giovedì 21 maggio 2020

Amori ridicoli, Milan Kundera




Amori ridicoli, di Milan Kundera, non è una bella raccolta di racconti.
E così, tagliata la testa al toro, possiamo dedicarci con calma a spiegare il perché di un giudizio così drastico.
I sette racconti che compongono la raccolta sono tutti accomunati dal tema comune, quello dell'amore, e in due casi si ripete anche il protagonista delle vicende, il dottor Havel. Ad un'attenta lettura tuttavia è subito chiaro che, se di amore si parla, si tratta dell'amore a cui ci ha abituato Kundera: un amore esclusivamente maschile e maschilista, mascolino, possessivo, che tratta la donna quasi come una preda amorfa, sempre bisognosa di essere plasmata dall'azione dell'uomo cacciatore, anche solo nei suoi sogni, salvo poi scoprire la vanità della propria caccia.
Il tema della vanità della caccia amorosa è proprio quello che sta sullo sfondo di uno dei racconti più riusciti, "La mela d'oro dell'eterno desiderio", ma il senso di vanità della seduzione ritorna anche nel migliore dei due racconti con protagonista il dottor Havel, "Il dottor Havel vent'anni dopo". In altri casi invece ciò che dà senso (o lo toglie) alla ricerca dell'appagamento sensuale è l'incomunicabilità che sta al fondo delle relazioni umane, l'impossibilità, secondo Kundera, di provare e pensare la stessa cosa nello stesso momento, incapacità che affligge le relazioni amorose ("Il falso autostop" e "Così i vecchi cedano il posto ai giovani"). In ogni caso la donna è oggetto d'amore, se è soggetto, lo è in forme parodistiche o francamente semplicistiche e banali ("Il simposio" e, ancora "Così i vecchi cedano il posto ai giovani").
Sia chiaro, la critica che qui si  muove a Kundera non è fondata su un banale senso del politicamente corretto o sull'idea che occorra dare pari rappresentanza ai generi secondo una sorta di par condicio letteraria: è che è palese che Kundera non vuole, non sa e non prova a pensare che l'amore possa essere diverso da quello che propone, da decenni, nei suoi libri; un amore, appunto, esclusivamente maschile, sensuale e che ha come unico senso l'appagamento del desiderio di conquista. Non esiste altra forma di amore tra le trame di questi racconti, e per quanto questa caratteristica dia una coerenza di fondo alla raccolta, alla lunga stanca.
Non per niente il migliore dei racconti è "Eduard e Dio", in cui, pur ripetendo lo stantio tema dell'espressione della giovinezza e della mascolinità di non una, bensì due donne estremamente diverse tra di loro, almeno l'autore intreccia brillantemente lo sviluppo della narrazione con l'analisi di tematiche sociali e religiose della Boemia dei suoi anni. Un po' poco per essere un capolavoro.
La narrazione quindi, spesso banale, raggiunge in alcuni casi la vividezza e la brillantezza degli scritti migliori dell'autore, ma non trova la capacità di rinnovarsi o, almeno, di analizzare fino agli estremi limiti i temi che costellano la scrittura di questi testi.

