mercoledì 30 dicembre 2020

La caduta di Gondolin, J. R. R. Tolkien

La caduta di Gondolin di J. R. R. Tolkien, a cura del figlio Christopher Tolkien, è un racconto lungo, o meglio la storia delle diverse stesure di un racconto lungo, quello della caduta della città elfica di Gondolin per mano delle forze malvagie del valar Melkor; protagonista del racconto è Tuor, figlio di Huor, una delle figure cardine della mitologia tolkieniana, scelto dal valar Ulmo per preannunciare agli elfi l'imminente catastrofe o l'alternativa, il combattere contro il male che si è annidato nella Terra di mezzo. Tuor finisce così coinvolto in vicende che saranno al centro della storia della Prima era della Terra di mezzo, generando Earendel, colui che diverrà custode di uno dei Silmaril e che incarnerà la luce della Stella del mattino; a rimarcare la centralità della vicenda è anche il legame di parentela tra Tuor e Turin, colui che nel sistema mitico di Tolkien è destinato a sconfiggere definitivamente Melkor alla fine dei tempi, quando si compirà la volonntà di Iluvatar.

Al di là della storia raccontata, il volume è interessante per l'appassionato lettore tolkieniano perché offre uno spaccato sulla genesi della mitologia dell'autore: come la figura di Tuor nasca ancora sul finire della Prima guerra mondiale e la sua vicenda si dipani e si allarghi, insieme a quella della città di Gondolin, in diverse  redazioni, completate, abbozzate o abbandonate, fino al 1951, quando l'autore desisterà dall'ultima redazione, quella che appare la più particolareggiata e la più ricca di conseguenze e riferimenti nel sistema mitologico in cui si inserisce.

Indubbiamente il fatto che la vicenda di Gondolin e quella, parallela, di Tuor siano narrate per intero solo nel Silmarillion e che tutte le altre redazioni siano da considerarsi come preparatorie, intermedie o incompiute è una delle grandi perdite a cui i lettori tolkieniani potranno sopperire solo parzialmente attraverso questo splendido libro, potendo solo immaginare come l'autore avrebbe potuto concludere la vicenda se avesse portato a compimento l'ultima redazione del racconto.

sabato 26 dicembre 2020

La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali, Alessandro Barbero

La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali è un libro di Alessandro Barbero recentemente riedito da Edizioni Effedi. Si tratta di una raccolta di fabliaux medievali circolanti in area francofona e, parzialmente, nord italiana e germanica, accomunati dalla trattazione di un tema solo apparentemente scabroso per l'idea comune del Medioevo cristiano, ovvero il sesso vissuto come sessualità aperta e spontanea. La scelta dei fabliaux da parte dell'autore si pone quindi uno scopo: quello di ribaltare, o quantomeno correggere, uno dei luoghi comuni tramandati sull'epoca che convenzionalmente separa l'antichità classica dalla modernità, ovvero l'idea che la cultura cristiana impedisse di concepire la sessualità in maniera diversa dal puro peccato, da censurare e controllare in ogni circostanza e occasione. La larga circolazione di questi testi, a sfondo popolare e popolano, dimostrerebbe anzi come il tema del sesso, della burla, l'ostentazione dei genitali e dei doppi sensi legati ad essi abbiano percorso i mille anni circa del Medioevo, mostrando uno spaccato della vita in Europa difficilmente percebile attraverso la letteratura alta. Leggendo i testi proposti da Barbero tornano in mente la lettura di Rosa fresca aulentissima fatta da Dario Fo nel suo Mistero buffo, nonché tanta parte del Decameron e della tradizione novellistica italiana, ma anche la poesia comico realistica. In ogni caso è merito di Barbero quello di portare al grande pubblico e senza censure testi che aprono uno spaccato su un'epoca che troppo spesso viene giudicata secondo pregiudizi che le sono posteriori e che sono funzionali semmai all'autodefinizione di epocche e popoli suuccessivi.

lunedì 21 dicembre 2020

Le supplici, Eschilo


J. W. Waterhouse, Le danaidi

Come per i sette contro Tebe, anche la tragedia de Le supplici risulta al lettore moderno tra le opere minori di Eschilo. La tragedia raccontata della fuga ad Argo delle figlie di Danao, costrette supplici per evitare l'orrido matrimonio con i figli di Egitto. Sarà proprio Danao a perorare la causa delle figlie di fronte alla cittadinanza di Argo che, in nome della giustizia, prenderà sotto la propria custodia le donne. Ad abbassare il valore della tragedia è il suo appartenere ad un ciclo di cui non possediamo le rimanenti opere, e così il finale rimane ambiguo, con il sopraggiungere delle navi di Egitto a reclamare le spose per i propri figli. La tragedia è quindi solo denunciata ma non realizzata in quest'opera, questo comporta per noi lettori e spettatori moderni impossibilità di cogliere se non per cenni come si realizzerà la vicenda e quale ne sarà il significato ambiguo nella tragicità delle donne, giuste e al contempo ingiuste nella fuga da un matrimonio legittimamente combinato. La vicenda storica di questa tragedia e quindi l'esatta rappresentazione di quanto abbiamo perso nel trapasso dall'età antica ai giorni nostri e di quanto poco sappiamo, o almeno possiamo leggere, della letteratura classica.

I sette a Tebe, Eschilo


G. Silvagni, Eteocle e Polinice

Rileggere l'opera Omnia di Eschilo dopo 2500 anni dalla sua stesura può risultare a tratti disarmante: è quello che succede per esempio leggendo tragedie come I sette contro Tebe o Le supplici, indubbiamente fra le opere di gusto e stile più arcaico fra quelle dell'autore. Nella prima di queste tragedie, opera legata al ciclo tebano (il cui eroe più conosciuto, per diversi motivi, è forse Edipo) assistiamo alla lotta tra i due fratelli, figli del personaggio che troverà grande successo nel ciclo sofocleo,cper il diritto al governo della città di Tebe, ereditato direttamente dal padre attraverso la sua maledizione. Difatti la tragedia di Edipo e prima ancora di suo padre si trasmette ai suoi figli che finiranno per uccidersi a vicenda in battaglia, lasciando solo alle sorelle il compito di piangerli mentre già si affaccia sul soglio del governo della città la figura di Creonte. In questa tragedia risulta chiaro come per Eschilo sia indiscutibile l'ereditarietà delle colpe all'interno della famiglia, questione che troverà una soluzione solamente nelle tragedie di Agamennone e Oreste. Lo stile ed il gusto, come dicevo, fanno di questa tragedia un'opera minore agli occhi del lettore o dello spettatore moderno, e tuttavia è innegabile la potenza dello spirito tragico che inebria i due protagonisti vicendevolmente convinti delle proprie ragioni, fino alla descrizione ultima della loro morte in battaglia.

domenica 25 ottobre 2020

La vergogna



Non si sconfigge una pandemia protestando perché non si vuole indossare una mascherina, e quella pantomima di libertà non è altro che il necrologio dell'intelligenza.

Ma non si sconfigge una pandemia demandando semplicemente alla responsabilità dei cittadini.

Non si sconfigge una pandemia senza programmazione. Invece la seconda ondata del Covid-19 pare coglierci di nuovo impreparati, evidenziando l'inettitudine di tutta la classe dirigente, quella che governa come quella che sta all'opposizione.

Non si può arrivare a questo punto senza, per esempio, aver rafforzato l'organico del sistema sanitario nazionale, senza aver raddoppiato, come promesso, i posti nelle terapie intensive, senza aver realizzato nuovi reparti e finanziato l'acquisto dei macchinari. Non si può arrivare a questo punto senza aver potenziato il sistema di tracciamento dei positivi, e anzi, come fanno le regioni, chiedendo di dismetterlo di fatto, eseguendo i tamponi solo sugli individui sintomatici. Non possiamo essere a questo punto senza che la medicina del territorio sia stata messa in sicurezza e resa capace di un vero e concreto primo intervento, anziché essere confusa da continue e contraddittorie direttive. Non possiamo essere arrivati a questo punto, il momento in cui di nuovo gli altri malati saranno messi da parte per far posto ai ricoveri per Covid-19, in una guerra tra poveri la cui colpa sta a monte, in chi doveva governare e in chi doveva vigilare (mentre invece invitava al liberi tutti).

Non è possibile che siamo arrivati a questo punto e, benché ogni evidenza rendesse palese questa necessità, senza che le scuole abbiano nell'estate approntato un serio protocollo per la didattica digitale integrata e non semplicemente dei pastrocchi burocratici; soprattutto non è possible essere qui e ora senza aver obbligato i docenti a formarsi in vista di una probabilissima nuova fase di Didattica a distanza. Invece abbiamo iniziato l'anno scolastico come se non fosse cambiato nulla, solo un po' più distanti e statici in aula, con le stesse programmazioni di sempre, gli stessi obiettivi, metodi e strumenti, come se nulla fosse accaduto. E anzi, di fronte alla realtà, alla necessità di tornare alla didattica digitale, a protestare perché la necessità lascia il re nudo, impreparato, sempre e comunque in stato emergenziale. Ma no, anziché prepararci per la nuova ondata di contagi, siamo andati dietro alla sterile polemica sui banchi e le rotelle. E il re nudo sono oggi i dirigenti scolastici che non hanno previsto e non hanno pensato alla formazione del proprio corpo docente, ma il re sono anche i docenti che si sono baloccati all'idea che la soluzione fosse un'improbabile paradigma della didattica in presenza senza se e senza ma.

Non è possibile non aver previsto un piano nazionale urgente per il mantenimento e il miglioramento della rete internet, a favore di chi dovrà operare in smart working come degli studenti.

Non è concepibile che le regioni non abbiano speso quanto ricevuto per potenziare il sistema dei trasporti pubblici locali e anzi abbiano trascorso l'estate nel tentativo di forzare la mano agli esperti sulla capienza degli autobus e dei treni, mettendo a repentaglio la vita dei lavoratori del settore e dei loro passeggeri.

Non è possibile essere arrivati alla seconda ondata così impreparati.

E non è possibile che si lasci pari spazio nella comunicazione pubblica a chi rende torbide le acque, a chi per ricerca di fama diffonde notizie false o imprecise sul contagio. In questo momento la voce dello Stato sul contagio deve essere una e una sola, pena la confusione e l'incredulità.

Ma non è possibile che tanta parte della popolazione si sia gongolata nell'idea che il virus cattivo non sarebbe tornato, non si sia premunita, non abbia programmato, non abbia cercato di innovare nel proprio lavoro, abbia lasciato tutto esattamente com'era prima del lockdown. Perché questo vuol dire non aver capito nulla, sperare sempre che tanto qualcuno risolverà i problemi per te, tanto qualcuno elargirà denari pubblici per coprire le mie mancanze. 

