sabato 26 febbraio 2011
domenica 20 febbraio 2011
L'inno alla mediocrità
Vivere in Italia è l'inno alla mediocrità.
Perché in fondo noi Italiani siamo mediocri: mediocri ci sentiamo, come mediocri siamo stati educati, mediocri ci vogliamo e mediocri tutto sommato ci piaciamo.
La mia generazione è cresciuta lobotomizzata dalla televisione: dopo vent'anni di governo di colui che quelle televisioni possiede, viene forse il dubbio che fosse premeditato.
Ma non mi rassegno a pensare che la mia generazione possa annullare del tutto i suoi pochi neuroni: non mi rassegno a pensare che la nostra classe dirigente possa fare passare Bettino Craxi, Mangano, come eroi. Non voglio credere che tutto sia concesso, che la morale si distingua fra pubblica e privata, che il diritto sia valido per alcuni e per altri no.
Non mi rassegno quando vedo le popolazioni del Mediterraneo meridionale che costruiscono le loro rivoluzioni sul passaparola della rete, mentre per noi Facebook e Twitter sono i principali strumenti per diffondere le banalità dei Modà o dei figli della De Filippi.
Ed ammiro la cultura islamica, che per anni abbiamo considerato inferiore, ma che ha impedito alle sue generazioni di alienarsi nelle facezie della più becera cultura occidentale, e che, oggi, oltre al sempre criticabile estremismo, ci insegna l'anelito alla democrazia.
Voglio un'Italia in cui si possa pensare di lavorare secondo merito e secondo giustizia, in cui essere bianco, nero, etero o omosessuale non sono condizioni discriminanti, come non lo è essere meridionale o settentrionale. Voglio un'Italia in cui se commetti un reato vieni processato, punto, senza se e senza ma. Che tu sia un operaio o un presidente del consiglio.
Voglio un'Italia in cui studiare non è una colpa, ma un onore.
Voglio un'Italia in cui la bellezza è quella dello spirito, non quella delle forme di una donnina.
Perché in fondo noi Italiani siamo mediocri: mediocri ci sentiamo, come mediocri siamo stati educati, mediocri ci vogliamo e mediocri tutto sommato ci piaciamo.
La mia generazione è cresciuta lobotomizzata dalla televisione: dopo vent'anni di governo di colui che quelle televisioni possiede, viene forse il dubbio che fosse premeditato.
Ma non mi rassegno a pensare che la mia generazione possa annullare del tutto i suoi pochi neuroni: non mi rassegno a pensare che la nostra classe dirigente possa fare passare Bettino Craxi, Mangano, come eroi. Non voglio credere che tutto sia concesso, che la morale si distingua fra pubblica e privata, che il diritto sia valido per alcuni e per altri no.
Non mi rassegno quando vedo le popolazioni del Mediterraneo meridionale che costruiscono le loro rivoluzioni sul passaparola della rete, mentre per noi Facebook e Twitter sono i principali strumenti per diffondere le banalità dei Modà o dei figli della De Filippi.
Ed ammiro la cultura islamica, che per anni abbiamo considerato inferiore, ma che ha impedito alle sue generazioni di alienarsi nelle facezie della più becera cultura occidentale, e che, oggi, oltre al sempre criticabile estremismo, ci insegna l'anelito alla democrazia.
Voglio un'Italia in cui si possa pensare di lavorare secondo merito e secondo giustizia, in cui essere bianco, nero, etero o omosessuale non sono condizioni discriminanti, come non lo è essere meridionale o settentrionale. Voglio un'Italia in cui se commetti un reato vieni processato, punto, senza se e senza ma. Che tu sia un operaio o un presidente del consiglio.
Voglio un'Italia in cui studiare non è una colpa, ma un onore.
