venerdì 21 maggio 2021

Della superficialità

Leggendo vari commiati per la morte di Battiato mi è venuta in mente una cosa: forse pochi hanno compreso questo cantautore? O meglio, quanto una parte dell'opera di Battiato è stata fraintesa?
Prima però una premessa: io non amo Battiato e la sua musica. Non è proprio vero: non amo la ricezione della musica di Battiato; e odio la sua voce, ecco, l'ho detta; ma forse odio la seconda perché la associo alla prima.
A dirla tutta non sono neanche un profondo conoscitore delle sue opere, conosco quelle più famose, quelle per cui mi sono fatto l'idea che l'appellativo più sbagliato per Battiato fosse quello di maestro.
Io Battiato invece lo associo ai Righeira, agli anni Ottanta, allo sperimentalismo pop e ad un'idea tutta postmoderna di arte (opposta alla vulgata su Battiato, quella del maestro profondo e spirituale); in Battiato non sento l'arte che cerca la profondità, ma l'arte che si fa portavoce della labirintica estensione della superficie. 
Battiato, come i Righeira (e qui la smetto di paragonarli, promesso), non cerca affatto di scavare nelle profondità di tematiche sociali o psicologiche (o lo fa meno frequentemente di quanto sembri), perché quella è la musica autoriale degli anni Settanta, degli anni di piombo, dell'esistenzialismo, semmai vola su diversi temi, argomenti, su diverse emozioni ed esperienze, anche del tutto slegati tra di loro, e con il solo posarsi del suo strumento di comunicazione, la sua musica, la sua arte, ne mostra i legami tanto ignoti, quanto di impossibile interpretazione. Battiato non crea simboli, crea reti di immagini il cui unico legame sta nell'essere associate attraverso la musica.
La musica di Battiato quindi a me è sempre apparsa superficiale, ma non in un senso deteriore, semmai come l'immaginifica mappa ordinata da Kublai Khan ne Le città invisibili: nel senso che scientemente le canzoni del cantautore di Milo non vogliono dire nulla, o vogliono dire meno di quel che appare. In un certo senso, spesso in Battiato (e nella grande arte postmoderna) l'unica cosa da dire è il non aver nulla da dire.
Diceva Montale in Non chiederci la parola che l'unica cosa che hanno da dire i poeti moderni è "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Se questa consapevolezza era dolorosa per Montale, diventa naturale per gli artisti del dopoguerra; anzi, il non avere risposte positive diviene il messaggio: passata la generazione degli intellettuali che avevano costruito con le loro ideologie l'Europa che aveva cercato di autodistruggersi con le due guerre mondiali, era un bene che gli artisti smettessero di aspirare ad essere vati, che riconoscessero il non avere un messaggio.
La migliore arte postmoderna è scientemente superficiale, definisce la superficialità come un valore antidogmatico e capace di disarmare le ideologie.
La superficialità è persino liberatoria: l'artista che non deve più concentrarsi sul messaggio può decidere di approfondire e sperimentare giocando con il canale (e guardiamo qui alle sperimentazioni strumentali di Battiato) e con il codice (il citazionismo da diversi autori e opere, passando dalla grande letteratura ai modi di dire popolari, attraverso la cultura pop, attingendo infine alla musica e all'arte internazionale). Tutto si tiene perché trattenuto dalla messa in musica, come se si trattasse di un'enorme esplorazione musicale della superficie del mondo (ed ecco che appaiono gli influssi e gli strumenti provenienti dalle diverse parti del pianeta); il viaggio di Battiato non è mai un viaggio verso il centro della terra, ma sempre il giro del mondo in ottanta giorni.
Per queste ragioni chi oggi piange il maestro, lamenta la scomparsa dell'uomo che aveva raggiunto vette di profondità e spiritualismo, mi pare che o non abbia capito o abbia deciso di fraintendere l'opera del cantautore siciliano che, se potesse commentare tutto questo, probabilmente lo farebbe con sarcastica risata.
E poi si metterebbe a ballare, cercando o fingendo di cercare quel centro di gravità permanente che gli potesse dare  una risposta certa e inamovibile ai grandi questi della sua epoca. Risposta che, più nei lamenti si attribuisce a Battiato, meno, con ogni probabilità, lui possedette.

