lunedì 27 luglio 2020

Utopie, distopie, eterotopie e nonluoghi tra filosofia, architettura e letteratura.


Nella percezione del territorio spazio e tempo spesso si intrecciano, così come il luogo geografico sovente si mescola o si contrappone al luogo astratto. Nelle diverse combinazioni della nostra sensorialità e della nostra capacità di astrazione, siamo stati fino ad ora capaci di definire diverse forme di luoghi fisici o irreali. Nell'antichità era per esempio possibile ambientare una visione o un'opera letteraria in locus amoenus, un luogo, reale o immaginario, comunque caratterizzato per la propria irresistibile grazia e piacevolezza: al riguardo si pensi per esempio ai paesaggi di Teocrito o alle Bucoliche di Virgilio per avere un'idea del genere di paesaggio immaginato e definito da questa categoria.
Tuttavia, più entra in gioco la percezione dello spazio e del tempo, più il rapporto con il luogo fisico può divenire metaforico o analogico: entrano così in scena nuove categorie. La prima, senza dubbio, anche da un punto di vista cronologico, è quella dell'utopia. La parola compare nel Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia di Tommaso Moro (1516) ad indicare un luogo immaginario capace di un'organizzazione sociale, politica, religiosa, culturale talmente progredita e concorde da risultare altamente desiderabile nonché difficilmente raggiungibile. Il problema del concetto di utopia, a ragionarci bene, è che ciò che può essere altamente desiderabile e difficilmente realizzabile per un pensatore o per un autore può essere anche quanto di più detestabile per un altro, e costituire quindi il paesaggio di una distopia. Sia che si consideri comunque quel luogo immaginario come desiderabile o esecrabile, quel luogo, nel tempo, non è, o meglio, non è ancora o non è più: infatti quasi mai nelle formulazioni delle utopie e delle distopie i luoghi sono immaginati come esistenti ora; sono semmai prossimi o remoti; comunque il rapporto che istituiscono con il reale è metaforico: sono termini di paragone di ciò che non è ancora o non è più e dovrebbe o non dovrebbe essere nel futuro. In particolare, quando l'utopia è ambientata nel passato, assume il nome di retrotopia. Se guardiamo quindi a queste categorie, ci accorgiamo che un primo esempio di utopia/distopia risale già alla formulazione filosofica della Grecia classica, alla Repubblica immaginata da Platone. Sotto certi aspetti, ancora prima, la Costituzione ateniese pseudosenofontea e l'Epitaffio di Pericle riportato da Tucidide nelle sue Storie nella loro descrizione della società e della politica ateniese costituiscono esempi di costruzione di un'utopia o di una distopia, a seconda ovviamente del punto di vista che si adootta. In tempi moderni il romanzo distopico ha preso largamente il sopravvento sulle visioni utopiche: 1984 di Orwell, Il signore delle mosche di Golding, Fahrenheit 451 di Bradbury, finanche 1Q84 di Murakami, sono esempi eccellenti di visioni distopiche della realtà.
Accanto alla visione metaforica, tuttavia, esiste un rapporto analogico con la realtà: in questo caso, a partire dal 1967, con Foucault parliamo di eterotopie. Un'eterotopia è un luogo esistente, in genere un luogo connotato per la sua funzione culturale, sociale, istituzionale, che ha però con la realtà che lo circonda in qualche modo un rapporto disturbante, quasi quello di uno specchio deformante, capace di mettere in luce le contraddizioni della realtà mentre tuttavia mantiene una funzione reale e spesso molto importante. Sono perciò eterotopie per esempio le scuole, gli ospedali, le carceri, i cimiteri: luoghi che mantengono l'organizzazione talvolta anche rigidamente gerarchizzata della società che li realizza e che necessità delle loro funzioni basilari, pur non avendone effettivamente necessità o che al contrario destabilizzano quei rapporti altrimenti considerati incondizionatamente sacri e inviolabili, mostrandone l'inconsistenza. Un esempio di eterotopia è quindi per esempio il nosocomio/manicomio de La giornata dello scrutatore di Italo Calvino: un luogo in cui, mentre si adempiono le funzioni ritenute fondamentali dalla società che sta fuori dall'edificio, in special modo il rito collettivo del voto, se