Voglio un'Italia in cui la bellezza è quella dello spirito, non quella delle forme di una donnina.
martedì 15 febbraio 2011
Il canto delle sirene
IL CANTO DELLE SIRENE
SEBASTIANO VALENTINO CUFFARI
Il canto delle sirene, ormai Adiraste di Araverne voleva ascoltarlo. Aveva letto ogni singolo manoscritto su quelle creature, aveva vagato di biblioteca in biblioteca per tutto il mondo conosciuto e oltre, sino a spingersi all'Estremo Oriente, lì dove la pelle degli uomini si tingeva d'un giallo paglierino che sapeva, ai suoi occhi, di esotico e malato. Ovunque aveva sentito parlare delle sirene, metà donne metà bestie, che sonnecchianti attendono sul fondo delle acque il passaggio dei marinai: allora esse si mostrano, epifania crudele e sublime, e nei loro occhi balenano le immagini di mondi scomparsi, mondi sommersi dalla storia e dalle onde, dal tempo che scorre e tutto cancella senza lasciare, al fine, traccia.
Voleva con tutto il cuore ascoltare la loro voce: troppo tempo era passato da quando qualcosa l'aveva colpito davvero, troppe persone avevano attraversato la sua strada senza che le loro orme avessero intersecato la sua via; troppi nomi erano svaniti nella sua mente, insignificanti, sconfitti e sovrastati da nuove speranze e nuove delusioni. Ora cercava quelle voci perché nei testi aveva appreso che loro, ultima, era la conoscenza. Ma i testi lo avvertivano: quel canto era ingannevole, menzogna e verità si mescolavano in esso senza remora; allorché poi l'uomo riuscisse a discernere con le sue arti la scintilla del vero fra quelle melodie, giungerebbe, immediata, la morte.
La rotta l'aveva appresa da dei mercanti d'oriente: varcato il mare interno, oltre le ultime spiagge che dalle coste del sud guardano sonnolente le acque degli oceani, volgeva la sua vela verso ovest. Lì l'orizzonte si perdeva senza confine tra l'azzurro del cielo perennemente terso ed il buio delle acque querule. Talora le pinne delle bestie oceaniche s'affacciavano seminascoste, scrutavano l'albero della barca e poi, silenti, ritornavano nel loro mondo.
Estraneo a quella distesa, Adiraste la solcava come uomo alla deriva che affida al vento e alla volontà delle divinità il suo fato; sempre verso ovest, finché il giorno confinerà con la notte, le acque si cheteranno e da ripidi scogli si scorgerà lo splendore di lire dorate.
Nel suo viaggio muto e solingo ripensava alle persone perdute, agli amici che le distanze e le incomprensioni avevano allontanato; ripensava alle amanti mai amate, alle persone che gli avevano insegnato qualcosa e a quelle da cui, suo malgrado o per sua colpa, non aveva appreso nulla. Ricordava il profumo delle margherite ed il colore del topazio, le urla di sua madre e le lacrime di suo padre, il suono della ruota che cigola e l'abbaiare di cani di notte. Riteneva negli occhi le mura possenti di Araverne, il loro granito ed i loro smalti: tutto gli parlava della sua terra e del suo passato, dell'amore che non aveva mai provato e di ciò che cercava senza conoscerne il nome. Cercava risposte a domande che non sapeva formulare.
Invece trovava porti di terre ignote, torri dorate dalle fondamenta rivolte verso il cielo, balconi di case che davano a picco sul mare, appesi a travicelle incrostate di sale sporgenti sul nulla. Conobbe le città di Tanelorn, Amenelos, Atlas, costeggiò le Isole dei beati e l'alto monte che sorge all'emisfero australe. Ovunque nuova umanità, nuovi nomi per visioni note ed ignote: ma nessuna traccia delle risposte che anelava.
La voce dei gabbiani lo risvegliò al mattino, nunzio di nuove coste. Eppure in ogni direzione non intravedeva né monti né vallate, né giungevano gli odori dei frutti di stagione. Solo il richiamo dei gabbiani, sempre più stridulo e frequente, ricorsivo rigurgito di vita su di un oceano morto. La luna ancora illuminava quieta la sua vela, la spuma delle onde si stendeva sulla sua legna, la dimenticanza lo aveva colto ormai dai molti anni trascorsi dall'inizio del viaggio. Non conosceva più il nome delle cose, la sua lingua non ricordava più l'articolazione delle vocali: la barba folta sbozzata dal coltellaccio che sviscerava i pesci ricopriva le rughe d'un uomo anziano, dalla pelle scurita dal sole e dal giungere imperterrito della fine.