Di fronte a tanta strafottenza non c'è protesta che tenga: la colpa della situazione è di noi tutti, di chi governa ma lo fa sempre con i sondaggi sotto gli occhi, di chi dovrebbe essere opposizione ed invece è solo retorica e propaganda, di chi dovrebbe essere classe dirigente, di chi doveva essere l'intellighenzia e avrebbe dovuto preparare l'opinione pubblica; ma è colpa della stessa opinione pubblica, dal libero professionista dedito solo al suo orticello al dipendente salariato, passando per noi impiegati del settore pubblico. Tutti, ma proprio tutti, abbiamo guardato il nostro piccolo interesse momentaneo, abbiamo dimostrato di non aver capito nulla dai mesi passati.

Se era lecito essere impreparati a marzo, è esiziale esserlo ancora, ed è patologico esserlo per scelta.

domenica 18 ottobre 2020

Facciamo che la smettiamo di parlare di "buonsenso"?


Spesso e volentieri nella discussione pubblica, come in quelle private, ci capita di sentir dire che, alla fine dei conti, "basta un po' di buonsenso" o che "decidendo a buonsenso" si fa la scelta migliore. Ecco, in realtà questo schema mentale ha prodotto nel tempo numerosi danni, per cui, una volta per tutte dovremmo smetterla di appellarci al buonsenso per decidere. 

Certo, notoriamente Il buonsenso è annoverato fra i modi corretti per prendere una decisione, tuttavia è in primo luogo impossibile definire oggettivamente cosa sia il buonsenso e cosa non lo sia: per esempio è considerato buonsenso prendere ua decisione secondo il criterio del "giusto mezzo", il detto "in medio stat virtus" è fra i più noti e più accettati. Eppure in realtà non sempre questo criterio risulta corretto, infatti per esempio se consideriamo un estremo la democrazia e l'altro estremo la tirannide, è chiaro come in realtà il presunto giusto mezzo, una democrazia autoritaria, non possa essere la scelta migliore.

In realtà il buonsenso può far apparire credibili cose non vere: se osservo l'orizzonte dal mezzo della pianura, esso apparirà piatto, per cui facilmente potrei ritenere piatta la terra; se osservo l'oceano dalle coste della Francia non vedo le coste delle Americhe, a buonsenso potrei pensare che l'America non esiste; il buonsenso farebbe credere al bue che, dato che non è mai successo, non verrà portato proprio quel giorno al macello; il buonsenso mi dice, come crede Aristotele, che la pietra cade per terra perché quello è il suo luogo naturale.

Osservando gli esempi fatti ci accorgiamo quindi di qualcosa: il buonsenso è una forma di semplificazione estrema della conoscenza, ovvero una risposta ipersemplicistica a problemi complessi che non si vogliono o non si sanno riconoscere come tali. Infatti, la meccanica quantistica ci insegna che possiamo conoscere la realtà solo in termini probabilistici, e la stessa critica di Russell e Popper al pensiero induttivo ci insegna che anche il pensiero scientifico non è in grado di valutare tutte le variabili e può ragionare solo in termini probabilistici.

E allora, perché siamo portati a ragionare secondo questo schema? Perché il buonsenso è in genere una forma consolatoria e autoassolutoria per prendere decisioni, tendente al conservatorismo della condizione data. Secondo questo schema dato che il maschio è generalmente più forte e fisicamente superiore allora è giusto che domini la donna; era ed è il buonsenso che fa ritenere la borghesia più adatta a detenere il governo, infatti, secondo il criterio che stiamo esaminando, dato che già deteneva le redini del potere vuol dire che ne è più degna e che è più adatta a farlo rispetto ad altre classi sociali; il buonsenso faceva ritenere credibile agli occidentali del XIX secolo, accidentalmente più ricchi e potenti, di essere per lo stesso motivo più degni di essere più ricchi e potenti di qualsiasi altro popolo.

Stando a questa analisi, diventa assai discutibile adottare questo modello logico decisionale, anzi, risulta evidente come coloro che lo propongono siano in realtà pessimi decisori. La stessa eventualità in cui chi dovesse decidere secondo questo modello dovesse prendere una decisione corretta o fortunosa non dovrebbe stupire: come detto precedentemente, non è sempre possibile calcolare le infinite variabili che possono variare i termini probabilistici di un avvenimento e di una decisione, per cui, del tutto casualmente, anche chi decide a caso o secondo schemi fallaci può prendere apparentemente decisioni correte; può anche capitare che pur girando del tutto a vuoto alla fine mi ritrovi nella strada che stavo cercando; questo tuttavia non dimostra che il mio girare a vuoto sia il modo migliore per raggiungere la mia meta, o che sia un modo migliore di un'attenta disamina dell'itinerario che preceda il mio mettermi in moto.

mercoledì 14 ottobre 2020

Ma quindi, come sta andando a scuola?




Se volessimo partire dal titolo del post, dovremmo onestamente dire che non c'è una risposta unica e definitiva. Decliniamo quindi il ragionamento: occorrerebbe dire una volta per tutte che fare scuola nella scuola dell'infanzia non è la stessa cosa che fare scuola alla primaria, men che meno alla secondaria di primo grado o addirittura nella secondaria di secondo grado; per questa ragione, pensare di poter applicare le stesse regole in tutto l'enorme mondo della scuola pubblica ha poco senso.
Se guardiamo alla scuola dell'infanzia o della primaria, probabilmente potremmo dire che il ritorno alla scuola in presenza sta funzionando. C'è anche da dire che nella scuola dell'infanzia non è previsto distanziamento degli alunni, cosa che contribuisce a ridurre la sensazione di straniamento dei bambini e a dare una parvenza di normalità in una situazione oggettivamente anormale.  Rimane il fatto che per gli adulti, educatori e maestre che lavorano in queste scuole, la gestione dell'aula, soprattutto nel caso in cui gli alunni non possiedano o non abbiano portato con sé i materiali scolastici, a volte risulta difficoltosa. 
Tuttavia, sebbene la didattica in presenza per queste fasce di età sia praticamente l'unica prevista, va anche detto che, nel caso di impossibilità di frequenza da parte dei bambini, anche solo perché in attesa di tampone o in isolamento cautelare, non esiste nessuno strumento codificato per il coinvolgimento nelle attività: in soldoni, se l'alunno è a casa con la famiglia, e non per sua scelta  o scelta della famiglia, è lasciato da solo.
Nella scuola secondaria la situazione si complica: nel primo grado viene, ancora, previsto dalle scuole quasi esclusivamente il ricorso alla didattica in presenza; questa scelta nasce dal fatto che gli alunni di quest'età non sono ancora abbastanza autonomi per lavorare da remoto da casa, inoltre, essendo ancora nella scuola dell'obbligo, risulta particolarmente grave la difficoltà nel raggiungere a distanza gli alunni potenzialmente più fragili perché già vittima di digital divide o, più in generale, perché in condizioni socio-culturali precarie. Dall'altro lato però gli studenti della secodaria di primo grado sono a volte fruitori dei mezzi pubblici locali, per cui, potenzialmente più a rischio dei bambini più piccoli (che comunque potrebbero essere compagni di scuola in istituti comprensivi) e statisticamente più impegnati in attività extrascolastiche o in una vita sociale più attiva rispetto agli alunni della primaria. Insomma, alle medie, malgrado l'obbligo di distanziamento (spesso difficilmente perseguibile) e di mascherine in situazione statica (più un concetto astratto che la realtà dello svolgimento di una lezione) la situazione si complica e così le condizioni di pericolo aumentano.
Nella scuola secondaria di secondo grado le cose cambiano: molte scuole, soprattutto fra i licei, hanno scelto l'alternanza fra frequenza a distanza e  in presenza o lo smezzamento delle classi. Questa scelta si giusitifica con la maggiore autonomia degli studenti, le maggiori competenze informatiche e, nel caso degli alunni oltre i 16 anni, nel superamento dell'obbligo scolastico e quindi il venir meno degli obblighi della scuola in merito alla dispersione scolastica. C'è poi da dire che nell'esperienza dell'anno scolastico passato, è in quest'ordine scolastico che la didattica a distanza ha dato i migliori risultati, tanto è vero che è fra i docenti e gli studenti di  quest'ordine che è più diffusa la richiesta di un ritorno, totale o parziale, alla didattica a distanza. C'è poi da dire che gli alunni di queste scuole sono anche quelli potenzialmente più a rischio, sia perché di età più avanzata (numerosi studi dimostrano che l'incidenza del contagio da Covid sia molto superiore fra i ragazzi vicinoi ai 18 anni rispetto ai bambini) sia perché socialmente più attivi, e infine perché i maggiori fruitori dei mezzi pubblici locali e interprovinciali. Tuttavia nel caso di queste scuole rimangono diversi scogli che emergeranno durante l'anno scolastico: per le scuole professionali e tecniche la difficoltà di gestire l'accesso ai laboratori, spesso aule non abbastanza capienti per l'accesso di una intera classe in presenza; se si considera che in una giornata una classe può trascorrere in un laboratorio professionale anche quattro ore, decidere lo smezzamento della classe per la frequenza del laboratorio vuol dire o raddoppiare il numero di laboratori impegnati (spesso non disponibili nelle scuole) o impegnare in una giornata un singolo laboratorio esclusivamente per una classe. Entrambe le soluzioni, per gli istituti tecnici e professionali con molti iscritti sono situazioni che creano un cortocircuito nell'organizzazione scolastica difficilmente risolvibile. D'altro canto, il passaggio alla didattica a distanza esclude a priori la possibilità di svolgere le attività pratiche nei laboratori. Un secondo nodo che emergerà nel corso dell'anno sarà lo svolgimento dei PCTO, l'alternanza scuola lavoro, per cui scuole e aziende dovranno garantire lo svolgimento in condizioni di assocluta sicurezza per gli studenti, sempre sperando che improvvisse impennate dell'andamento dei contagi non ne impediscano lo svolgimento. Molte scuole si stanno attrezzando per far svolgere i PCTO prima possibile, ma questo ha delle conseguenze sulla didattica: se si considera che il primo mese di scuola è stato impiegato dalla gran parte dei docenti per riprendere, come da indicazioni ministeriali, quanto fatto l'anno scorso a distanza, e tenuto conto che molti alunni andranno in PCTO già dalla metà di ottobre o da novembre, in alcune classi i docenti si troveranno a poter concretamente svolgere il proprio programma da dicembre o addirittra da gennaio, situazione particolarmente grave per le classi terminali.
Rimanendo sulla didattica, occorre dire una cosa: è esperienza di molti insegnanti la sensazione di una didattica castrata. Al di là dei casi di Covid e delle chiusure improvvise, in classe spesso si lavora male. Dover avere sempre la testa a mantenere le distanze, l'insegnante che si può muovere solo intorno alla cattedra o, meglio, dovrebbe trascorrere tutte le sue ore seduto senza muoversi (infatti le ultime indicazioni delle aziende sanitarie prevedono sempre per il docente una distanza obbligatoria di due metri dagli studenti, per cui, un eventuale contagio del docente sarebbe una sua responsabilità dovuta ad un comportamento scorretto in classe); il dover evitare in ogni modo lo scambio di materiali con gli studenti (è vero che il CTS dice che non c'è problema negli scambi di materiali se ci si disinfetta le mani, ma le indicazioni burocratiche poi dicono altro), i quali non possono avvicinarsi alla lavagna, stare sempre sul chi va là sui sintomi degli alunni; la didattica digitale integrata con gli alunni a casa e i docenti a scuola con connessioni wifi scolastiche che non reggono il carico, audio incomprensibile, lavagne impossibili da leggere attraverso lo schermo, sono tutte condizioni per cui si può affermare che, allo stato attuale, spesso si fa male scuola. 
Mentre l'anno scorso è stata data ai docenti la possibilità di sperimentare medotologie e tecniche innovative nella didattica a causa di una circostanza che nessuno si sarebbe mai augurato e mai si augurerà di rivivere, quest'anno si ha l'impressione di tornare indietro alla scuola di 100 anni fa. Tra l'altro senza poter meglio aiutare gli alunni in difficoltà, date le condizioni dette in cui deve lavorare l'insegnante. 
In conclusione, non c'è un modo per tenere aperte le scuole che possa funzionare per tutti e in tutte le condizioni, e la gestione delle scuole risulta particolarmente complessa anche in ragione della retorica che ha accompagnato la riapertura delle scuole. La riapertura delle scuole come edifici scolastici (dato che gli insegnanti non hanno mai smesso di fare scuola, sebbene a distanza) ha portato a condizioni difficilmente gestibili. Si aggiunga il perdere tempo nel potenziare i trasporti pubblici da parte delle regioni e dei comuni, specie quelli governati dall'opposizione al governo nazionale, per capire come l'apertura degli edifici scolastici porti con sé problemi che non possono essere risolti con slogan populisti come "gli studenti vogliono stare a scuola" o "le scuole sono in sicurezza". In entrambi i casi si tratta di ipersemplificazioni che dicono solo una parte della verità e che ci raccontano un mondo che parla di scuola, ma che si occupa pocco e male del bene della scuola e di chi ci sta dentro nonché della reale funzione e del reale funzionamento dell'istituzione.

