sabato 13 giugno 2020

E a noi cosa rimarrà della Didattica a distanza?

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Lo dico subito: se siete tra quelli che "la DAD non è scuola" lasciate perdere questo post. Tanto non ne condividereste nulla, non ci giriamo intorno. Se siete tra quelli che pensano che la DAD (o Didattica a distanza) abbia avuto più demeriti che meriti, potreste provare a leggere e, magari, accorgervi che alcune cose che avete attribuito a questa pratica, con questa pratica c'entrano relativamente. Se siete, infine, tra i fanatici della DAD, lasciate perdere questo articolo, non ne avete bisogno perché tanto non ammettereste che alcune cose sono andate male o si possono fare meglio.
Seconda premessa: questo post prende a piene mani ispirazione da un articolo apparso su Teachers on fire.

Allora, riassumendo, cosa rimane di buono della DAD? Per molti nulla, l'abbiamo detto. Indubbiamente tre mesi di Didattica a distanza hanno fatto emergere limiti e problematiche di questa pratica, ma questi problemi rischiano di offuscare e far sparire quanto di buono è stato fatto o hanno fatto esprimere. Per esempio-

  •  Le diseguaglianze sociali
Al contrario di quanto afferma la narrazione comune, la Didattica a distanza non ha incrementato le diseguaglianze sociali, semmai le ha fatte emergere. In classe, dietro un banco, i nostri alunni da bravi piccoli soldatini ci appaiono tutti uguali e nelle stesse condizioni; talvolta ci accorgiamo che non è così perché l'alunno è problematico, o la famiglia ci comunica che fa fatica ad acquistare i libri; il più delle volte però, in classe, il contesto sociale sparisce. Certo, ricompare quando si  fa uno studio statistico e sociologico dei risultati di apprendimento, ed è ben presente agli insegnanti più navigati, ma per molti, soprattutto per chi guarda la scuola da lontano, il contesto sociale è inesistente. Si vuole una riprova? Basti pensare ai risultati dei test PISA o, più nel piccolo, degli INVALSI: da anni ci dicono che i risultati di apprendimento sono indissolubilmente legati al contesto sociale di riferimento, cioè alle famiglie, alle comunità, alle disponibilità economiche, di tempo, culturali, e da anni chi commenta quei test non osserva queste premesse e di quei test sproloquia. Poi è arrivata la DAD, e il contesto sociale è  diventato improvvisamente e terribilmente visibile: un milione, forse un milione e mezzo di alunni che non ha potuto prendere parte alle attività didattiche a distanza, altri che lo hanno fatto con enormi difficoltà dovute alla mancanza di connessione o, più spesso, di device adatti. Ora, chi credete siano questi alunni che hanno mostrato platealmente queste difficoltà? Esatto, sono quelli che già prima vivevano le diseguaglianze sociali, solo che fino ad ora quelle diseguaglianze non le abbiamo volute vedere. Se volete possiamo cancellare la DAD, ma se non cancelliamo anche le diseguaglianze sociali, non otterremo certo miglioramenti nei risultati di apprendimento, figuriamoci dei miglioramenti nelle condizioni di vita di chi sta peggio. Anzi, come non mai, la DAD ci ha costretto ad affrontare queste diseguaglianze, almeno quelle legate all'accesso ad internet e ai device, con scuole che hanno preso atto della situazione e hanno distribuito computer, tablet, sim per accedere ad internet. Una goccia nel mare da fare, ma era un mare di cui prima disconoscevamo l'esistenza.