giovedì 14 maggio 2020

Quanto ci è costato liberare Silvia Romano


Foto: Repubblica

Ovviamente non mi riferisco ai presunti quattro milioni di euro pagati per riscattare la vita di Silvia Romano, volontaria rapita in Africa e tenuta prigioniera per più di un anno e, oggi, vittima di violentissimi attacchi nella sua patria.
Semmai il vero costo della liberazione di Silvia Romano è la scoperta che non siamo affatto migliori di come eravamo prima della pandemia, anzi, forse siamo peggiori, impauriti, arrabbiati, incattiviti. Che una persona liberata da un rapimento debba subire minacce di morte è l'ultimo degli orrori logici a cui ci costringe il nostro tempo. 
Perché, nell'ottica di un discorso pubblico e collettivo, proprio di una serie di errori e fallacie logiche si tratta. Chi oggi attacca la volontaria parte dall'assunto, ancora oggi ribadito da Luca Zaia, che se parti volontario in Africa ti devi assumere la responsabilità dei rischi che corri: come a dire, se ti rapiscono, colpa tua e cazzi tuoi; inoltre, la volontaria viene accusata di aver tenuto un comportamento indegno accettando di essere liberata con il pagamento di un riscatto e di portare un messaggio di assoggettamento con il suo essersi convertita all'Islam. 
Partendo dal nucleo della tesi, la questione della responsabilità, si può sostenere che sia sbagliato dire che se fai il volontario in Africa ti sei andato a cercare il rapimento; infatti si tratta dell'applicazione di un meccanismo logico tipico delle società paternalistiche che configurano i diritti come graziose concessioni dell'entità gerarchicamente superiore (una persona, un dio, una comunità...) a cui quindi, sempre, occorre conformarsi nelle volontà e nelle richieste. Più nello specifico si tratta di una fallacia logica che segue lo stesso schema argomentativo del "se ti sei messa la minigonna allora ti sei cercata lo stupro"; la fallacia logica sta nell'attribuire ad un fatto, il rapimento o lo stupro, una causa intrinseca (A = lo stupro o il rapimento, avviene perché B = la minigonna o il volontariato) mentre fra i due fatti non c'è concatenazione causale. I due fatti avvengono per correlazione, ma la causa, dell'uno come dell'altro avvenimento, è estrinseca e indipendente dalla volontà del soggetto che subisce gli eventi: nel primo caso, lo stupro, la donna stuprata subisce l'abuso perché c'è un uomo che decide di abusare di lei, e la causa è lì, non nella minigonna; nel secondo caso la volontaria viene rapita non perché decide di essere una vittima sacrificale, ma perché ci sono uno o più rapitori che decidono di prelevarla e detenerla. Lo stesso meccanismo logico viene applicato nel ragionamento comune: in certi ambienti un lavoratore che si fa male sul lavoro deve aver paura a denunciare la cosa (perché se lavori ci può stare che ti fai male, e quindi perché dovrei pagare le tue cure, se non ti volevi fare male non venivi a lavorare da me...) e semmai ringraziare che almeno un lavoro ce l'ha. È un meccanismo logico trasversale agli schieramenti politici: attraversa tanta sinistra che minimizza, per esempio, i rapporti di responsabilità, durante gli scontri nelle manifestazioni ("e ma se sei un poliziotto lo sai che ti può capitare di rimanere contuso o ferito durante una manifestazione") come la destra ("se commetti un reato e vieni torturato mica ti puoi lamentare"). Chi non condivide questi argomenti, sostiene che se devo indossare apposito abbigliamento per lavorare e non lo faccio, in un incidente sono responsabile dei danni che mi causo; se sono un poliziotto in servizio e giro disarmato, e se un assassino mi uccide e non mi sono difeso sono responsabile, se sono una missionaria e non mi tutelo rispetto ad aggressioni e lavaggi del cervello, sono responsabile del mio stesso rapimento. Tuttavia in tutti e i casi citati la leggerezza nei comportamenti tenuti dai protagonisti degli esempi non riduce in nulla il fatto che sono altri i soggetti che eventualmente decidono e causano le proprie azioni (il datore di lavoro che DECIDE di non voler sostenere le cure mediche o l'assassino che DECIDE di colpire un uomo disarmato); inoltre accettare un lavoro non equivale però a farlo male: se faccio il volontario, e lo faccio per bene, non c'è ragione alcuna per cui debba subire un rapimento; in generale, se sono un lavoratore, come lavoratore sono responsabile delle mie azioni sul lavoro, non di altro; per cui, se anche fosse dimostrata la leggerezza nei comportamenti lavorativi tenuti dalla volontaria, questo non toglierebbe nulla alla responsabilità dei rapitori che rimangono gli unici artefici del rapimento. 
Riguardo all'assunto per cui Silvia Romano sarebbe responsabile di aver portato un messaggio di assoggettamento essendosi convertita all'Islam, ferma restando l'eventualità che sia stata costretta alla conversione o imbonita,  andrebbe ricordato che il suo aver abbracciato una fede come scelta personale non è più o meno simbolico dell'abbracciare o riscoprire il Cristianesimo da parte di una donna che ha subito violenza da un cristiano: una moglie maltrattata da un marito, per esempio, che cerca un senso al suo dolore nella fede. Siamo noi a decidere che un valore simbolico è più "pesante" di un altro. 
Chi critica Silvia Romano parla di un comportamento indegno: dignità avrebbe voluto che non si convertisse. Tuttavia cosa sia la dignità è frutto di percezione soggettiva data dal tempo e dalle circostanze, tutto tranne che qualcosa di oggettivo; certo, si potrà rispondere che è dignitoso chi, coerentemente con il proprio credo, è disposto a morire, non a farsi salvare rinnegando se stesso,  mantenendo così la propria dignità; tuttavia questa in realtà è una tautologia: è dignitoso chi è disposto a morire, ovvero a tenere un comportamento dignitoso. Quindi secondo questo schema argomentativo è dignitoso ciò che è dignitoso, ma non sappiamo davvero cosa sia dignitoso perché per definirlo non possiamo fare altro che esprimere la dignità con l'aggettivo che ne deriva. Per altri è contemporaneamente dignitoso che uno Stato scelga di salvare i propri concittadini in difficoltà ed ed è ancora dignitoso che un cittadino italiano sia libero di scegliere il proprio credo religioso (o il non credere) in base al proprio sentire personale: come si vede tuttavia, pur essendo tutte applicazioni del concetto di dignità, in questa situazione le proposizioni precedenti contrastano la prima con le altre due, proprio perché è il presupposto di base ad essere fallace, quello per cui si possa giudicare la questione secondo un concetto astratto e trattato come una scatola vuota da riempire con ciò che noi vogliamo considerare dignitoso, ovvero la dignità.
In ultimo, Silvia Romano viene accusata di non essere stata coerente: se fosse stata coerente non avrebbe dovuto accettare di essere liberata con il pagamento di un riscatto. Anche in questo caso però si tratta di una fallacia logica: non è lei che ha accettato o non accettato il riscatto, ed è emblematico che si commetta questo errore: ad accettare il riscatto è ovviamente chi rapisce, non chi viene rapito. Come a dire che il responsabile di un sopruso sia la vittima, non il carnefice.