mercoledì 19 maggio 2021

La pista di ghiaccio, Roberto Bolaño


La pista di ghiaccio di Roberto Bolaño racconta la storia di un omicidio attraverso i punti di vista di tre diversi personaggi: il cileno Remo Moràn, proprietario di un bar, di diversi hotel, di un negozio di bigiotteria e di un camping in Spagna, nella città di Z; Gaspar Heredia, poeta, clandestino messicano, amico di Moràn e a cui Moràn ha trovato lavoro presso il camping come custode notturno; il funzionario spagnolo Enric Rosquelles, direttore dei servizi sociali di Z, collaboratore fidato della sindaca, la socialista Pilar.

Motore della vicenda è un altro personaggio femminile, la pattinatrice olimpionica Nuria, di cui sia Moràn che Rosquelles si innamorano; Nuria rimane fuori dalla squadra di pattinaggio nazionale, ufficialmente per la sua età: Rosquelles, arriva a realizzare in segreto per lei una pistta di pattinaggio presso una villa dismessa nei dintorni di Z. È attorno alla villa che ruoterà la vicenda, intrecciando le storie dei tre protagonisti e quelle di due mendicanti, una delle quali, Caridad, sarà amata da Heredia.

Nello stile di Bolaño, La pista di ghiaccio è un romanzo in cui le vicende di una sola estate vedono nascere, crescere e sfiorire l'amore, il desiderio, la speranza di una vita felice, proprio come la stagione che, passando, porta via con sé le attività delle aziende balneari e del camping di Moràn.

Tutti e tre i personaggi alla fine del romanzo saranno uomini nuovi e allo stesso tempo uomini che avranno perso qualcosa della loro vita precedente: l'illusione che li avrà nutriti durante quell'estate, la sensazione di onnipotenza, la speranza di una famiglia.

Un romanzo duro, crudo senza essere violento; passionale senza essere volgare. Un bel romanzo.

lunedì 17 maggio 2021

Ancora su Propaganda Live


L'ultima su Propaganda Live e la questione di genere: ho trovato alcuni interventi fra i più critici francamente immeritati, o meglio, eccessivi: nel senso che partendo da una giusta rivendicazione hanno accusato Propaganda di altro, senza riconoscerle alcun merito (sorry, ma ogni riferimento a Lipperini e alla sua critica sulla "postura" degli autori è puramente voluto).

Detto questo, come alcuni mi hanno fatto garbatamente notare con argomentazioni ed esempi, mi pare vero, con il senno di poi e senza la foga della polemica ai suoi inizi, che nella trasmissione (e più in generale nella televisione italiana) la questione di genere si ponga: continuo a pensare che la questione di genere non si risolva con il pallottoliere, ma è pur vero che se non si parte dal pallottoliere non si parte proprio a discutere della rappresentanza in TV.

Inoltre, è pur vero che qualcuno degli autori del programma ha a più riprese dato mostra di malcelato sessismo: capita, non deve capitare ma capita, soprattutto se sei cresciuto in quella cultura lì.

Propaganda cambierà? Secondo me non subito, sarebbe un'ammissione di colpa. Si prenderanno il tempo per far dimenticare il polverone e metabolizzare le critiche. Ma Bianchi e soci mi sembrano persone intelligenti e, nei limiti dell'umano, disponibili ad accettare le critiche una volta che le si è metabolizzate.

sabato 15 maggio 2021

Due parole su Propaganda live, o dell'arte, a sinistra, di farsi del male da soli


Questa settimana il programma TV Propaganda live, normalmente noto per essere luogo di commento dichiaratamente di sinistra dei fatti della settimana, è diventato esso stesso notizia. Anzzi due. La prima, il caso del musicista Roberto Angelini, parte del cast del programma, che, giudicato colpevole di aver fatto lavorare in nero una donna nel suo ristorante come rider, dovrà pagare 15.000 di multa. L'altra notizia è il clamoroso diniego della giornalista Rula Jebreal alla partecipazione programmata al programma, accusato di avere un parterre composto da soli uomini e quindi di discriminazione di genere.