Il bagliore di quelle lire lo accolse, ma lui, ormai quasi cieco, non riuscì a riconoscerlo; lo scrosciare dell'oceano l'aveva reso ormai sordo alle note, ed il canto gli sembrò impercettibile finché non fu in prossimità di quelle creature adagiate su bassi scogli di lava e di ghiaccio. Il freddo solamente lo vinceva, lo intorpidiva costringendolo ad un fragile sonno, ma quei visi ne raccoglievano l'attenzione nell'ultimo anelito di vita.
Fissandole cercava di cogliere le loro parole, ma gliene sfuggiva il senso. Le vedeva inneggiare, accogliere fra le loro braccia sole e luna, acqua e fuoco, cielo e terra, ma di tutto gli sfuggiva il significato. Sbarcato sullo scoglio, attratto da quelle labbra che rincorreva da una vita si accostò alla fine ad una delle sirene; lo strinse fino ad assecondarne l'ultimo respiro, e nel mentre la creatura gli narrava la sua ultima verità: nulla aveva mai avuto un senso, e tutto ciò che aveva era ciò che aveva perso.
Stretto in quell'abbraccio, il ghiaccio lo accolse eterno.
martedì 8 febbraio 2011
Le avventure del giovin imperatore
Ci fu un tempo in cui un giovin imperatore, in forte ascesa fra le sue genti, impose, con la sua sottile ars eloquendi, il suo fine discernimento su innocenti popoli. Il suo potere si stendeva incontrastato dalle pianure brumose sino alle isole bagnate dalla spuma d'Afrodite, e le sue alleanze si tessevano dagli ambrati comandanti d'occidente fino ai parenti delle sue amanti del sud.
Egli reggeva il suo regno con pugno saldo e larghe elargizioni di panem et calciatores, e i suei fedeli, i praedelliniensi, erano guida ed esempio per il popolo, che in loro vedeva saggezza e morale.
Giunto alfine al potere supremo, il giovin imperatore si ritrovò a dover dare vigore costituzionale al suo potere assoluto: ma come fare! Lui, difensore della democrazia liberale, come poteva divenire il nostro signore? Gli venne in aiuto un suo fedelissimo, N. Ghedinus, principe del foro. Ghedinus, avvicinatosi al trono del giovin imperatore presso la corte, proclamò innanzi al popolo tutto, in ammutolita contemplazione, il suo arguto argomento: "questi non è primus inter pares, questi è primus super pares". Stupore e sbigottimento fra le menti per cotanto obrobrio latinorum, finché taluno, con fare incerto, disse: ma quindi, cotanta boiata, per dire che egli è un rex?" E giù di fischi, ed il povero Ghedinus dovette tornare rapido alle sue camere, mentre il prode Gasparrus, per non saper né leggere né scrivere, proponeva l'arresto preventivo per chi poteva anche solo pensare che i praedelliniensi potevano dire vaccate.
Ma i nemici del giovin imperatore si trovavano fra i togati: non gli eletti al senato, tutti accortamente scelti per il bene della gente, grazie a mirabil norma che impediva l'elezione ad una torma incompetente, ma demandava la ricerca del meglio ai capi fazione, notoriamente interessati all'interesse del popolo minuto. Sorse certo una vaga opposizione, specie quando il giovin imperatore decise di eleggere ad uno degli scranni del senato un cavallo della sua stalla: ma egli l'avea fatto solo a favore al suo stalliere, noto eroe popolare proveniente dalle isole del sud, che egli, con generosa prodigalità, provvedeva a riabilitare dai suoi passati errori.