ne mettono in luce le contraddizioni di fronte alla sofferenza o anche solo alla vita pressoché annullata di molti degli ospiti dell'ospedale/ospizio. Sebbene il concetto di eterotopia nasca nell'ambito della scienza e della filosofia dell'architettura e dell'urbanistica, esso quindi travalica quel settore degli studi per penetrare a suo modo nella letteratura mondiale: a loro modo per esempio possono essere considerate eterotopie La biblioteca di Babele di Borges e Le città invisibili (e la mappa commissionata da Kubilai Khan) di Calvino. Al confine tra utopia, distopia ed eterotopia si pongono L'Ohio e la città di East Corinth de La scopa del sistema, di D. F. Wallace. Tuttavia, è nel genere cyberpunk che l'eterotopia diviene particolarmente funzionale alla rappresentazione della realtà descrivendo la deflagratoria contraddizione fra luoghi fisici che mostrano modelli di ordine e organizzazione, come le sedi di grandi istituzioni quali le multinazionali, e il caos circostante (Dick, Ricordiamo per voi o Ma gli androidi sognano pecore elettriche?). Sempre nel genere l'eterotpia per eccellenza diviene la rete internet, luogo fisico in cui però i rapporti gerarchici e gli stessi ordinamenti sociali possono annullarsi, fino alla cancellazione e alla creazione ex novo di identità, generi sessuali, religioni e ordinamenti (Gibson, Neuromante, per citarne uno). Tuttavia, ancor più potente è l'uso dell'eterotopia nelle opere fumettistiche e cinematografiche legate a questo genere: Akira di Otomo, Ghost in the shell di Masamune Shirow o anche Atto di forza, di Verhoeven, ispirato al già citato Ricordiamo per voi di Dick, e Robocop, sempre di Verhoeven, in cui distopia ed eterotopia convergono, attraverso la potenza dell'immagine mettono in scena la contraddittorietà delle eterotopie: nei primi due casi tra l'altro sottintendendo sempre un doppio rapporto tra le contraddizioni della società gerarchizzata e caotica dell'uomo, e l'alterità della natura, specchio deformante delle scene più forti ambientate a Neo Tokyo nel primo caso, in una immaginaria New Port City, largamente ispirata ad Hong Kong nel secondo caso; nei film di Verhoeven è invece il tono sempre sopra le righe della recitazione e dell'immaginazione stessa, assieme alle scenografie, a costruire la contraddizione delle eterotopie.
Più di recente, legata alle concezioni relativizzanti del postmodernismo, nasce la definizione di nonluogo, coniata dall'antropologo Marc Augé nel 1992. Anche in questo caso, tra nonluogo e realtà si istituisce un rapporto analogico: un nonluogo è un luogo fisico realmente esistente che, per la sua stessa funzione, è assolutamente spersonalizzante (senza dare a questo aggettivo un'accezione per forza negativa) e deidentitario. Sono nonluoghi tutti quegli edifici che pur in territori e all'interno di comunità e culture profondamente diverse sorgono con pressoché le stesse forme architettoniche e funzioni, specie se di transito (o transazione) e di svago. Sono quindi nonluoghi i centri commerciali, le stazioni, gli aeroporti, ma anche ascensori, centri di accoglienza e campi profughi, in cui le relazioni fra utenti sono minime o inesistenti e in cui il sentimento identitario per questo si annulla. È per esempio ambientato in un nonluogo Novecento di Baricco, ma ancor meglio troviamo la descrizione letteraria di un nonluogo in un'altra splendida opera di Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più.
In conclusione possiamo affermare che il rapporto che l'uomo istituisce con lo spazio e con il tempo ha spesso poco a che fare con la quantificabilità del reale, più spesso è attinente alla percezione dello spazio e del tempo nelle loro relazioni e funzioni. Questa percezione ha sempre la forma della figura di significato: è un confronto che può avvenire come metafora o come analogia; nel primo caso il luogo percepito è metafora di ciò non è o non è più e che si vorrebbe o non si vorrebbe che fosse; nel secondo caso il luogo percepito è in rapporto analogico con l'altro, ma questo rapporto è sovente deformante e disturbante, oppure è un rapporto che si fonda sulla perdita e la scomparsa di tratti non utili, come quelli identitari, o della stessa possibilità di relazione.