Terrei separate le due cose: Angelini ha sbagliato, non c'è dubbio, ed è ancora peggiorr aver cercato di fare passare la vittima per carnefice sui sociali accusandola di "pazzia" e ingratitudine. Detto questo, scusate, ma se Angelini altrove commette un illecito, è colpa o responsabilità delli staff di Propaganda? Che c'entra accusare gli autori di una cosa fatta da qualcuno che è sul libro paga come musicista e che ha commesso un illecito nella sua vita privata? Si vuole forse dire che gli autori del programma "non potevano non sapere"? Allora lo si dica apertamente e si denunci.

Su Rula Jebreal (e in generale sull'accusa, mossa anche da Loredana Lipperini sui social al programma di essere autoreferenziale, compiaciuto e, in soldoni, futile): mi sembra l'ennesima riproposizione a sinistra della gara a chi è più puro: Propaganda Live sarà ripetitivo, autoreferenziale, però è un programma che ha dato e dà spazio a voci, si guardino i reportage sulla Libia e sul lavoro dei braccianti agricoli nel meridione, che altrove non avrebbero spazio, e per di più lo fa su una rete commerciale. Lo fa avendo come parterre fisso (nei limiti dei loro impegni) due giornalisti donne e due uomini, e che invita a commentare i fatti della settimana personaggi della varia fauna della sinistra italiana. È fazioso, certo, e a differenza di altri programmi lo è dichiaratamente e apertamente, senza fingere di voler essere obiettivo e sopra le parti. Rula Jebreal ha voluto fare la pura più pura dei puri, ci sta, ma in un contesto normalmente aperto alle sue rivendicazioni, mancando l'occasione di parlare della questione per cui era stata invitata, in un momento in cui sarebbe stato importante farlo, lasciando a commentare i fatti una persona non altrettanto preparata, per poi rimproverargli pure di non essere competente come lei. Insomma, avrà pure marcato la differenza da una trasmissione che avrebbe forse dovuto cercare più accuratamente gli ospiti, ma ha anche marcato la differenza dagli spettatori e dai commentatori a cui interessava sapere cosa aveva da dire lei sugli scontri in Palestina.

sabato 8 maggio 2021

The West Wing, Aaron Sorkin


Fra i pregi della piattaforna on demand Prime Video c'è quello di proporre al grande pubblico italiano serie tv che inspiegabilmente sono passate in sordina tra i nostri canali televisivi. Una di queste è la stupenda serie diretta da Aaron Sorkin The West Wing.

Occorre subito precisare che in realtà Sorkin ha diretto e sceneggiato la serie fino alla quarta stagione, e che quindi le ultime tre stagioni sono passate sotto la direzione di ben altre mani.

Si tratta di una serie corale: protagonista è lo staff del presidente degli Stati Uniti Josiah Bartlet, ovviamente inventato, del partito democratico. Il presidente, premio nobel per l'economia e laureato anche in teologia,  guida il paese con un largo consenso, pur avendo il congresso contro perché a maggioranza repubblicana.

Tra lo staff del presidente emergono le figure di Josh Lyman, Leo McGarry, Toby Ziegler, C.J. Cregg, Sam Seaborn, ciascuno portatore di una certa visione dell'America, pur essendo tutti di indiscussa fede democratica. Ugualmente nello staff del presidente entrano anche uomini appartenenti al partito repubblicano, chiamati a servire la propria nazione in momenti di difficoltà o per la realizzazione di politiche bipartisan.