  • Attenzione al benessere degli alunni
Una delle accuse alla DAD è "che si tratta di qualcosa di impersonale". Eppure, qual era l'alternativa? Ovviamente non il riaprire le scuole in maniera sconsiderata, rischiando di farne un epicentro dei contagi, soprattutto in un momento in cui la conoscenza del virus era scarsissima. Chi fa mente locale a cosa è accaduto a febbraio, si ricorda che, come mai era accaduto, prima ancora dell'intervento del ministero, la scuola intesa come docenti si è mobilitata per far fronte ad un disagio dei propri alunni, impedire che gli studenti italiani non facessero nulla per mesi e dare loro una sensazione di normalità: adulti che parlavano con dei minori per tranquillizarli, spiegare loro cosa stava accadendo, distrarli, farli giocare, far loro sperimentare esperienze culturali. Nel fare questo ci siamo anche accorti di alcune cose: che, per esempio, presenza e distanza sono due cose che possono realizzarsi contemporaneamente, che molti nostri alunni che si perdono in classe hanno risposto meglio con la DAD, che altri invece si sono persi durante le lezioni anche se risultavano presenti, che, soprattutto, ormai non possiamo non considerare i diversi risvolti della differenza tra distanza fisica, sociale, culturale. Ci siamo poi accorti, drammaticamente, di come alcune categorie soffrano più di altre il distanziamento fisico, in particolare quelle soggette ad alcune forme di disabilità, nonché i più piccoli (ma su questo andrebbe aperto un capitolo: le troppe volte in cui  per i più piccoli non è stato aperto alcun canale di Didattica a distanza, ciò è avvenuto perché empiricamente si è sperimentata l'impossibilità di tale prassi, o perché a priori gli insegnanti hanno stabilito che quella pratica era irrealizzabile?). In ogni caso ci siamo tutti accorti di come l'apprendimento si leghi al benessere emotivo degli alunni: i ragazzi hanno reso, anche in DAD, quando siamo stati in grado di motivarli e tranquillizzarli assieme alle famiglie; quando le famiglie e i docenti sono stati involontariamente disattenti o disinteressati abbiamo ottenuto i risultati peggiori,

  • Valutare per apprendere
Mai come in tempo di DAD noi docenti siamo stati costretti a riflettere sulle nostre pratiche di valutazione. E mai come in tempo della DAD il ministero si è  mosso bene in questo senso, favorendo, invitando, incitando ad assumere come prassi la valutazione formativa più che la valutazione sommativa. Di concreto, cosa è successo? È accaduto che in questi mesi abbiamo fatto svolgere ai nostri alunni esercitazioni, verifiche, colloqui, con l'obiettivo di capire se le pratiche didattiche stessero o no funzionando; insomma, quello che quasi sempre non facciamo in classe, dove le pratiche didattiche ormai sono date per scontate e sicuramente funzionanti. Forse abbiamo persino ecceduto: esercitazioni su esercitazioni, verifiche formative su verifiche, ma quando ad ogni esercizio è corrisposto un feedback formativo per i nostri discenti ci siamo, in alcuni casi colpevolmente per la prima volta, messi a disposizione dell'apprendimento dell'alunno anziché eretti a giudice della condotta morale legata allo studio del discente.
  • Le competenze
La parola che fa orrore a molti docenti, alla fine sbuca fuori. Le competenze. Perché le competenze sono venute fuori davvero. In primis dei docenti, che spesso si sono dovuti dichiarare incompetenti riguardo ad una pratica e ai suoi strumenti, e hanno dovuto riomboccarsi le maniche. Non è il luogo qui per discutere sul perché la scuola italiana non fosse pronta alla DAD, l'ho fatto in parte altrove , ma rimane il fatto che come non mai è risultato chiaro che non basta conoscere le discipline per sapere insegnare, occorrono altre competenze. E che occorra lavorare sulle competenze è risultato evidente anche nella pratica didattica degli alunni, dato che la situazione ha costretto noi docenti non tanto a puntare su ciò che gli alunni sapevano (che, facilmente, potevano reperire a nostra insaputa su un motore di ricerca), ma a fare in modo che quel sapere o saper cercare venisse messo in pratica in produzioni e progetti che evidenziassero la capacità di ragionare sui saperi. Anche in questo caso, un balzo enorme che si spera non venga cancellato dal ritorno alla normalità.

  • La scuola asincrona
Molti di noi avevano già fatto pratica con modelli asincroni di scuola, e non tutti con pieno successo, io in primis, ma non c'è dubbio che questa volta la gran parte del corpo docente ha dovuto prendere consapevolezza che altri modi di fare scuola esistono. Sono migliori? Non è detto. Possono essere utili in determinate e con determinante strategie? Indubbiamente, e ne dobbiamo prendere atto.