domenica 27 settembre 2020

La qualità a scuola non si misura con il merito anche perché il merito non esiste

 


Ciclicamente nel discorso sulla scuola torna in scena il mito del merito: in genere a tirarlo fuori sono i soliti volti noti, neoliberisti spinti, conservatori classisti, psicologi e filosofi da salotto televisivo. Il che, per inciso, permette per l'ennesima volta di osservare che il discorso "sulla scuola" non è mai un discorso "per la scuola" formulato da chi di scuola sa e chi la scuola fa: insegnanti, formatori, pedagogisti, o anche solo ricercatori che abbiano modo e tempo di formulare confronti struttturati tra diversi sistemi di istruzione e formazione nel rapporto con l'idea stessa di uomo e società che una o più culture sono in grado di formulare, ovvero sociologi e antropologi. E così, nel solito farci del male discutendo di idee nate fondamentalmente in altri ambiti e applicate a sproposito sulla scuola, ci troviamo incasellati e sulla difensiva. Nello specifico, di recente Galli Della Loggia sul Corriere ha lamentato, per l'ennesima volta, la scarsa qualità della scuola italiana, adducendo in particolare come motivazioni alla suddetta scarsa qualità la mancanza di valutazione del merito e, consequenzialmente, la mancanza di autorevolezza (ma meglio autorità) e di disciplina. A controprova della sua teoria Galli Della Loggia porta l'esempio tedesco, in cui, secondo lui, la maggiore autorevolezza della classe docente e della scuola in genere, dimostrata da una maggiore remunerazione, è sancita dall'inequivocabile influenza della scuola stessa sulle vite dei futuri cittadini, dato che già da tenera età sta ai docenti di quel sistema scolastico stabilire se i singoli studenti saranno destinati a studi liceali o di tipo tecnico-pratico. Tale scelta risulta quindi incontrovertibile e non sindacabile, e in ultima analisi fondata su una discriminante valutata assai precocemente: il merito. È quindi questo concetto che fonda il modello scolastico di Galli Della Loggia, e su questo concetto occorre discutere. Del resto, anche altri pensatori si fanno portavoce del "merito" a scuola, come Galimberti in alcune dichiarazioni che regolarmente ritornano in circolo nell'opinione pubblica, per cui, è di questo che occorre ragionare.

Partiamo subito dalla tesi, e tagliamo la testa al toro: la valutazione del merito è di per sé pressoché impossibile e plausibilmente inutile

Intanto chiariamo i termini della questione: il concetto di merito come lo intendiamo noi ha un'origine neoliberista e fondamentalmente conservativa, tende a confermare le differenze sociali anziché ridurle. Sostanzialmente si tratta di stabilire se gli studenti, avendo definito dei risultati da raggiungere alla fine di un percorso, avendo somministrato a tutti lo stesso modello di formazione, sono giunti al traguardo; la valutazione del raggiungimento del suddetto traguardo avverrà attraverso prove il più possibile oggettive e standardizzate e da questa valutazione seguirà premialità (promozioni, valore superiore o inferiore del titolo acquisito, borse di studio...) o una forma di punizione (bocciature...). Fino a qui si tratta quindi di una formulazione estremamente lineare e apparentemente condivisibile: il problema è che si tratta di una teoria della valutazione ECCESSIVAMENTE lineare e semplicistica, ovvero, il più classico dei casi di soluzione semplice a problemi complessi.

Chi sa di valutazione infatti può confermare come sia impossibile valutare il merito per almeno due ordini di fattori: il primo è il valutatore e la sua soggettività, ovvero chi stabilisce i criteri con cui si valuta il merito e perché. Pensando per esempio proprio a Galli Della Loggia come docente di Storia all'università, non sarà difficile pensare che fatti e teorie sociali, politiche ed economiche la cui conoscenza avrà ritenuto fondamentale per poter superare un esame che lo vedesse come esaminatore non siano state ritenute altrettanto importanti o interessanti, non dico da un docente che si trovi a vivere in Giappone, ma da un collega che abbia insegnato nella sua stessa facoltà. Si dirà, si devono raggiungere standard condivisi: comunque l'atto stesso della scelta degli standard condivisi presuppone una VALUTAZIONE e, come già detto, si tratta comunque di un momento in qualche misura arbitrario, per cui chi valuta deve essere a conoscenza che, in qualsiasi caso, l'atto della valutazione non può partire da presupposti oggettivi che appartengano al valutatre in sé. Poi, chi valuta sa o dovrebbe sapere che esistono delle distorsioni valutative a cui il valutatore può essere soggetto che si possono affrontare e limitare ma che è molto, molto difficile evitare del tutto; anche per queste cause è impossibile produrre valutazioni del tutto oggettive. 

In secondo luogo chi parla di merito, come spesso inteso, scambia l'atto della misurazione con quello della valutazione (la misurazione è uno degli strumenti della valutazione, ma non è valutazione); in particolare il problema della valutazione del merito è che per sussistere davvero dovrebbe tenere in conto delle condizioni sociali di partenza del valutato, e perciò il valutatore dovrebbe essere in grado di distinguere tra uguaglianza (legale), principio molto amato dai neoliberisti, ed equità. In soldoni: ho due torri di blocchi di lego di altezza diversa, una di 4 blocchi e l'altra di 2; ad entrambe le torri aggiungo 3 blocchi di lego, ovvero somministro la stessa formazione, poi misuro i risultati; il divario tra le due torri non sarà stato recuperato, per cui, all'apparenza, la torre in partenza più alta continuerà ad essere la migliore (meriterà di più); successivamente, nell'elargizione delle premialità la torre rimasta più alta sarà premiata per i suoi risultati, magari con un blocchetto in più, la seconda non riceverà premialità o addirittura, se non avrà raggiunto risultati "attesi", verrà punita (bocciatura, perdita delle borse di studio, perdita dei fondi...). Il risultato finale del processo è che il merito anziché aiutare chi abbisogna di più aiuto lo fa regredire nella sua condizione.  


Chi parla di merito asserisce che la scuola abbia abbassato i propri obiettivi formativi ed educativi, non solo non mirando all'equità, ma neanche all'eguaglianza. In sostanza, per i ciritici della scuola, anziché ripianare la differenza fra le due torri dell'esempio precedente, oggi la scuola toglie alla torre più alta portandola all'altezza di quella più bassa. Riprova ne sarebbero i risultati degli studenti italiani nelle prove standardizzate internazionali e l'analfabetismo funzionale. Tuttavia si può affermare che gli obiettivi della scuola sono cambiati di ordine e profondità: fino agli anni 90 la scuola era pressoché esclusivamente contenutistica e fortemente classista, mentre oggi cerca di formare competenze in maniera interclassista. Inoltre il dato sull'analfabesimo funzionale si misura sugli adulti, ovvero coloro che vengono dalla scuola "che funzionava", ed è sui frutti di quella scuola lì che abbiamo il dato di analfabetismo funzionale fra i più alti d'Europa. Al contrario della vulgata poi, i dati sugli esiti della scuola, per intenderci i risultati OCSE PISA, non registrano peggioramenti nelle competenze di base dei nostri studenti da che partecipiamo a quelle misurazioni, semmai denotano che non riusciamo a migliorare malgrado gli sforzi. Ma ritornare alla scuola "del merito", per i motivi già detti, non porterebbe a miglioramenti, anzi.

In ultima istanza, quali sono le conseguenze pratiche a scuola della confusione sul merito? Una è stata quella a cui abbiamo assistito alla fine dell'anno scolastico appena trascorso, condotto in larga parte in maniera emergenziale: gli insegnanti e i funzionari del "merito" erano riconoscibilissimi, erano quelli che pressavano per poter dare l'insufficienza al ragazzino che non aveva seguito le lezioni perché non aveva connessione internet a casa...

mercoledì 26 agosto 2020

L'Orestea, Eschilo

Eschilo, ORESTEA (testo greco a fronte) - Bur 1988 | eBay


L'Orestea è il ciclo di tragedie che narrano la vicenda di Agamennone e dei suoi figli. Agamennone, come narrato nella tragedia omonima, viene assassinato dalla moglie Clitennestra e dall'amante di lei, Egisto. L'eroe, di ritorno da Troia, si presenta a casa con il bottino di guerra, Cassandra, la veggente maledetta figlia di Priamo. È a quest'ultima che spetta il compito di rivelare al coro quanto accade nella casa; Clitennestra compie la sua vendetta sul marito, colpevole di aver sacrificato la figlia Ifigenia per ottenere i venti propizi alla partenza della spedizione contro la città di Ilio. La posizione di Clitennestra non appare quindi priva di ragioni, e anzi la donna rivendica il diritto ad ottenere vendetta per un empio sacrificio e per l'umiliazione subita da parte di Agamennone portando con sé un'altra donna. Molto più piatte sono le figure dell'eroe argivo e della sua nemesi, Egisto, schiacciati nel retaggio di una maledizione familiare più grande di loro.  Certo, Agamennone ha sviluppato una modestia che non aveva alla partenza della spedizione, ma questa saggezza acquisita non gli sarà sufficiente per impedire il compiersi degli eventi.