La storia si dipana attraverso i due mandati del presidente, fino alla designazione tramite primarie del suo delfino, Matthew Santos, figura evidentemente ispirata da Barack Obama, e alla sua successiva vittoria.

The West Wing rappresenta la politica non com'è, ma come dovrebbe essere. In questo la serie è decisamente diversa rispetto ad altri e più recenti political drama, come The House Of Cards e Brogen. Nel momento in cui la serie andava in onda negli USA, in realtà il paese veniva fuori dalla caduta rovinosa della gestione Clinton e finiva in mano a Bush Jr. Quindi il presidente Bartlet rappresentava, agli occhi di molti spettatori, quello che i democratici avrebbero dovuto essere e fare, e non erano stati in grado, ma anche un modello di politica accettabile anche da chi, come i repubblicani, erano di fede politica avversa: Bartlet infatti è un presidente che più volte si dimostra degno, preparato, competente, e che ad un certo punto, vista la propria vita privata sconvolta da vicende di terrorismo internazionale, avvalendosi delle prerogative costituzionali affidando temporaneamente il potere al presidente della Cameria dei rappresentanti, membro del partito repubblicano.

Come si diceva, The West Wing rappresenta la politica come dovrebbe essere, ed è in effetti il più "politico" fra i political drama. Non che manchino gli scandali o che la storia non sviluppi anche le vite personali dei personaggi: ma anche quando si scandaglia l'intimo dello staff presidenziale, o anche della vita del presidente, ugualmente gli sceneggiatori usano tali circostanze per discutere di politica, di policy, di bene comune, di idee, di economia, di migrazioni, di guerra e pace nel mondo, di cambiamento climatico.

The West Wing è quindi una serie dannatamente parlata: l'azione è, di fatto, pochissima. Per rendere più dinamica la narrazione quindi Sorkin e il suo staff inventano la tecnica del "walk and talk", per cui, a detta di molti esatta riproduzione della frenesia della Casa Bianca, i personaggi non hanno quasi mai modo di sedersi a discutere prendendosi il tempo di un filosofo: le discussioni dello staff avvengono in piedi, camminando tra un corridoio e l'altro, incrociandosi nella sala ovale, tampinando rappresentanti e senatori al congresso; i protagonisti di The West Wing, pur essendo le più brillanti menti del paesse, sono uomini chiamati a decidere rapidamente a qualsiasi ora. E chiamati a sbagliare, a prendere decisioni anche moralmente controverse, e ad assumersene la resposnabilità di fronte all'opinione pubblica.

Dalla quinta stagione si nota l'assenza di Aaron Sorkin alla direzione: di fatti è proprio questa stagione a mostrare il maggior calo qualitativo. Tuttavia, la decisione di accelerare lo svolgimento degli eventi del secondo mandato presidenziale per affrontare la fine della legilsatura e la ricerca di un nuovo volto per i democratici, permette di mettere in campo anche il dibattito e il confronto con un candidato repubblicano credibile e fuori dagli stereotipi. Più in generale, la serie, pur esprimendo la visione dei democratici, non tratta il partito repubblicano in maniera stereotipata e parodistica, ma ne affronta le ragioni, anche mettendo in luce quando le policies di questo partito, più pragmatiche, risultano nei fatti meglio funzionanti delle utopie democratiche.

Insomma, The West Wing è una serie consigliatissima, pluripremiata (giustamente) e cavallo di battaglia di uno sceneggiatore che di opera in opera mostra la sua bravura al grande pubblico.

domenica 2 maggio 2021

E ci tocca di nuovo parlare di politcamente corretto

Il problema del monologo di Pio e Amedeo, due comici a me del tutto ignoti, discorso tenuto in prima serata su Canale5, e il politicamente corretto: ecco, dicevo, il problema non sta nel fatto che Pio e Amedeo rischiassero o no la censura per quel loro discorso, o la meritassero. No, non la rischiavano la censura né la meritavano; il problema di quel discorso sta nel fatto che i due comici hanno proprio torto nel merito. Tanto per capirci, in quel monologo gli autori si fondano sul detto "sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu", che, da un punto di vista comuncativo, è una cretinata, perché chiunque si occupa di comunicazione sa e gioca sul fatto che fra mittente e destinatario non è mai possibile la piena comunanza tra significante e significato, e proprio per questo occorre essere particolarmente precisi nell'uso della lingua, a meno che, ovviamente, non si voglia essere volutamente ambigui.