  • L'apprendimento orizzontale
La DAD ci ha posti spesso nella condizione di non poter risolvere, da lontano, i problemi dei nostri alunni; allo stesso modo spesso ha posto gli alunni ad essere in condizione di risolvere, meglio dei docenti, i problemi dei compagni: è stato quindi evidente che l'apprendimento non si verifica solamente in una comunità verticale e gerarchizzata, ma anche, nei contesti adeguati, in comunità orizzontali e "leaderless". Ciò ha anche favorito lo sviluppo di attività in cui il primo prerequisito è stata la capacità di condivisione di saperi, abilità e competenze fra gli alunni.

  • L'insegnante che studia
Certo, lo sappiamo, l'insegnante, quello vero,  non smette mai di studiare. Questa caratteristica di questa professione è stata ancor più evidente in questa situazione: quante altre categorie professionali sarebbero state capaci di inventare, nell'arco di una settimana, una modalità così drasticamente diversa di svolgere la propria attività? Quante sarebbero state disposte e in grado di mettersi a svolgere ore ed ore di formazione online per svolgere queste attività rinnovate? Questo è quello che hanno fatto i docenti in questi mesi, hanno mostrato alla letttera cosa voglia dire possedere e coltivare una competenza, quella dell'apprendimento che si estende per tutta la propria esistenza.

  • Lo studente autonomo
Certo, non ce l'abbiamo fatta con tutti, anzi, forse ce l'abbiamo fatta con pochissimi e solo nella Secondaria di secondo grado. Eppure abbiamo spesso osservato come alcuni alunni abbiano acquisito una consapevolezza di se stessi e delle proprie competenze che difficilmente avrebbero acquisito in classe, sviluppando livelli di autonomia prima difficilmente ipotizzabili. Questo lascito andrà coltivato e valorizzato anche con il ritorno in presenza.

In conclusione, come del resto concludeva l'articolo da cui questo mio post trae spunto: è augurabile che la situazione rimanga questa? No, ovviamente, tutti ci auguriamo di tornare in classe in sicurezza. Abbiamo però imparato qualcosa da questi mesi? Forse, indubbiamente dovremo essere in grado di analizzare sine ira et studio quanto accaduto, fatto e ragionato, per cogliere dalla DAD quanto di meglio ci viene lasciato, per esempio sviluppando più compiutamente modalità di apprendimento blended nelle nostre scuole. 