Nella seconda tragedia, le Coefore, compaiono in scena i figli di Agamennone, Elettra ed Oreste. La prima medita la punizione della madre mentre il secondo vaga in esilio. Incontratisi e riconosciutisi sulla tomba del padre, i due organizzano la trappola che porterà all'esito fatale per Clitennestra ed Egisto. Introdottosi in casa insieme all'amico Pilade, Oreste ucciderà prima l'amante della madre, poi la madre stessa. Se già nel dialogo con Elettra era apparso chiaro come i due figli fossero esclusivamente i portatori del punto di vista paterno, nel dialogo tra madre e figlio emerge il contrasto tra l'aspirazione di Clitennestra alla difesa del proprio onore e della propria visione materna della famiglia da un lato, e dall'altro invece la tradizione paternalistica di cui Oreste è portavoce: tradizione dal cui campo visivo esce il sacrificio della sorella Ifigenia.

Nella terza tragedia, le Eumenidi, Eschilo conclude la vicenda: le Erinni, divinità ctornie che puniscono i delitti di sangue, sono comparse in scena per perseguitare Oreste, reo dell'uccisione della madre; ma a difesa dell'eroe si pone il dio Apollo, che sottopone ad Atena il giudizio sulla legittimità delle azioni del proprio protetto. Atena convoca così il primo tribunale dell'Aeropago che, sentite le Erinni ed Apollo, sancisce la giustezza delle azioni di Oreste, facendo quindi prevalere la linea di discendenza paterna su quella materna. Nel contempo si estingue con Oreste la maledizione degli Atridi.

L'Orestea è quindi tante cose: la celebrazione dell'Atene democratica che, con le sue assemblee, il  suo diritto e i suoi tribunali, è in grado di dare soluzione alla maledizione degli Atridi; è anche la sanzione della vittoria della società patriarcale su quella matriarcale; è anche, forse inconsapevolmente, l'elogio della sofistica e della retorica, nella misura in cui il ragionamento che porta alla vittoria il giudizio di Oreste è capzioso, fondato sul mito e indimostrabile. Con questo ciclo di tragedie Eschilo tocca il culmine della sua arte e fornisce una chiae di lettura aperta e problematica nell'analizi della civiltà greca del V secolo a. C..

venerdì 14 agosto 2020

Rileggere Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, ora


Rileggere Sostiene Pereira nel 2020, a quasi trent'anni dalla sua pubblicazione, può risultare quasi anacronistico rispetto ai ritmi del consumo letterario contemporaneo. Eppure il romanzo, uno dei veri classici della nostra letteratura recente, mantiene una sua attualità nella misura in cui la narrazione di Tabucchi, anche nell'affrontare un tema storico spinoso come quello del sorgere delle dittature nazionaliste nell'Europa degli ani Trenta, ha la capacità di spaziare su più piani, stilistici, tematici, culturali.

Il continuo refrain del "sostiene Pereira", che fornisce anche il titolo al romanzo, è il primo fra questi elementi, se non il più evidente. Scritto in pieno Postmondernismo, Sostiene Pereira deve fare i conti conn la frantumazione della realtà, la perdità dell'oggettività: e così, di fronte a fatti che appaiono infinitamente più grandi e complessi rispetto al protagonista, un giornalista in pensione e ormai lontano dalla conoscenza della realtà che lo circonda, non è possibile conoscere oggettivamente il reale; e tuttavia qualcosa rimane, l'autorevolezza di una fonte, Pereira, che anche di fronte alla morte, il convitato di pietra che aleggia sempre fra le pagine del romanzo, persino quando crede di essere in balia degli eventi, cerca di mantenere una superiore lucidità.

C'è la letteratura e soprattutto il discorso sulla letteratura, in Sostiene Pereira: sull'attualità della letteratura come arte, sul riuso nel tempo degli autori, e sul bisogno di una letteratura che sia d''impegno, che si batta per il mantenimento della civiltà, che non tema di alzare la voce di fronte alle storture, che sia coraggiosa. Da questo il confronto contiuo e costante nel romanzo tra una letteratura, quella francese, avvertita come coraggiosa e capace di lottare, e quella portoghese, o meglio, quella che la dittatura portoghese vuole patrocinare, celebrativa di un passato glorioso e volta esclusivamente al culto nazionalistico e razzista.  Ci sono poi i giudizi sferzanti, come quello della ricorrenza su D'Annunzio:

Esattamente cinque mesi fa, alle otto di sera del primo marzo 1938, moriva Gabriele D'Annunzio. In quel momento questo giornale non aveva ancora la sua pagina culturale, ma oggi ci sembra venuto il momento di parlare di lui. Fu un grande poeta Gabriele D'Annunzio, il cui vero nome per inciso era Rapagnetta? È difficile dirlo, perché le sue opere sono ancora troppo fresche per noi che siamo suoi contemporanei. Forse converrà piuttosto parlare della sua figura di uomo che si mescola con la figura dell’artista. Innanzitutto fu un vate. Amò il lusso, la mondanità, la magniloquenza, l'azione. Fu un grande decadente, dissolutore delle regole morali, amante della morbosità e dell'erotismo. Dal filosofo tedesco Nietzsche desunse il mito del superuomo ma lo ridusse a una visione della volontà di potenza di ideali estetizzanti destinati a comporre il caleidoscopio colorato di una vita inimitabile. Fu interventista nella grande guerra, convinto nemico della pace fra i popoli. Visse imprese bellicose e provocatorie come il volo su Vienna, nel 1918, quando lanciò manifestini italiani sulla città. Dopo la guerra organizzò un'occupazione della città di Fiume, dalla quale fu successivamente sloggiato dalle truppe italiane. Ritiratesi a Gardone, in una villa da lui chiamata Vittoriale degli Italiani, vi condusse una vita dissoluta e decadente, segnata da amori futili e da avventure erotiche. Guardò con favore al fascismo e alle imprese belliche. Fernando Pessoa lo aveva soprannominato 'assolo di trombone', e forse non aveva tutti i torti. La voce che di lui ci giunge non è infatti il suono di un delicato violino, ma la voce tuonante di uno strumento a fiato, di una tromba squillante e prepotente. Una vita non esemplare, un poeta altisonante, un uomo pieno di ombre e di compromessi. Una figura da non imitare, ed è per questo che lo ricordiamo. 

È qui evidente come per Tabucchi non possa esistere una letteratura che si ritiri sulla torre d'avorio dell'estetica, ma che la letteratura sia sempre e comunque anche impegno, e che l'impegno non possa prescindere dall'essere impegno politico.

Sostiene Pereira è anche un romanzo sull'incomunicabilità, si pensi a tutto quello che la nostra fonte, lo stesso Pereira, si astiene di raccontarci perché, a suo avviso, non attinente e non utile (strumento stilistico per acquisire autorevolezza attraverso l'omissione). Ma, come si diceva, Sostiene Pereira è anche un romazo sulla morte e sul ricordo, sul passato che può divenire prigione e che può rendere un uomo un morto che cammina, e di come l'unico antidoto per questa morte in vita sia l'abbracciare la vita, certo in un modo vitalistico che, alla lontana, ricorda il vitalismo degli anni Venti del Novecento, ma soprattutto un abbracciare la vita come darsi agli altri e al proprio tempo.

Sostiene Pereira oggi ci ricorda come i fumi del nazionalismo spesso nascondano i lacci dell'oppressione; ci ricorda come senza una libera informazione, un'informazione di qualità che non sia sporcata e infangata dagli interessi più biechi, non esista vivere civile. Ma Sostiene Pereira ci ricorda anche come vita e morte si intreccino, come ciascuno di noi sia depositario di un piccolo brandello di verità e che solo nel vivere con gli altri questa vverità si depositi e possa crescere; soprattutto, Sostiene Pereira ci insegna ad avere coraggio e a non vivere schiavi del passato.

lunedì 27 luglio 2020

Utopie, distopie, eterotopie e nonluoghi tra filosofia, architettura e letteratura.