Il discorso di Pio e Amedeo è quindi proprio tecnicamente sbagliato. Spiego ulteriormente il perché. Loro sostengono che si dovrebbe guardare l'intenzione della comunicazione, ma non la forma. Però:

A) quando comunichiamo lo facciamo sia intenzionalmente che non intenzionalmente; quando io parlo con un passante sto comunicando con le parole che ho scelto di pronunciare, ma comunico anche con il linguaggio del corpo non intenzionale, comunico anche messaggi involontari che non controllo (parlo veloce perché sono in uno stato d'ansia/lentamente perché sono calmo/perdo il filo del discorso o scambio le parole perché sono distratto/stizzito e in maniera aggressiva perché in fondo disprezzo il mio interlocutore) ma tutto ciò che non è intenzionale e manifesto, non è scontato che il mio interlocutore sia in grado di capirlo (perché magari mi conosce poco, non mi conosce affatto, non sa che cosa stavo facendo in quel momento, non sa che giornata ho passato, semplicemente è immerso nei fattacci suoi...);

B) anche nella comunicazione intenzionale c'è comunque un enorme margine di fraintendimento perché quelle che noi chiamiamo parole, più propriamente segni linguistici, sono in realtà dei suoni o dei segni scritti (significanti) convenzionali a cui ciascuno di noi associa dei significati. Ma i significati non esistono di per sé, esistono in relazione a tutte le altre idee e nozioni che ciascuno di noi possiede in maniera più o meno approfondita su un determinato campo (campi semantici) per cui, anche quando usiamo le stesse parole, non stiamo mai veicolando esattamente gli stessi significati. Per rimanere al monologo dei due, quando io uso la parola ne*ro il valore di quella parola non è dato solo dalla mia intenzione, ma anche da quella del ricevente del messaggio e dai campi semantici a cui il ricevente la associa in maniera non intenzionale (esempio banale, se uso quella parola con un latinista probabilmente la associa all'etimologia latina, se la uso con un afroamericano istintivamente gli ricorderà il bisnonno schiavo);

C) a rivendicare il politicamente scorretto sono sempre esponenti della parte di popolazione che detiene il controllo del "potere" nelle sue varie articolazioni, e se uno si ferma un attimo, capisce il perché: il politicamente scorretto è una delle forme in cui si manifesta la violenza (in questo caso verbale) con cui si legittima il controllo. Sono io che ho il potere che decido con che nomi e termini parlo di te, ti nomino. Facci caso, parlano di "intenzione". Bene, se io chiedessi ad uno stupratore, con ogni probabilità mi direbbe che lui mica ha stuprato, la sua intenzione era solo di divertirsi; la stessa cosa ti direbbe un bullo, lui aveva solo intenzione di divertirsi un po', è lo psicoterapeuta che gli fa capire che quel suo divertirsi ferisce l'altro; se vai a rileggere i verbali del processo di Norimberga, i gerarchi nazisti non parlano mai di volontà di fare soffrire gli ebrei, ma di "intenzione" di ripulire l'Europa. Cosa accomuna questi esempi? Che sempre l'uso della violenza, che sia fisica o verbale, viene mascherata da chi la esercita sostenendo che l'intenzione era altra. La maschera non è per forza intenzionale, ma c'è. Chi acquistava o possedeva uno schiavo nel XVIII secolo mica aveva intenzione di prolungare la condizione di inferiorità di un'etnia, non ci pensava proprio, non era un suo problema, lui aveva intenzione di avere un aiuto in casa o al lavoro a costo zero, adoperando quello che a tutti gli effetti era consierato un oggetto. Altra cosa che accomuna tutti questi esempi, compresi Pio e Amedeo: la loro "intenzione" prescinde dalla volontà di chi subisce la loro scelta. Lo schiavo non sceglie di esserlo, la donna stuprata idem, la vittima del bullo neanche, e il gay che i due comici pensano sia più figo chiamare frocio neppure, né lo decide la persona di colore che vogliono chiamare ne*ro. Anzi, è per loro censoreo il fatto che l'oppresso chieda di non essere chiamato in quel nome, come era uno scandalo il fatto che uno schiavo chiedesse diritti o che una donna si ribellasse alle volontà sessuali di un uomo. Insomma, si tratta di una forma di violenza, verbale, perpetrata da chi può su chi non può difendersi e chiede che sia la società a difenderlo.