Prometeo incatenato, Eschilo

Dirck van Baburen - Prometheus Being Chained by Vulcan Rijksmuseum SK-A-1606
Dirck van Baburen / Public domain

Il Prometeo incatenato è la prima tragedia di un ciclo di tre, messo in scena probabilmente nel 460 a. C.. Delle tre tragedie a noi è pervenuta solo la prima, quella che dà avvio alle vicende. Prometeo, uno dei titani, dopo aver appoggiato gli dei dell'Olimpo nella titanomachia contro la sua stessa specie, viene ugualmente imprigionato da Zeus perché reo di aver violato una sua disposizione, rubando il fuoco e donandolo agli uomini. Da questa vicenda, che viene solo riepilogata nell'opera tetrale, parte la narrazione, con il titano che in Scizia viene imprigionato e legato ad un monte dal dio Efesto, seppure a malincuore. Giungono a consolarlo Oceano, un altro titano, e le sue figlie, le oceanine, che compatiscono il protagonista dell'opera. Giunge poi Io, anche lei in preda alle sofferenze della fuga dalla propria terra, dovuta all'amore impetuoso da parte dello stesso Zeus. Io chiede a Prometeo, "colui che vede avanti", di predirle il futuro, ma Prometeo è titubante, conscio delle sofferenze che attendono la donna. È proprio questa capacità di Prometeo, il suo poter conoscere il futuro, a tenere in scacco Zeus: Prometeo sa chi potrà sconfiggere Zeus, ed è per questo che il signore dell'Olimpo invia il suo messo Ermes per estorcere dall'incatenato la sua predizione. Al rifiuto del protagonista, si apre  un profondo burrone, verso cui egli verrà gettato incatenato.
Prometeo è, come altri protagonisti delle tragedie greche, colui che sfida la tirannide, consapevole che sarà destinato alla sofferenza, ma che ugualmente agisce perché giusta e degna l'azione. Prometeo è l'eroe del progresso: dona agli uomini il fuoco perché non accetta che Zeus li voglia tenere allo stato ferino, e per questo suscita nello spettatore simpatia. In questo senso Zeus e gli dei dell'Olimpo appaiono invece come la rappresentazione del potere opprimente (e infatti Potere e Forza accompagnano e sorvegliano Efesto nel suo compito, incatenare Prometeo, proprio mentre il dio storpio prova simpatia per la sua vittima). Tuttavia Prometeo è destinato alla sconfitta, perché, sebbene possa conoscere il futuro, sfida un volere imperscrutabile, quello di cui gli stessi dei dell'Olimpo non sono altro che esecutori. In questo sta la contraddizione tragica di Prometeo: come Zeus è lo strumento della realizzazione di un fato che sovrasta tutti, dei e titani, e così, nella sua sfida a Zeus, è allo stesso tempo umanamente simpatico e divinamente colpevole di hybris.

venerdì 17 luglio 2020

I Persiani di Eschilo - il vincitore e la simpatia per i vinti

I Persiani - Eschilo - Feltrinelli Editore

I Persiani, di Eschilo, è la  più antica opera teatrale che conosciamo. Non ne conosciamo bene la genesi, né sappiamo in che modo e se fosse collegata in una trilogia; il tema dominante dell'opera sta nella storia recente della città di Atene e dei suoi ben più potenti viicini Persiani, ovvero l'incredibile vittoria greca nella Seconda guerra persiana, in particolare il clamoroso successo dell'intuito ateniese nella battaglia marittima di Salamina. Preannunciato da un inquietante sogno della regina Atossa, giunge il nunzio che porta la notizia della sconfitta persiana, con una dettagliata disamina dell'andamento della battaglia e con l'elenco delle importanti perdite fra i Persiani. Tuttavia ciò che più sconvolge la regina madre è l'idea del Grande re Serse ricoperto da vestiti in brandelli e sporco del sangue dei propri compagni caduti, da solo, in fuga verso la madre patria. Appare quindi lo spettro del padre di Serse, Dario, che spiega al coro le ragioni della sconfitta: è stata la tracotanza di Serse a causare il disastro, avendo questi addirittura osato incatenare il mare con il suo famigerato ponte di navi sul Bosforo pur di far passare il suo immane esercito da un continente, l'Asia, ad un altro, l'Europa, sfidando così la stessa volontà divina. La tragedia così si conclude con il ritorno di Serse, lacero nelle sue vesti, che si unisce nel pianto al coro.
Già solo alla lettura della trama risulta evidente come il tema della tragedia sia l'inevitabile sconfitta di chi oserà tentare di sfidare gli dei, nel caso specifico cercando di unire e dominare, due continenti, che gli dei hanno voluto divisi e diversi. Ma se il tema è questo, un altro dato appare chiaro approcciando il testo: Eschilo, pur riconoscendo la colpa di Serse, non può non guardare alla disfatta dei Persiani non provando pietà per la loro sofferenza. La focalizzazione dell'opera è sempre sul punto di vista persiano, sono i persiani a piangere i propri caduti, a riconoscere la grandezza dei propri avversari, ad attendere trepidanti notizie sul proprio re, a disperarsi per la potenza disfatta. Emerge così in Eschilo una capacità di compartecipazione alle disgrazie altrui assolutamente unica e inedita nella letteratura mondiale: l'autore prova pietà per la sciagura di coloro che solo otto anni  prima della messa in scena della tragedia avevano tentato di invadere la Grecia. Eschilo non è un traditore, anzi, avendo egli stesso combattutto i Persiani a Maratona diciotto anni prima, e nondimeno non può non sapere che alla vittoria degli uni, al giubilo, corrispondono pena, disgrazia e sofferneze per gli altri; Eschilo sa che solo il fato può stabilire la ripartizione delle pene e delle gioie, e che nella condizione dei Persiani avrebbero potuto trovarsi gli Ateniesi, o potranno trovarvisi un giorno. In questa simpatia, ovvero compartecipazione alla sofferenza, che Eschilo mostra verso i propri avversari stanno tutta la grandezza e l'unicità dell'opera, capaci di trascendere le incertezze e gli arcaismi dei primi tentativi della tragedia greca.