Nella percezione del territorio spazio e tempo spesso si intrecciano, così come il luogo geografico sovente si mescola o si contrappone al luogo astratto. Nelle diverse combinazioni della nostra sensorialità e della nostra capacità di astrazione, siamo stati fino ad ora capaci di definire diverse forme di luoghi fisici o irreali. Nell'antichità era per esempio possibile ambientare una visione o un'opera letteraria in locus amoenus, un luogo, reale o immaginario, comunque caratterizzato per la propria irresistibile grazia e piacevolezza: al riguardo si pensi per esempio ai paesaggi di Teocrito o alle Bucoliche di Virgilio per avere un'idea del genere di paesaggio immaginato e definito da questa categoria.
Tuttavia, più entra in gioco la percezione dello spazio e del tempo, più il rapporto con il luogo fisico può divenire metaforico o analogico: entrano così in scena nuove categorie. La prima, senza dubbio, anche da un punto di vista cronologico, è quella dell'utopia. La parola compare nel Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia di Tommaso Moro (1516) ad indicare un luogo immaginario capace di un'organizzazione sociale, politica, religiosa, culturale talmente progredita e concorde da risultare altamente desiderabile nonché difficilmente raggiungibile. Il problema del concetto di utopia, a ragionarci bene, è che ciò che può essere altamente desiderabile e difficilmente realizzabile per un pensatore o per un autore può essere anche quanto di più detestabile per un altro, e costituire quindi il paesaggio di una distopia. Sia che si consideri comunque quel luogo immaginario come desiderabile o esecrabile, quel luogo, nel tempo, non è, o meglio, non è ancora o non è più: infatti quasi mai nelle formulazioni delle utopie e delle distopie i luoghi sono immaginati come esistenti ora; sono semmai prossimi o remoti; comunque il rapporto che istituiscono con il reale è metaforico: sono termini di paragone di ciò che non è ancora o non è più e dovrebbe o non dovrebbe essere nel futuro. In particolare, quando l'utopia è ambientata nel passato, assume il nome di retrotopia. Se guardiamo quindi a queste categorie, ci accorgiamo che un primo esempio di utopia/distopia risale già alla formulazione filosofica della Grecia classica, alla Repubblica immaginata da Platone. Sotto certi aspetti, ancora prima, la Costituzione ateniese pseudosenofontea e l'Epitaffio di Pericle riportato da Tucidide nelle sue Storie nella loro descrizione della società e della politica ateniese costituiscono esempi di costruzione di un'utopia o di una distopia, a seconda ovviamente del punto di vista che si adootta. In tempi moderni il romanzo distopico ha preso largamente il sopravvento sulle visioni utopiche: 1984 di Orwell, Il signore delle mosche di Golding, Fahrenheit 451 di Bradbury, finanche 1Q84 di Murakami, sono esempi eccellenti di visioni distopiche della realtà.
Accanto alla visione metaforica, tuttavia, esiste un rapporto analogico con la realtà: in questo caso, a partire dal 1967, con Foucault parliamo di eterotopie. Un'eterotopia è un luogo esistente, in genere un luogo connotato per la sua funzione culturale, sociale, istituzionale, che ha però con la realtà che lo circonda in qualche modo un rapporto disturbante, quasi quello di uno specchio deformante, capace di mettere in luce le contraddizioni della realtà mentre tuttavia mantiene una funzione reale e spesso molto importante. Sono perciò eterotopie per esempio le scuole, gli ospedali, le carceri, i cimiteri: luoghi che mantengono l'organizzazione talvolta anche rigidamente gerarchizzata della società che li realizza e che necessità delle loro funzioni basilari, pur non avendone effettivamente necessità o che al contrario destabilizzano quei rapporti altrimenti considerati incondizionatamente sacri e inviolabili, mostrandone l'inconsistenza. Un esempio di eterotopia è quindi per esempio il nosocomio/manicomio de La giornata dello scrutatore di Italo Calvino: un luogo in cui, mentre si adempiono le funzioni ritenute fondamentali dalla società che sta fuori dall'edificio, in special modo il rito collettivo del voto, se ne mettono in luce le contraddizioni di fronte alla sofferenza o anche solo alla vita pressoché annullata di molti degli ospiti dell'ospedale/ospizio. Sebbene il concetto di eterotopia nasca nell'ambito della scienza e della filosofia dell'architettura e dell'urbanistica, esso quindi travalica quel settore degli studi per penetrare a suo modo nella letteratura mondiale: a loro modo per esempio possono essere considerate eterotopie La biblioteca di Babele di Borges e Le città invisibili (e la mappa commissionata da Kubilai Khan) di Calvino. Al confine tra utopia, distopia ed eterotopia si pongono L'Ohio e la città di East Corinth de La scopa del sistema, di D. F. Wallace. Tuttavia, è nel genere cyberpunk che l'eterotopia diviene particolarmente funzionale alla rappresentazione della realtà descrivendo la deflagratoria contraddizione fra luoghi fisici che mostrano modelli di ordine e organizzazione, come le sedi di grandi istituzioni quali le multinazionali, e il caos circostante (Dick, Ricordiamo per voi o Ma gli androidi sognano pecore elettriche?). Sempre nel genere l'eterotpia per eccellenza diviene la rete internet, luogo fisico in cui però i rapporti gerarchici e gli stessi ordinamenti sociali possono annullarsi, fino alla cancellazione e alla creazione ex novo di identità, generi sessuali, religioni e ordinamenti (Gibson, Neuromante, per citarne uno). Tuttavia, ancor più potente è l'uso dell'eterotopia nelle opere fumettistiche e cinematografiche legate a questo genere: Akira di Otomo, Ghost in the shell di Masamune Shirow o anche Atto di forza, di Verhoeven, ispirato al già citato Ricordiamo per voi di Dick, e Robocop, sempre di Verhoeven, in cui distopia ed eterotopia convergono, attraverso la potenza dell'immagine mettono in scena la contraddittorietà delle eterotopie: nei primi due casi tra l'altro sottintendendo sempre un doppio rapporto tra le contraddizioni della società gerarchizzata e caotica dell'uomo, e l'alterità della natura, specchio deformante delle scene più forti ambientate a Neo Tokyo nel primo caso, in una immaginaria New Port City, largamente ispirata ad Hong Kong nel secondo caso; nei film di Verhoeven è invece il tono sempre sopra le righe della recitazione e dell'immaginazione stessa, assieme alle scenografie, a costruire la contraddizione delle eterotopie.
Più di recente, legata alle concezioni relativizzanti del postmodernismo, nasce la definizione di nonluogo, coniata dall'antropologo Marc Augé nel 1992. Anche in questo caso, tra nonluogo e realtà si istituisce un rapporto analogico: un nonluogo è un luogo fisico realmente esistente che, per la sua stessa funzione, è assolutamente spersonalizzante (senza dare a questo aggettivo un'accezione per forza negativa) e deidentitario. Sono nonluoghi tutti quegli edifici che pur in territori e all'interno di comunità e culture profondamente diverse sorgono con pressoché le stesse forme architettoniche e funzioni, specie se di transito (o transazione) e di svago. Sono quindi nonluoghi i centri commerciali, le stazioni, gli aeroporti, ma anche ascensori, centri di accoglienza e campi profughi, in cui le relazioni fra utenti sono minime o inesistenti e in cui il sentimento identitario per questo si annulla. È per esempio ambientato in un nonluogo Novecento di Baricco, ma ancor meglio troviamo la descrizione letteraria di un nonluogo in un'altra splendida opera di Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più.
In conclusione possiamo affermare che il rapporto che l'uomo istituisce con lo spazio e con il tempo ha spesso poco a che fare con la quantificabilità del reale, più spesso è attinente alla percezione dello spazio e del tempo nelle loro relazioni e funzioni. Questa percezione ha sempre la forma della figura di significato: è un confronto che può avvenire come metafora o come analogia; nel primo caso il luogo percepito è metafora di ciò non è o non è più e che si vorrebbe o non si vorrebbe che fosse; nel secondo caso il luogo percepito è in rapporto analogico con l'altro, ma questo rapporto è sovente deformante e disturbante, oppure è un rapporto che si fonda sulla perdita e la scomparsa di tratti non utili, come quelli identitari, o della stessa possibilità di relazione.

Prometeo incatenato, Eschilo

Dirck van Baburen - Prometheus Being Chained by Vulcan Rijksmuseum SK-A-1606
Dirck van Baburen / Public domain

Il Prometeo incatenato è la prima tragedia di un ciclo di tre, messo in scena probabilmente nel 460 a. C.. Delle tre tragedie a noi è pervenuta solo la prima, quella che dà avvio alle vicende. Prometeo, uno dei titani, dopo aver appoggiato gli dei dell'Olimpo nella titanomachia contro la sua stessa specie, viene ugualmente imprigionato da Zeus perché reo di aver violato una sua disposizione, rubando il fuoco e donandolo agli uomini. Da questa vicenda, che viene solo riepilogata nell'opera tetrale, parte la narrazione, con il titano che in Scizia viene imprigionato e legato ad un monte dal dio Efesto, seppure a malincuore. Giungono a consolarlo Oceano, un altro titano, e le sue figlie, le oceanine, che compatiscono il protagonista dell'opera. Giunge poi Io, anche lei in preda alle sofferenze della fuga dalla propria terra, dovuta all'amore impetuoso da parte dello stesso Zeus. Io chiede a Prometeo, "colui che vede avanti", di predirle il futuro, ma Prometeo è titubante, conscio delle sofferenze che attendono la donna. È proprio questa capacità di Prometeo, il suo poter conoscere il futuro, a tenere in scacco Zeus: Prometeo sa chi potrà sconfiggere Zeus, ed è per questo che il signore dell'Olimpo invia il suo messo Ermes per estorcere dall'incatenato la sua predizione. Al rifiuto del protagonista, si apre  un profondo burrone, verso cui egli verrà gettato incatenato.
Prometeo è, come altri protagonisti delle tragedie greche, colui che sfida la tirannide, consapevole che sarà destinato alla sofferenza, ma che ugualmente agisce perché giusta e degna l'azione. Prometeo è l'eroe del progresso: dona agli uomini il fuoco perché non accetta che Zeus li voglia tenere allo stato ferino, e per questo suscita nello spettatore simpatia. In questo senso Zeus e gli dei dell'Olimpo appaiono invece come la rappresentazione del potere opprimente (e infatti Potere e Forza accompagnano e sorvegliano Efesto nel suo compito, incatenare Prometeo, proprio mentre il dio storpio prova simpatia per la sua vittima). Tuttavia Prometeo è destinato alla sconfitta, perché, sebbene possa conoscere il futuro, sfida un volere imperscrutabile, quello di cui gli stessi dei dell'Olimpo non sono altro che esecutori. In questo sta la contraddizione tragica di Prometeo: come Zeus è lo strumento della realizzazione di un fato che sovrasta tutti, dei e titani, e così, nella sua sfida a Zeus, è allo stesso tempo umanamente simpatico e divinamente colpevole di hybris.

venerdì 17 luglio 2020

I Persiani di Eschilo - il vincitore e la simpatia per i vinti

I Persiani - Eschilo - Feltrinelli Editore

I Persiani, di Eschilo, è la  più antica opera teatrale che conosciamo. Non ne conosciamo bene la genesi, né sappiamo in che modo e se fosse collegata in una trilogia; il tema dominante dell'opera sta nella storia recente della città di Atene e dei suoi ben più potenti viicini Persiani, ovvero l'incredibile vittoria greca nella Seconda guerra persiana, in particolare il clamoroso successo dell'intuito ateniese nella battaglia marittima di Salamina. Preannunciato da un inquietante sogno della regina Atossa, giunge il nunzio che porta la notizia della sconfitta persiana, con una dettagliata disamina dell'andamento della battaglia e con l'elenco delle importanti perdite fra i Persiani. Tuttavia ciò che più sconvolge la regina madre è l'idea del Grande re Serse ricoperto da vestiti in brandelli e sporco del sangue dei propri compagni caduti, da solo, in fuga verso la madre patria. Appare quindi lo spettro del padre di Serse, Dario, che spiega al coro le ragioni della sconfitta: è stata la tracotanza di Serse a causare il disastro, avendo questi addirittura osato incatenare il mare con il suo famigerato ponte di navi sul Bosforo pur di far passare il suo immane esercito da un continente, l'Asia, ad un altro, l'Europa, sfidando così la stessa volontà divina. La tragedia così si conclude con il ritorno di Serse, lacero nelle sue vesti, che si unisce nel pianto al coro.
Già solo alla lettura della trama risulta evidente come il tema della tragedia sia l'inevitabile sconfitta di chi oserà tentare di sfidare gli dei, nel caso specifico cercando di unire e dominare, due continenti, che gli dei hanno voluto divisi e diversi. Ma se il tema è questo, un altro dato appare chiaro approcciando il testo: Eschilo, pur riconoscendo la colpa di Serse, non può non guardare alla disfatta dei Persiani non provando pietà per la loro sofferenza. La focalizzazione dell'opera è sempre sul punto di vista persiano, sono i persiani a piangere i propri caduti, a riconoscere la grandezza dei propri avversari, ad attendere trepidanti notizie sul proprio re, a disperarsi per la potenza disfatta. Emerge così in Eschilo una capacità di compartecipazione alle disgrazie altrui assolutamente unica e inedita nella letteratura mondiale: l'autore prova pietà per la sciagura di coloro che solo otto anni  prima della messa in scena della tragedia avevano tentato di invadere la Grecia. Eschilo non è un traditore, anzi, avendo egli stesso combattutto i Persiani a Maratona diciotto anni prima, e nondimeno non può non sapere che alla vittoria degli uni, al giubilo, corrispondono pena, disgrazia e sofferneze per gli altri; Eschilo sa che solo il fato può stabilire la ripartizione delle pene e delle gioie, e che nella condizione dei Persiani avrebbero potuto trovarsi gli Ateniesi, o potranno trovarvisi un giorno. In questa simpatia, ovvero compartecipazione alla sofferenza, che Eschilo mostra verso i propri avversari stanno tutta la grandezza e l'unicità dell'opera, capaci di trascendere le incertezze e gli arcaismi dei primi tentativi della tragedia greca.

