questa pratica induca a battere la fiacca. Eppure negli ultimi due anni la crescita di Tesla, sia nella produzione che nel valore, è stata enorme. Una crescita impossibile se davvero, come si sostiene, in azienda si fosse battuta la fiacca. Forse occorrerebbe strappare il velo retorico che, come abbiamo osservato, spesso copre le azioni dell'imprenditore: a Elon Musk semplicemente non piacciono i diritti dei lavoratori (e i diritti delle minoranze in genere). Se i suoi manager, i  suoi creativi non avessero lavorato in smartworking, come si sostiene, Tesla non sarebbe diventata leader mondiale nel settore proprio nel periodo in cui più si è diffusa la pratica. Certo, i bene informati in realtà sostengono che l'avviso riguardi più i manager e i dirigenti di Twitter, quelli più contrari all'acquisizione, proprio perché Twitter aveva concesso al 100% lo smartworking: si tratterebbe quindi di un vero e proprio repulisti nell'azienda che più ha contestato il modello di libertà d'espressione e di businness di Musk (e che per questo lui acquisisce). Che il lavoratore in smartworking stia su YouTube anziché lavorare è un pregiudizio, che o viene provato o è diffamatorio.  Se Musk ha le prove che i suoi manager lo hanno "preso in giro", li deve licenziare, perché semplicemente il patto fiduciario non c'è più; se invece la produttività di Tesla non è calata, o addirittura è aumentata con lo smartworking, la sua richiesta dimostra che il patto fiduciario non c'è mai stato, che lui sta tracciando una linea netta tra il padrone e i dipendenti, tra chi decide e chi subisce le decisioni. Entrambe le strade comunque mostrano che quella del legame affettivo-fiduciario con l'azienda è più una forma di retorica aziendale che una realtà. Musk in realtà qui mescola il legittimo desiderio del datore di lavoro di creare profitto con le manie di controllo. Peggio, lo fa giocando su un non meglio spiegato senso di appartenenza (il patto fiduciario e sentimentale che, come dimostrato, in realtà serve a nascondere un patto fondato su termini contrattuali che o sono o non sono) che il lavoratore dovrebbe provare verso l'azienda. Sul senso di appartenenza, addirittura sulla gratitudine (gratitudine per cosa? Il lavoro non è grazia ricevuta, è un reciproco scambio di prestazioni e mezzi di lavoro: qui siamo ad una concezione seicentesca e preindustriale dei rapporti lavorativi) etc: queste sono strategie che hanno un solo obiettivo, legittimare retoricamente e in maniera emotiva le richieste del datore di lavoro (tipo il senso di appartenenza verso l'azienda e la gratitudine verso il megadirettore generale di Fantozzi), perché o al senso di appartenenza corrisponde una messa in comune degli utili e dei mezzi di produzione, o dal miglioramento delle prestazioni aziendali il datore di lavoro guadagna i profitti e il lavoratore guadagna pacche sulle spalle. Quando infatti si stabilisce un rapporto di lavoro il datore di lavoro patteggia una prestazione da una persona in base a competenze dichiarate e/o possedute. Anche perché, altrimenti, il discorso meritocratico tanto caro al liberismo verrebbe meno. L'appartenenza, il sentimento, queste sono strategie retoriche che non c'entrano davvero con quello che accade. (Questo non esclude che io possa o meno avere fiduca o stima per il mio datore di lavoro, così come possa disprezzarlo: il punto è che io lavoro per un datore di lavoro che mi mette in condizione di lavorare bene e guadagnare il dovuto, e il datore di lavoro dovrebbe giudicare il mio lavoro a prescindere da pregiudizzi). Certo è che l'imprenditore nel fare impresa rischia il proprio capitale, ma nel medesimo rappporto di lavoro il dipendente rischia la sua fonte di reddito, spesso l'unica in una famiglia, comunque rischia la fame.

La visione ch Musk ha del mondo è una visione elitista, come quando sostiene che università e scuole non servano e che basti cercare informazioni in rete, senza considerare la funzione sociale della scuola. Occorre essere chiari quando si parla dell'uomo più ricco al mondo come uno dei fari del progresso del pianeta: dalla vicinanza alle posizioni transumaniste, passando per la feroce critica dei diritti dei lavoratori e delle minoranze, Musk rappresenta un deciso passo indietro nel mondo dell'imprenditoria, ricordando piuttosto uno di quei ricchi imprenditori della fine del XIX secolo, appartenenti alle ricchissime famiglie che si spartivano l'attività industriale nell'Occidente e nelle colonie. Un uomo che confonde progresso e carità, elemosina con assistenza sociale, per il quale l'attività produttiva viene sempre e comunque prima dei suoi lavoratori, e per cui la critica alla propria visione del mondo è un pericolo all'unica libertà d'opinione e parola che gli interessi, la  sua.



The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....