Dicevamo, quindi, quanto ci è costato liberare Silvia Romano?
Ci è costato (ri)scoprire che siamo ancora una società paternalista, maschilista, che pensa alle donne esclusivamente come l'angelo del focolare e la cui forma di autodeterminazione deve stare nello scegliere il colore della prossima calzetta da cucire. 
Ci è costato (ri)scoprire che non esiste la libertà di culto, soprattutto per le donne, e non perché, come qualcuno ha millantato, si vada verso unna laicizzazione estrema del paese, ma semmai al contrario perché siamo talmente tanto estremisti cattolici da non accettare che altri possano convertirsi ad un'altra religione, e da equiparare incondizionatamente un miliardo e mezzo di fedeli a dei terroristi. 
Ci è costato (ri)scoprire che non sappiamo fare di conto e che abbiamo scarsa memoria, perché i presunti 4 milioni di euro per la liberazione della volontaria equivalgono a sei centesimi a testa, e sono comunque molti di meno dei 49 milioni di euro arrivati illegalmente e spariti dalle casse della Lega, e che non rivedremo mai più.
Ci è costato (ri)scoprire quanto siamo succubi agli artifici della comunicazione, perché il tam tam mediatico sulla vicenda è servito a far distogliere il nostro sguardo dallo scandaloso disastro dell'amministrazione leghista in Lombardia, dalla metà dei morti e dei contagiati del paese provenienti da questa regione, dai test sierologici affidati ai privati e a  pagamento dei cittadini, dai tamponi che non ci sono, dalle RSA, dai 21 milioni di euro per un ospedale che ha ospitato solo 25 pazienti, dalle risposte che non arrivano.
Ci è costato, infine, (ri)scoprire la nostra povertà intellettuale ed umana, l'incapacità di provare empatia per una persona che ha sofferto diciotto mesi in condizioni che non possiamo neanche immaginare e che è stata accolta da una parte del paese come il peggiore dei nemici.


The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....