Love, una serie da ripescare su Netflix




Love è una serie TV scritta e diretta da Judd Apatow, Lesley Arfin e Paul Rust per Netflix, andata in onda per la prima volta nel febbraio 2016. Fra gli attori spiccano i due protagonisti, Paul Rust e Gillian Jacobs. La serie, terminata con la terza stagione disponibile dal 2018, racconta di come Gus Cruikshank (Rust), un insegnante per attori minorenni che lavora negli studi televisivi, e Mickey Dobbs (Jacobs), una produttrice radiofonica, si incontrino e si innamorino. I due protagonisti vengono entrambi da storie fallimentari: Gus mollato dalla propria fidanzata poco prima del matrimonio, scoprendo di essere da lei disprezzato per i suoi modi gentili e per la sua apparente indecisione, e Mickey costretta a fare i conti con le sue dipendenze patologiche dal sesso e dall'alcool. Attraverso le tre stagioni vediamo così lo  svilupparsi dei caratteri delle due colonne portanti della narrazione, se in un primo tempo Gus sembra essere l'anello forte della catena, quello razionale e in grado di sorreggere la compagna nell'affrontare le proprie debolezze, sempre di più nella seconda e nella terza stagione assistiamo all'inversione delle parti: Mickey, raggiunta la stabilità emotiva e iniziato un percorso di disintossicazione diviene in grado di raggiungere anche il successo lavorativo, mentre Gus sembra non riuscire ad emergere, fallendo l'occasione di divenire uno sceneggiatore professionista. Così, nella terza stagione, passando attraverso una crisi che sembrerà preludere alla fine della coppia, Gus si troverà finalmente ad affrontare i propri limiti, l'incapacità di controllare le proprie emozioni e i propri scatti umorali, e con l'aiuto della fidanzata, otterrà finalmente il tanto agognato impiego da sceneggiatore. Si giungerà così al lieto fine: i due protagonisti, sempre sul punto di esplodere come coppia, decidono di sposarsi con accanto a loro soltanto gli amici più intimi.
Love infatti non è solo una storia d'amore, comica a tratti, spesso surreale, il più delle volte spassosa, ma anche una storia di amicizie, come quella tra Mickey e Bartie Bauer, la coinnquilina interpretata da  Claudia O'Doherty, o quella tra Gus, Chris Czajkowski (interpretato da Chris Witaske) e Randy Monahan (Mike Mitchell), gli ultimi due intenti a contendersi l'amore e, soprattutto, l'affetto e la stima di Bartie. E Love è unna storia di spiantati in cerca di gloria, di trentenni che hanno lasciato la famiglia in cerca di un sogno, spesso nel cinema, nelle TV o nelle radio, per finire a fare i camerieri, gli insegnanti, o dormire nella propria auto: eppure continuare a crederci.
Soprattutto, però, Love è una dolcissima storia d'amore, dicevamo: come spesso accade a questo tipo di narrazioni, a volte può risultare fin troppo sdolcinata, ma nella gran parte dei casi la serie riesce a dipanarsi attraverso un racconto molto concreto dello sviluppo di una relazione, le paure, i difetti dell'altro difficili da accettare, il passato che non si può cancellare ma si può provare a superare assieme.
Insomma, una serie a cui dare sicuramente più di una possibilità. 

sabato 13 giugno 2020

E a noi cosa rimarrà della Didattica a distanza?

Free #Printable I Love My Dad Greeting #Card #FathersDay (With ...



Lo dico subito: se siete tra quelli che "la DAD non è scuola" lasciate perdere questo post. Tanto non ne condividereste nulla, non ci giriamo intorno. Se siete tra quelli che pensano che la DAD (o Didattica a distanza) abbia avuto più demeriti che meriti, potreste provare a leggere e, magari, accorgervi che alcune cose che avete attribuito a questa pratica, con questa pratica c'entrano relativamente. Se siete, infine, tra i fanatici della DAD, lasciate perdere questo articolo, non ne avete bisogno perché tanto non ammettereste che alcune cose sono andate male o si possono fare meglio.
Seconda premessa: questo post prende a piene mani ispirazione da un articolo apparso su Teachers on fire.

Allora, riassumendo, cosa rimane di buono della DAD? Per molti nulla, l'abbiamo detto. Indubbiamente tre mesi di Didattica a distanza hanno fatto emergere limiti e problematiche di questa pratica, ma questi problemi rischiano di offuscare e far sparire quanto di buono è stato fatto o hanno fatto esprimere. Per esempio-

  •  Le diseguaglianze sociali
Al contrario di quanto afferma la narrazione comune, la Didattica a distanza non ha incrementato le diseguaglianze sociali, semmai le ha fatte emergere. In classe, dietro un banco, i nostri alunni da bravi piccoli soldatini ci appaiono tutti uguali e nelle stesse condizioni; talvolta ci accorgiamo che non è così perché l'alunno è problematico, o la famiglia ci comunica che fa fatica ad acquistare i libri; il più delle volte però, in classe, il contesto sociale sparisce. Certo, ricompare quando si  fa uno studio statistico e sociologico dei risultati di apprendimento, ed è ben presente agli insegnanti più navigati, ma per molti, soprattutto per chi guarda la scuola da lontano, il contesto sociale è inesistente. Si vuole una riprova? Basti pensare ai risultati dei test PISA o, più nel piccolo, degli INVALSI: da anni ci dicono che i risultati di apprendimento sono indissolubilmente legati al contesto sociale di riferimento, cioè alle famiglie, alle comunità, alle disponibilità economiche, di tempo, culturali, e da anni chi commenta quei test non osserva queste premesse e di quei test sproloquia. Poi è arrivata la DAD, e il contesto sociale è  diventato improvvisamente e terribilmente visibile: un milione, forse un milione e mezzo di alunni che non ha potuto prendere parte alle attività didattiche a distanza, altri che lo hanno fatto con enormi difficoltà dovute alla mancanza di connessione o, più spesso, di device adatti. Ora, chi credete siano questi alunni che hanno mostrato platealmente queste difficoltà? Esatto, sono quelli che già prima vivevano le diseguaglianze sociali, solo che fino ad ora quelle diseguaglianze non le abbiamo volute vedere. Se volete possiamo cancellare la DAD, ma se non cancelliamo anche le diseguaglianze sociali, non otterremo certo miglioramenti nei risultati di apprendimento, figuriamoci dei miglioramenti nelle condizioni di vita di chi sta peggio. Anzi, come non mai, la DAD ci ha costretto ad affrontare queste diseguaglianze, almeno quelle legate all'accesso ad internet e ai device, con scuole che hanno preso atto della situazione e hanno distribuito computer, tablet, sim per accedere ad internet. Una goccia nel mare da fare, ma era un mare di cui prima disconoscevamo l'esistenza.

  • Attenzione al benessere degli alunni
Una delle accuse alla DAD è "che si tratta di qualcosa di impersonale". Eppure, qual era l'alternativa? Ovviamente non il riaprire le scuole in maniera sconsiderata, rischiando di farne un epicentro dei contagi, soprattutto in un momento in cui la conoscenza del virus era scarsissima. Chi fa mente locale a cosa è accaduto a febbraio, si ricorda che, come mai era accaduto, prima ancora dell'intervento del ministero, la scuola intesa come docenti si è mobilitata per far fronte ad un disagio dei propri alunni, impedire che gli studenti italiani non facessero nulla per mesi e dare loro una sensazione di normalità: adulti che parlavano con dei minori per tranquillizarli, spiegare loro cosa stava accadendo, distrarli, farli giocare, far loro sperimentare esperienze culturali. Nel fare questo ci siamo anche accorti di alcune cose: che, per esempio, presenza e distanza sono due cose che possono realizzarsi contemporaneamente, che molti nostri alunni che si perdono in classe hanno risposto meglio con la DAD, che altri invece si sono persi durante le lezioni anche se risultavano presenti, che, soprattutto, ormai non possiamo non considerare i diversi risvolti della differenza tra distanza fisica, sociale, culturale. Ci siamo poi accorti, drammaticamente, di come alcune categorie soffrano più di altre il distanziamento fisico, in particolare quelle soggette ad alcune forme di disabilità, nonché i più piccoli (ma su questo andrebbe aperto un capitolo: le troppe volte in cui  per i più piccoli non è stato aperto alcun canale di Didattica a distanza, ciò è avvenuto perché empiricamente si è sperimentata l'impossibilità di tale prassi, o perché a priori gli insegnanti hanno stabilito che quella pratica era irrealizzabile?). In ogni caso ci siamo tutti accorti di come l'apprendimento si leghi al benessere emotivo degli alunni: i ragazzi hanno reso, anche in DAD, quando siamo stati in grado di motivarli e tranquillizzarli assieme alle famiglie; quando le famiglie e i docenti sono stati involontariamente disattenti o disinteressati abbiamo ottenuto i risultati peggiori,

  • Valutare per apprendere
Mai come in tempo di DAD noi docenti siamo stati costretti a riflettere sulle nostre pratiche di valutazione. E mai come in tempo della DAD il ministero si è  mosso bene in questo senso, favorendo, invitando, incitando ad assumere come prassi la valutazione formativa più che la valutazione sommativa. Di concreto, cosa è successo? È accaduto che in questi mesi abbiamo fatto svolgere ai nostri alunni esercitazioni, verifiche, colloqui, con l'obiettivo di capire se le pratiche didattiche stessero o no funzionando; insomma, quello che quasi sempre non facciamo in classe, dove le pratiche didattiche ormai sono date per scontate e sicuramente funzionanti. Forse abbiamo persino ecceduto: esercitazioni su esercitazioni, verifiche formative su verifiche, ma quando ad ogni esercizio è corrisposto un feedback formativo per i nostri discenti ci siamo, in alcuni casi colpevolmente per la prima volta, messi a disposizione dell'apprendimento dell'alunno anziché eretti a giudice della condotta morale legata allo studio del discente.
  • Le competenze
La parola che fa orrore a molti docenti, alla fine sbuca fuori. Le competenze. Perché le competenze sono venute fuori davvero. In primis dei docenti, che spesso si sono dovuti dichiarare incompetenti riguardo ad una pratica e ai suoi strumenti, e hanno dovuto riomboccarsi le maniche. Non è il luogo qui per discutere sul perché la scuola italiana non fosse pronta alla DAD, l'ho fatto in parte altrove , ma rimane il fatto che come non mai è risultato chiaro che non basta conoscere le discipline per sapere insegnare, occorrono altre competenze. E che occorra lavorare sulle competenze è risultato evidente anche nella pratica didattica degli alunni, dato che la situazione ha costretto noi docenti non tanto a puntare su ciò che gli alunni sapevano (che, facilmente, potevano reperire a nostra insaputa su un motore di ricerca), ma a fare in modo che quel sapere o saper cercare venisse messo in pratica in produzioni e progetti che evidenziassero la capacità di ragionare sui saperi. Anche in questo caso, un balzo enorme che si spera non venga cancellato dal ritorno alla normalità.