Sulle statue, il patrimonio artistico e la storia

Monumento a Indro Montanelli - Wikipedia
Foto: Wikipedia


È di questi giorni il dibattito sulle statue e in generale sui simboli del passato, come oggetti di ideologica venerazione o contestazione. Ovviamente il dibattito parte dall'osservazione dei fatti che stanno accadendo negli USA e non solo, ovvero la deposizione e l'abbattimento di statue riguardanti gli eroi sudisti, schiavisti e coloniali, nonché di Cristoforo Colombo. A partire da questi episodi la protesta anticolonialista e antirazzista si è estesa anche all'Europa e in alcune circostanze ha fatto assistere alla contestazione di simboli apparentemente intoccabili, come Chirchill, colpevole di essere artefice di una carestia che causò circa 3 milioni di vittime in Bengala, o, in Italia, figure come quella di Montanelli, già in passato contestato per il suo aperto razzismo, maschilismo, nonché per aver aderito al fascismo e per un caso di pedofilia e schiavismo che lo vide protagonista all'età di venticinque anni. Sì sostiene quindi come sia normale e comprensibile che i manifestanti abbattano le statue di simboli controversi del passato; tuttavia chi contesta questa posizione adduce sostanzialmente quattro tipi diversi di argomentazione: 
  1. la cancellazione dei simboli del passato è una forma di rimozione della storia inaccettabile;
  2. la deposizione di statue come quelle di Churchill o Colombo non riconoce i meriti di questi personaggi;
  3. la deposizione di quelle statue decontestualizza l'azione dei personaggi che sono vissuti immersi nella cultura del proprio tempo;
  4. il patrimonio artistico andrebbe sempre tutelato, a qualsiasi epoca appartenga
In merito al primo punto, si può però obiettare che questa posizione esprime esclusivamente il punto di  vista di chi ha scritto la storia condivisa e che, sempre, il tentativo che una comunità di tanto in tanto sente di dover fare di (ri)scrivere una nuova storia condivisa necessità la rivisitazione o, eventualmente, l'abbattimento dei miti precedenti. Inoltre la cancellazione dei simboli del passato che vengono contestati è una rimozione storica fra le mille altre, che non appartiene al campo della Storia come scienza, ma appartiene alla narrazione condivisa e romanzata delle vicende che appartengono ad una collettività e che ha un fine diverso dalla ricerca storica; del resto la stessa narrazione della storia condivisa precedente si è fondata sulla rimozione volontaria o involontaria degli elementi perturbanti la narrazione che, ora, i contestatori rivalutano e rivisitano. 
In merito al secondo punto, si può ribattere che allo stesso modo l'aver eretto quei personaggi storici a simboli attraverso l'erezione di statue ne ha disconosciuto i demeriti o i delitti; la deposizione delle loro statue, lungi dall'essere una rimozione, può costituire quindi un momento di lettura critica dei fatti del passato. 
Riguardo alla terza argomentazione, si può però osservare che la stessa imposizione attraverso l'opera artistica di quei personaggi a simboli universali ne decontestualizza l'azione, rendendola passibile di analisi critica anche molto lontano nel tempo e nello spazio; inoltre non sempre l'innalzamento di statue o l'erezione di opere artistiche sono contemporanei all'azione dei personaggi o  sono arrivati in momenti in cui fosse impossibile l'analisi critica dei personaggi in questione, per cui in questi casi anzi sono le statue stesse che decontestualizzano almeno in parte l'azione dei personaggi storici, come per esempio con il tributo a Montanelli a Milano. 
Infine, riguardo alla difesa sempre e comunque del patrimonio artistico, chi contesta i manifestanti porta esempi come quello del Partenone, che nasce come dimostrazione della potenza imperialistica ateniese ma assurge poi a simbolo universale della grandezza del mondo greco. Al riguardo, è vero che il patrimonio artistico andrebbe in teoria sempre difeso, tuttavia ciò nella pratica può accadere solo in circostanze ben precise, quando quel patrimonio artistico è dievenuto simbolo universale, cosa che non sempre è bene e necessario che avvenga. Non sempre il patrimonio artistico diventa simbolo universale, più frequentemente infatti il patrimonio artistico è in primis strumento propagandistico o ha valore contingente e, in questi casi, il suo valore si annulla finite le circostanze che ne hanno richiesto la realizzazione. Tuttavia anche in quelle circostanze il patrimonio artistico rimane testimonianza di una certa cultura di una certa comunità in una certa epoca e la sua preservazione rimane importante, almeno a fine storico; ma lo stesso tentativo di rimozione di quel simbolo diviene testimonianza di un cambiamento nel sentire di una certa cultura di una certa comunità in una certa epoca.

Per concludere, qualcuno anche da noi ogni tanto tira fuori la necessità di "raggiungere una storia collettiva condivisa" che metta insieme vincitori e vinti. Ecco, per capirci, quello che sta accadendo negli USA e non solo è uno dei momenti in cui si scrive, o si tenta di farlo, una storia collettiva condivisa. Notoriamente il bisogno di raggiungere una nuova versione concordata della storia appartiene ai vinti, i vincitori la loro storia l'hanno usualmente già dettata. Il punto è che non si può scrivere una nuova versione della propria storia (che, come detto, non è la Storia con la "s" maiuscola, frutto di ricerca scientifica, ma è una versione romanzata e di compromesso ad uso e consumo della convivenza collettiva) senza abbattere almeno alcuni capisaldi della narrazione precedente. Ovviamente lo stupore e il terrore dei più conservatori è facilmente comprensibile: per loro la storia è già stata narrata, è quella in cui la loro versione del mondo ha vinto e non c'è motivo per cambiarla. Ma i progressisti? Anche i più progressisti fra di noi gridano all'iconoclastia osservando i manifestanti che attaccano i simboli dei passati regimi, del passato, del racconto tradizionale della storia, per metterne in luce misfatti o altre verità. Eppure è quello che avviene alla fine di ogni dittatura, di ogni oppressione, politica o culturale che sia. Vi stupisce che vengano tirate giù le statue di Colombo o di Churchill, e vi stupisce che si chieda la rimozione della statua di Montanelli: eppure non vi stupisce che chiediate a nuovi scrittori di raccontare una nuova storia tenendo per buoni protagonisti, trama e persino il finale?


The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....