I togati di cui parlavamo erano la mala stirpe degli Inquirentes, gente inetta, avente sprecati gli anni migliori della loro vita su polverosi libri e manoscritti datati, taluni di questi volumi chiamati costitutiones. Questi Inquirentes, riconoscibili per la toga tinta del rosso sangue dei poveri malcapitati che capitavano sotto le loro mani, contestavano le sue abitudini private e i suoi giusti arricchimenti. Ritenevano immorale il suo frequentare graziose creature, con cui soleva sollazzarsi nelle tetre serate invernali primaverili estive e autunnali nelle sale del potere, quando il capo sente acuta la solitudine del potere. Allora neanche la compagnia dei suoi mecenati, Fides e Lelemoras, bastava a stendere il sorriso sul suo volto, e solo le veneree forme di donne del sud, verso cui il giovin imperatore mostrava tutta la sua gratuita bontà, poteva ridargli felicità. Lo accusavano, ecco, di profittare di quelle giovani fanciulle: ma veniva in suo soccorso il buon Ghedinus; egli ne era solo fruitore ultimo e inconsapevole; erano loro, tutte, a desiderare concupiscenti la sua compagnia, e la compagnia delle vagonate di sesterzi che elargiva.
Egli costruiva ponti chilometrici, pietra per pietra, nel corso dei decenni: rifaceva strade in tempo per i successivi crolli; rimetteva in piedi, casa in legno di casa in legno, le città colpite dai terremoti.
I suoi fedeli controllavano la cultura, il buon Bondus, dimentico delle passate glorie, ingloriava il nuovo stato con le sue poesie, mentre la Gelmina, amazzone compagna di mille battaglie, toglieva alle ricche scholae publicae, ricettacolo di pericolosi docentes provenienti dall'incivile meridione, per dare alle sacre scholae privatae.
Tremontinus si dilettava ad inventare nuovi apparecchi che, con illusioni ottiche degne del saggio Archimede, facessero credere come tutti si ritrovassero più ricchi quando mancavano persino il pane e la cipolla, mentre il buon Brunettulus fustigava gli schiavi pubblici affinché la smettessero di lamentarsi di essere fustigati.
Un poco di tedio gli dava il fisco, e non capiva come fisco ed erario non potessero essere da lui controllati; poi ideò cotanto geniale stratagemma: il fisco regionale, quello provinciale, quello municipale e quello condominiale: e poi pensò che se ogni autonomia poteva estendere il controllo sulle tasse che gli spettavano, perché non inglobare le autonomie altrui nella sua? E il popolo un poco temette il suo progetto di restaurare la sua villa, Villa delle Grazie, chiamandola Domus Aurea...
Quando i togati alfine giunsero quasi a processarlo, egli pensò bene di accorciare i tempi massimi consentiti per i processi, e vuoi per un impegno, vuoi per un altro, tutti legalmente dimostrati dal sottile Ghedinus, gli Inquirentes furono costretti a riconoscere la sua immunità.
E fu così che il giovin imperatore, fra una barzelletta e l'altra, divenne il signore assoluto del suo paese
Egli reggeva il suo regno con pugno saldo e larghe elargizioni di panem et calciatores, e i suei fedeli, i praedelliniensi, erano guida ed esempio per il popolo, che in loro vedeva saggezza e morale.
Giunto alfine al potere supremo, il giovin imperatore si ritrovò a dover dare vigore costituzionale al suo potere assoluto: ma come fare! Lui, difensore della democrazia liberale, come poteva divenire il nostro signore? Gli venne in aiuto un suo fedelissimo, N. Ghedinus, principe del foro. Ghedinus, avvicinatosi al trono del giovin imperatore presso la corte, proclamò innanzi al popolo tutto, in ammutolita contemplazione, il suo arguto argomento: "questi non è primus inter pares, questi è primus super pares". Stupore e sbigottimento fra le menti per cotanto obrobrio latinorum, finché taluno, con fare incerto, disse: ma quindi, cotanta boiata, per dire che egli è un rex?" E giù di fischi, ed il povero Ghedinus dovette tornare rapido alle sue camere, mentre il prode Gasparrus, per non saper né leggere né scrivere, proponeva l'arresto preventivo per chi poteva anche solo pensare che i praedelliniensi potevano dire vaccate.