  • La scuola asincrona
Molti di noi avevano già fatto pratica con modelli asincroni di scuola, e non tutti con pieno successo, io in primis, ma non c'è dubbio che questa volta la gran parte del corpo docente ha dovuto prendere consapevolezza che altri modi di fare scuola esistono. Sono migliori? Non è detto. Possono essere utili in determinate e con determinante strategie? Indubbiamente, e ne dobbiamo prendere atto.

  • L'apprendimento orizzontale
La DAD ci ha posti spesso nella condizione di non poter risolvere, da lontano, i problemi dei nostri alunni; allo stesso modo spesso ha posto gli alunni ad essere in condizione di risolvere, meglio dei docenti, i problemi dei compagni: è stato quindi evidente che l'apprendimento non si verifica solamente in una comunità verticale e gerarchizzata, ma anche, nei contesti adeguati, in comunità orizzontali e "leaderless". Ciò ha anche favorito lo sviluppo di attività in cui il primo prerequisito è stata la capacità di condivisione di saperi, abilità e competenze fra gli alunni.

  • L'insegnante che studia
Certo, lo sappiamo, l'insegnante, quello vero,  non smette mai di studiare. Questa caratteristica di questa professione è stata ancor più evidente in questa situazione: quante altre categorie professionali sarebbero state capaci di inventare, nell'arco di una settimana, una modalità così drasticamente diversa di svolgere la propria attività? Quante sarebbero state disposte e in grado di mettersi a svolgere ore ed ore di formazione online per svolgere queste attività rinnovate? Questo è quello che hanno fatto i docenti in questi mesi, hanno mostrato alla letttera cosa voglia dire possedere e coltivare una competenza, quella dell'apprendimento che si estende per tutta la propria esistenza.

  • Lo studente autonomo
Certo, non ce l'abbiamo fatta con tutti, anzi, forse ce l'abbiamo fatta con pochissimi e solo nella Secondaria di secondo grado. Eppure abbiamo spesso osservato come alcuni alunni abbiano acquisito una consapevolezza di se stessi e delle proprie competenze che difficilmente avrebbero acquisito in classe, sviluppando livelli di autonomia prima difficilmente ipotizzabili. Questo lascito andrà coltivato e valorizzato anche con il ritorno in presenza.

In conclusione, come del resto concludeva l'articolo da cui questo mio post trae spunto: è augurabile che la situazione rimanga questa? No, ovviamente, tutti ci auguriamo di tornare in classe in sicurezza. Abbiamo però imparato qualcosa da questi mesi? Forse, indubbiamente dovremo essere in grado di analizzare sine ira et studio quanto accaduto, fatto e ragionato, per cogliere dalla DAD quanto di meglio ci viene lasciato, per esempio sviluppando più compiutamente modalità di apprendimento blended nelle nostre scuole. 

Sulle statue, il patrimonio artistico e la storia

Monumento a Indro Montanelli - Wikipedia
Foto: Wikipedia


È di questi giorni il dibattito sulle statue e in generale sui simboli del passato, come oggetti di ideologica venerazione o contestazione. Ovviamente il dibattito parte dall'osservazione dei fatti che stanno accadendo negli USA e non solo, ovvero la deposizione e l'abbattimento di statue riguardanti gli eroi sudisti, schiavisti e coloniali, nonché di Cristoforo Colombo. A partire da questi episodi la protesta anticolonialista e antirazzista si è estesa anche all'Europa e in alcune circostanze ha fatto assistere alla contestazione di simboli apparentemente intoccabili, come Chirchill, colpevole di essere artefice di una carestia che causò circa 3 milioni di vittime in Bengala, o, in Italia, figure come quella di Montanelli, già in passato contestato per il suo aperto razzismo, maschilismo, nonché per aver aderito al fascismo e per un caso di pedofilia e schiavismo che lo vide protagonista all'età di venticinque anni. Sì sostiene quindi come sia normale e comprensibile che i manifestanti abbattano le statue di simboli controversi del passato; tuttavia chi contesta questa posizione adduce sostanzialmente quattro tipi diversi di argomentazione: 
  1. la cancellazione dei simboli del passato è una forma di rimozione della storia inaccettabile;
  2. la deposizione di statue come quelle di Churchill o Colombo non riconoce i meriti di questi personaggi;
  3. la deposizione di quelle statue decontestualizza l'azione dei personaggi che sono vissuti immersi nella cultura del proprio tempo;
  4. il patrimonio artistico andrebbe sempre tutelato, a qualsiasi epoca appartenga
In merito al primo punto, si può però obiettare che questa posizione esprime esclusivamente il punto di  vista di chi ha scritto la storia condivisa e che, sempre, il tentativo che una comunità di tanto in tanto sente di dover fare di (ri)scrivere una nuova storia condivisa necessità la rivisitazione o, eventualmente, l'abbattimento dei miti precedenti. Inoltre la cancellazione dei simboli del passato che vengono contestati è una rimozione storica fra le mille altre, che non appartiene al campo della Storia come scienza, ma appartiene alla narrazione condivisa e romanzata delle vicende che appartengono ad una collettività e che ha un fine diverso dalla ricerca storica; del resto la stessa narrazione della storia condivisa precedente si è fondata sulla rimozione volontaria o involontaria degli elementi perturbanti la narrazione che, ora, i contestatori rivalutano e rivisitano. 
In merito al secondo punto, si può ribattere che allo stesso modo l'aver eretto quei personaggi storici a simboli attraverso l'erezione di statue ne ha disconosciuto i demeriti o i delitti; la deposizione delle loro statue, lungi dall'essere una rimozione, può costituire quindi un momento di lettura critica dei fatti del passato. 
Riguardo alla terza argomentazione, si può però osservare che la stessa imposizione attraverso l'opera artistica di quei personaggi a simboli universali ne decontestualizza l'azione, rendendola passibile di analisi critica anche molto lontano nel tempo e nello spazio; inoltre non sempre l'innalzamento di statue o l'erezione di opere artistiche sono contemporanei all'azione dei personaggi o  sono arrivati in momenti in cui fosse impossibile l'analisi critica dei personaggi in questione, per cui in questi casi anzi sono le statue stesse che decontestualizzano almeno in parte l'azione dei personaggi storici, come per esempio con il tributo a Montanelli a Milano. 
Infine, riguardo alla difesa sempre e comunque del patrimonio artistico, chi contesta i manifestanti porta esempi come quello del Partenone, che nasce come dimostrazione della potenza imperialistica ateniese ma assurge poi a simbolo universale della grandezza del mondo greco. Al riguardo, è vero che il patrimonio artistico andrebbe in teoria sempre difeso, tuttavia ciò nella pratica può accadere solo in circostanze ben precise, quando quel patrimonio artistico è dievenuto simbolo universale, cosa che non sempre è bene e necessario che avvenga. Non sempre il patrimonio artistico diventa simbolo universale, più frequentemente infatti il patrimonio artistico è in primis strumento propagandistico o ha valore contingente e, in questi casi, il suo valore si annulla finite le circostanze che ne hanno richiesto la realizzazione. Tuttavia anche in quelle circostanze il patrimonio artistico rimane testimonianza di una certa cultura di una certa comunità in una certa epoca e la sua preservazione rimane importante, almeno a fine storico; ma lo stesso tentativo di rimozione di quel simbolo diviene testimonianza di un cambiamento nel sentire di una certa cultura di una certa comunità in una certa epoca.

Per concludere, qualcuno anche da noi ogni tanto tira fuori la necessità di "raggiungere una storia collettiva condivisa" che metta insieme vincitori e vinti. Ecco, per capirci, quello che sta accadendo negli USA e non solo è uno dei momenti in cui si scrive, o si tenta di farlo, una storia collettiva condivisa. Notoriamente il bisogno di raggiungere una nuova versione concordata della storia appartiene ai vinti, i vincitori la loro storia l'hanno usualmente già dettata. Il punto è che non si può scrivere una nuova versione della propria storia (che, come detto, non è la Storia con la "s" maiuscola, frutto di ricerca scientifica, ma è una versione romanzata e di compromesso ad uso e consumo della convivenza collettiva) senza abbattere almeno alcuni capisaldi della narrazione precedente. Ovviamente lo stupore e il terrore dei più conservatori è facilmente comprensibile: per loro la storia è già stata narrata, è quella in cui la loro versione del mondo ha vinto e non c'è motivo per cambiarla. Ma i progressisti? Anche i più progressisti fra di noi gridano all'iconoclastia osservando i manifestanti che attaccano i simboli dei passati regimi, del passato, del racconto tradizionale della storia, per metterne in luce misfatti o altre verità. Eppure è quello che avviene alla fine di ogni dittatura, di ogni oppressione, politica o culturale che sia. Vi stupisce che vengano tirate giù le statue di Colombo o di Churchill, e vi stupisce che si chieda la rimozione della statua di Montanelli: eppure non vi stupisce che chiediate a nuovi scrittori di raccontare una nuova storia tenendo per buoni protagonisti, trama e persino il finale?