Quindi, sorry, dire che ci stiamo educando a guardare la forma, le parole, e non le intenzioni delle parole, è una bella stupidaggine, un modo per lavarsi la coscienza, perché nella gran parte dei casi le intenzioni sono proprio veicolate dalla forma, soprattutto quando il contesto, la prosemica, il linguaggio paraverbale sono impossibili da accedere o di difficile interpretazione. Magari però c'è gente che sente dire questa stupidaggine in TV, questa dell'educazione a guardare alla forma e non alla sostanza, alle intenzioni, e pensa che sia vera: ecco, no, proprio non funziona perché la comunicazione non funziona così. Che poi, magari stessimo educando alla forma, semmai è il contrario!

Certo, entro certi limiti, i due comici possono avere ragione nel dire che in un contesto come quello della comicità la loro intenzione di fare satira dovrebbe essere chiara a tutti, tanto da non necessitare chiarimento quando usano termini politicamente scorretti. Però ci sono due problemi: 1) siamo sicuri che tutti colgono la differenza tra ironia (sostanzialmente un rovesciamento o una distorsione dei rapporti tra significati e significanti e campi semantici per mettere in luce paradossi e controsensi della lingua come della realtà) e pura asserzione? 2) Siamo sicuri che non si potrebbe fare buona satira o ironia usando termini politicamente corretti? Ovvero: Hunziker che fa gli occhi a mandorla è ironia di qualità? Pozzetto che tira fuori la lingua e urla alla donna discinta che è un bel troione è veramente una comicità da rimpiangere? Lo so qual è l'obieione: chi decide cosa è comicità di qualità? Nessuno, il pubblico, il gusto. Però io nelle mie scelte mi fondo su un presupposto: se la comicità compiace il palato della maggioranza e per farlo non lesina di colpire la minoranza, già di per sé debole, ecco, a me quella più che comicità pare piaggeria. La satira colpisce il potente, anche in maniera populista, è chiaro, ma a colpire i deboli ci pensano già i potentati, non c'è bisogno dei comici per questo.

Sia chiaro quindi, non si tratta di censurare: semmai il problema sta a monte, nel fatto che due comici sentono di doversi giustificare: se tu artista pensi di dover fare qualcosa, anche fosse usare certe parole, le usi e basta. Poi, proprio perché ti assumi la responsabilità di quello che fai, accetti anche le critiche in una discussione ragionata e pacata, senza doverti nascondere dietro l'arte per l'arte, il diritto della comicità di dire quel che vuole senza limiti e responsabilità. Questa idea vuol dire tutto e niente, è una bella asserzione, ma è vuota, ognuno la riempie come vuole. Invece l'artista deve avere il coraggio delle proprie azioni: vuoi denunciare che uno stereotipo non è solo un luogo comune, che è vero? Fallo, e poi sostieni la tua posizione. Se siete artisti, abbiate il coraggio di esserlo fino alla fine.

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....