Love, una serie da ripescare su Netflix




Love è una serie TV scritta e diretta da Judd Apatow, Lesley Arfin e Paul Rust per Netflix, andata in onda per la prima volta nel febbraio 2016. Fra gli attori spiccano i due protagonisti, Paul Rust e Gillian Jacobs. La serie, terminata con la terza stagione disponibile dal 2018, racconta di come Gus Cruikshank (Rust), un insegnante per attori minorenni che lavora negli studi televisivi, e Mickey Dobbs (Jacobs), una produttrice radiofonica, si incontrino e si innamorino. I due protagonisti vengono entrambi da storie fallimentari: Gus mollato dalla propria fidanzata poco prima del matrimonio, scoprendo di essere da lei disprezzato per i suoi modi gentili e per la sua apparente indecisione, e Mickey costretta a fare i conti con le sue dipendenze patologiche dal sesso e dall'alcool. Attraverso le tre stagioni vediamo così lo  svilupparsi dei caratteri delle due colonne portanti della narrazione, se in un primo tempo Gus sembra essere l'anello forte della catena, quello razionale e in grado di sorreggere la compagna nell'affrontare le proprie debolezze, sempre di più nella seconda e nella terza stagione assistiamo all'inversione delle parti: Mickey, raggiunta la stabilità emotiva e iniziato un percorso di disintossicazione diviene in grado di raggiungere anche il successo lavorativo, mentre Gus sembra non riuscire ad emergere, fallendo l'occasione di divenire uno sceneggiatore professionista. Così, nella terza stagione, passando attraverso una crisi che sembrerà preludere alla fine della coppia, Gus si troverà finalmente ad affrontare i propri limiti, l'incapacità di controllare le proprie emozioni e i propri scatti umorali, e con l'aiuto della fidanzata, otterrà finalmente il tanto agognato impiego da sceneggiatore. Si giungerà così al lieto fine: i due protagonisti, sempre sul punto di esplodere come coppia, decidono di sposarsi con accanto a loro soltanto gli amici più intimi.
Love infatti non è solo una storia d'amore, comica a tratti, spesso surreale, il più delle volte spassosa, ma anche una storia di amicizie, come quella tra Mickey e Bartie Bauer, la coinnquilina interpretata da  Claudia O'Doherty, o quella tra Gus, Chris Czajkowski (interpretato da Chris Witaske) e Randy Monahan (Mike Mitchell), gli ultimi due intenti a contendersi l'amore e, soprattutto, l'affetto e la stima di Bartie. E Love è unna storia di spiantati in cerca di gloria, di trentenni che hanno lasciato la famiglia in cerca di un sogno, spesso nel cinema, nelle TV o nelle radio, per finire a fare i camerieri, gli insegnanti, o dormire nella propria auto: eppure continuare a crederci.
Soprattutto, però, Love è una dolcissima storia d'amore, dicevamo: come spesso accade a questo tipo di narrazioni, a volte può risultare fin troppo sdolcinata, ma nella gran parte dei casi la serie riesce a dipanarsi attraverso un racconto molto concreto dello sviluppo di una relazione, le paure, i difetti dell'altro difficili da accettare, il passato che non si può cancellare ma si può provare a superare assieme.
Insomma, una serie a cui dare sicuramente più di una possibilità. 

The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....