giovedì 21 maggio 2020

Amori ridicoli, Milan Kundera




Amori ridicoli, di Milan Kundera, non è una bella raccolta di racconti.
E così, tagliata la testa al toro, possiamo dedicarci con calma a spiegare il perché di un giudizio così drastico.
I sette racconti che compongono la raccolta sono tutti accomunati dal tema comune, quello dell'amore, e in due casi si ripete anche il protagonista delle vicende, il dottor Havel. Ad un'attenta lettura tuttavia è subito chiaro che, se di amore si parla, si tratta dell'amore a cui ci ha abituato Kundera: un amore esclusivamente maschile e maschilista, mascolino, possessivo, che tratta la donna quasi come una preda amorfa, sempre bisognosa di essere plasmata dall'azione dell'uomo cacciatore, anche solo nei suoi sogni, salvo poi scoprire la vanità della propria caccia.
Il tema della vanità della caccia amorosa è proprio quello che sta sullo sfondo di uno dei racconti più riusciti, "La mela d'oro dell'eterno desiderio", ma il senso di vanità della seduzione ritorna anche nel migliore dei due racconti con protagonista il dottor Havel, "Il dottor Havel vent'anni dopo". In altri casi invece ciò che dà senso (o lo toglie) alla ricerca dell'appagamento sensuale è l'incomunicabilità che sta al fondo delle relazioni umane, l'impossibilità, secondo Kundera, di provare e pensare la stessa cosa nello stesso momento, incapacità che affligge le relazioni amorose ("Il falso autostop" e "Così i vecchi cedano il posto ai giovani"). In ogni caso la donna è oggetto d'amore, se è soggetto, lo è in forme parodistiche o francamente semplicistiche e banali ("Il simposio" e, ancora "Così i vecchi cedano il posto ai giovani").
Sia chiaro, la critica che qui si  muove a Kundera non è fondata su un banale senso del politicamente corretto o sull'idea che occorra dare pari rappresentanza ai generi secondo una sorta di par condicio letteraria: è che è palese che Kundera non vuole, non sa e non prova a pensare che l'amore possa essere diverso da quello che propone, da decenni, nei suoi libri; un amore, appunto, esclusivamente maschile, sensuale e che ha come unico senso l'appagamento del desiderio di conquista. Non esiste altra forma di amore tra le trame di questi racconti, e per quanto questa caratteristica dia una coerenza di fondo alla raccolta, alla lunga stanca.
Non per niente il migliore dei racconti è "Eduard e Dio", in cui, pur ripetendo lo stantio tema dell'espressione della giovinezza e della mascolinità di non una, bensì due donne estremamente diverse tra di loro, almeno l'autore intreccia brillantemente lo sviluppo della narrazione con l'analisi di tematiche sociali e religiose della Boemia dei suoi anni. Un po' poco per essere un capolavoro.
La narrazione quindi, spesso banale, raggiunge in alcuni casi la vividezza e la brillantezza degli scritti migliori dell'autore, ma non trova la capacità di rinnovarsi o, almeno, di analizzare fino agli estremi limiti i temi che costellano la scrittura di questi testi.

giovedì 14 maggio 2020

Quanto ci è costato liberare Silvia Romano


Foto: Repubblica

Ovviamente non mi riferisco ai presunti quattro milioni di euro pagati per riscattare la vita di Silvia Romano, volontaria rapita in Africa e tenuta prigioniera per più di un anno e, oggi, vittima di violentissimi attacchi nella sua patria.
Semmai il vero costo della liberazione di Silvia Romano è la scoperta che non siamo affatto migliori di come eravamo prima della pandemia, anzi, forse siamo peggiori, impauriti, arrabbiati, incattiviti. Che una persona liberata da un rapimento debba subire minacce di morte è l'ultimo degli orrori logici a cui ci costringe il nostro tempo. 
Perché, nell'ottica di un discorso pubblico e collettivo, proprio di una serie di errori e fallacie logiche si tratta. Chi oggi attacca la volontaria parte dall'assunto, ancora oggi ribadito da Luca Zaia, che se parti volontario in Africa ti devi assumere la responsabilità dei rischi che corri: come a dire, se ti rapiscono, colpa tua e cazzi tuoi; inoltre, la volontaria viene accusata di aver tenuto un comportamento indegno accettando di essere liberata con il pagamento di un riscatto e di portare un messaggio di assoggettamento con il suo essersi convertita all'Islam. 
Partendo dal nucleo della tesi, la questione della responsabilità, si può sostenere che sia sbagliato dire che se fai il volontario in Africa ti sei andato a cercare il rapimento; infatti si tratta dell'applicazione di un meccanismo logico tipico delle società paternalistiche che configurano i diritti come graziose concessioni dell'entità gerarchicamente superiore (una persona, un dio, una comunità...) a cui quindi, sempre, occorre conformarsi nelle volontà e nelle richieste. Più nello specifico si tratta di una fallacia logica che segue lo stesso schema argomentativo del "se ti sei messa la minigonna allora ti sei cercata lo stupro"; la fallacia logica sta nell'attribuire ad un fatto, il rapimento o lo stupro, una causa intrinseca (A = lo stupro o il rapimento, avviene perché B = la minigonna o il volontariato) mentre fra i due fatti non c'è concatenazione causale. I due fatti avvengono per correlazione, ma la causa, dell'uno come dell'altro avvenimento, è estrinseca e indipendente dalla volontà del soggetto che subisce gli eventi: nel primo caso, lo stupro, la donna stuprata subisce l'abuso perché c'è un uomo che decide di abusare di lei, e la causa è lì, non nella minigonna; nel secondo caso la volontaria viene rapita non perché decide di essere una vittima sacrificale, ma perché ci sono uno o più rapitori che decidono di prelevarla e detenerla. Lo stesso meccanismo logico viene applicato nel ragionamento comune: in certi ambienti un lavoratore che si fa male sul lavoro deve aver paura a denunciare la cosa (perché se lavori ci può stare che ti fai male, e quindi perché dovrei pagare le tue cure, se non ti volevi fare male non venivi a lavorare da me...) e semmai ringraziare che almeno un lavoro ce l'ha. È un meccanismo logico trasversale agli schieramenti politici: attraversa tanta sinistra che minimizza, per esempio, i rapporti di responsabilità, durante gli scontri nelle manifestazioni ("e ma se sei un poliziotto lo sai che ti può capitare di rimanere contuso o ferito durante una manifestazione") come la destra ("se commetti un reato e vieni torturato mica ti puoi lamentare"). Chi non condivide questi argomenti, sostiene che se devo indossare apposito abbigliamento per lavorare e non lo faccio, in un incidente sono responsabile dei danni che mi causo; se sono un poliziotto in servizio e giro disarmato, e se un assassino mi uccide e non mi sono difeso sono responsabile, se sono una missionaria e non mi tutelo rispetto ad aggressioni e lavaggi del cervello, sono responsabile del mio stesso rapimento. Tuttavia in tutti e i casi citati la leggerezza nei comportamenti tenuti dai protagonisti degli esempi non riduce in nulla il fatto che sono altri i soggetti che eventualmente decidono e causano le proprie azioni (il datore di lavoro che DECIDE di non voler sostenere le cure mediche o l'assassino che DECIDE di colpire un uomo disarmato); inoltre accettare un lavoro non equivale però a farlo male: se faccio il volontario, e lo faccio per bene, non c'è ragione alcuna per cui debba subire un rapimento; in generale, se sono un lavoratore, come lavoratore sono responsabile delle mie azioni sul lavoro, non di altro; per cui, se anche fosse dimostrata la leggerezza nei comportamenti lavorativi tenuti dalla volontaria, questo non toglierebbe nulla alla responsabilità dei rapitori che rimangono gli unici artefici del rapimento. 
Riguardo all'assunto per cui Silvia Romano sarebbe responsabile di aver portato un messaggio di assoggettamento essendosi convertita all'Islam, ferma restando l'eventualità che sia stata costretta alla conversione o imbonita,  andrebbe ricordato che il suo aver abbracciato una fede come scelta personale non è più o meno simbolico dell'abbracciare o riscoprire il Cristianesimo da parte di una donna che ha subito violenza da un cristiano: una moglie maltrattata da un marito, per esempio, che cerca un senso al suo dolore nella fede. Siamo noi a decidere che un valore simbolico è più "pesante" di un altro. 
Chi critica Silvia Romano parla di un comportamento indegno: dignità avrebbe voluto che non si convertisse. Tuttavia cosa sia la dignità è frutto di percezione soggettiva data dal tempo e dalle circostanze, tutto tranne che qualcosa di oggettivo; certo, si potrà rispondere che è dignitoso chi, coerentemente con il proprio credo, è disposto a morire, non a farsi salvare rinnegando se stesso,  mantenendo così la propria dignità; tuttavia questa in realtà è una tautologia: è dignitoso chi è disposto a morire, ovvero a tenere un comportamento dignitoso. Quindi secondo questo schema argomentativo è dignitoso ciò che è dignitoso, ma non sappiamo davvero cosa sia dignitoso perché per definirlo non possiamo fare altro che esprimere la dignità con l'aggettivo che ne deriva. Per altri è contemporaneamente dignitoso che uno Stato scelga di salvare i propri concittadini in difficoltà ed ed è ancora dignitoso che un cittadino italiano sia libero di scegliere il proprio credo religioso (o il non credere) in base al proprio sentire personale: come si vede tuttavia, pur essendo tutte applicazioni del concetto di dignità, in questa situazione le proposizioni precedenti contrastano la prima con le altre due, proprio perché è il presupposto di base ad essere fallace, quello per cui si possa giudicare la questione secondo un concetto astratto e trattato come una scatola vuota da riempire con ciò che noi vogliamo considerare dignitoso, ovvero la dignità.
In ultimo, Silvia Romano viene accusata di non essere stata coerente: se fosse stata coerente non avrebbe dovuto accettare di essere liberata con il pagamento di un riscatto. Anche in questo caso però si tratta di una fallacia logica: non è lei che ha accettato o non accettato il riscatto, ed è emblematico che si commetta questo errore: ad accettare il riscatto è ovviamente chi rapisce, non chi viene rapito. Come a dire che il responsabile di un sopruso sia la vittima, non il carnefice.

Dicevamo, quindi, quanto ci è costato liberare Silvia Romano?
Ci è costato (ri)scoprire che siamo ancora una società paternalista, maschilista, che pensa alle donne esclusivamente come l'angelo del focolare e la cui forma di autodeterminazione deve stare nello scegliere il colore della prossima calzetta da cucire. 
Ci è costato (ri)scoprire che non esiste la libertà di culto, soprattutto per le donne, e non perché, come qualcuno ha millantato, si vada verso unna laicizzazione estrema del paese, ma semmai al contrario perché siamo talmente tanto estremisti cattolici da non accettare che altri possano convertirsi ad un'altra religione, e da equiparare incondizionatamente un miliardo e mezzo di fedeli a dei terroristi. 
Ci è costato (ri)scoprire che non sappiamo fare di conto e che abbiamo scarsa memoria, perché i presunti 4 milioni di euro per la liberazione della volontaria equivalgono a sei centesimi a testa, e sono comunque molti di meno dei 49 milioni di euro arrivati illegalmente e spariti dalle casse della Lega, e che non rivedremo mai più.
Ci è costato (ri)scoprire quanto siamo succubi agli artifici della comunicazione, perché il tam tam mediatico sulla vicenda è servito a far distogliere il nostro sguardo dallo scandaloso disastro dell'amministrazione leghista in Lombardia, dalla metà dei morti e dei contagiati del paese provenienti da questa regione, dai test sierologici affidati ai privati e a  pagamento dei cittadini, dai tamponi che non ci sono, dalle RSA, dai 21 milioni di euro per un ospedale che ha ospitato solo 25 pazienti, dalle risposte che non arrivano.
Ci è costato, infine, (ri)scoprire la nostra povertà intellettuale ed umana, l'incapacità di provare empatia per una persona che ha sofferto diciotto mesi in condizioni che non possiamo neanche immaginare e che è stata accolta da una parte del paese come il peggiore dei nemici.


The Pitt, R. Scott Gemmill

The Pitt, ideata da R. Scott Gemmill, è una serie TV messa in onda su HBO e prodotta da Warner Bros, con protagonista Noah Wyle....