Ma i nemici del giovin imperatore si trovavano fra i togati: non gli eletti al senato, tutti accortamente scelti per il bene della gente, grazie a mirabil norma che impediva l'elezione ad una torma incompetente, ma demandava la ricerca del meglio ai capi fazione, notoriamente interessati all'interesse del popolo minuto. Sorse certo una vaga opposizione, specie quando il giovin imperatore decise di eleggere ad uno degli scranni del senato un cavallo della sua stalla: ma egli l'avea fatto solo a favore al suo stalliere, noto eroe popolare proveniente dalle isole del sud, che egli, con generosa prodigalità, provvedeva a riabilitare dai suoi passati errori.
I togati di cui parlavamo erano la mala stirpe degli Inquirentes, gente inetta, avente sprecati gli anni migliori della loro vita su polverosi libri e manoscritti datati, taluni di questi volumi chiamati costitutiones. Questi Inquirentes, riconoscibili per la toga tinta del rosso sangue dei poveri malcapitati che capitavano sotto le loro mani, contestavano le sue abitudini private e i suoi giusti arricchimenti. Ritenevano immorale il suo frequentare graziose creature, con cui soleva sollazzarsi nelle tetre serate invernali primaverili estive e autunnali nelle sale del potere, quando il capo sente acuta la solitudine del potere. Allora neanche la compagnia dei suoi mecenati, Fides e Lelemoras, bastava a stendere il sorriso sul suo volto, e solo le veneree forme di donne del sud, verso cui il giovin imperatore mostrava tutta la sua gratuita bontà, poteva ridargli felicità. Lo accusavano, ecco, di profittare di quelle giovani fanciulle: ma veniva in suo soccorso il buon Ghedinus; egli ne era solo fruitore ultimo e inconsapevole; erano loro, tutte, a desiderare concupiscenti la sua compagnia, e la compagnia delle vagonate di sesterzi che elargiva.
Egli costruiva ponti chilometrici, pietra per pietra, nel corso dei decenni: rifaceva strade in tempo per i successivi crolli; rimetteva in piedi, casa in legno di casa in legno, le città colpite dai terremoti.
I suoi fedeli controllavano la cultura, il buon Bondus, dimentico delle passate glorie, ingloriava il nuovo stato con le sue poesie, mentre la Gelmina, amazzone compagna di mille battaglie, toglieva alle ricche scholae publicae, ricettacolo di pericolosi docentes provenienti dall'incivile meridione, per dare alle sacre scholae privatae.
Tremontinus si dilettava ad inventare nuovi apparecchi che, con illusioni ottiche degne del saggio Archimede, facessero credere come tutti si ritrovassero più ricchi quando mancavano persino il pane e la cipolla, mentre il buon Brunettulus fustigava gli schiavi pubblici affinché la smettessero di lamentarsi di essere fustigati.
Un poco di tedio gli dava il fisco, e non capiva come fisco ed erario non potessero essere da lui controllati; poi ideò cotanto geniale stratagemma: il fisco regionale, quello provinciale, quello municipale e quello condominiale: e poi pensò che se ogni autonomia poteva estendere il controllo sulle tasse che gli spettavano, perché non inglobare le autonomie altrui nella sua? E il popolo un poco temette il suo progetto di restaurare la sua villa, Villa delle Grazie, chiamandola Domus Aurea...
Quando i togati alfine giunsero quasi a processarlo, egli pensò bene di accorciare i tempi massimi consentiti per i processi, e vuoi per un impegno, vuoi per un altro, tutti legalmente dimostrati dal sottile Ghedinus, gli Inquirentes furono costretti a riconoscere la sua immunità.
E fu così che il giovin imperatore, fra una barzelletta e l'altra, divenne il signore assoluto del suo paese
A se stesso, Giacomo Leopardi
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
5 Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
10 La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
15 Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
[dai Canti]
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
5 Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
10 La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
15 Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
[dai Canti]
lunedì 7 febbraio 2011
Come Pavese
Un tempo un professore mi disse che certe volte gli uomini, pur avendone paura, hanno bisogno della compagnia della loro stessa specie. Mi fece l'esempio di Cesare Pavese: mi disse che Pavese era solito recarsi al bar e trascorrere lì le sue ore, scrivendo, senza parlare con gli altri, di cui anzi sdegnava la compagnia.
Perché cercare la compagnia altrui? La voglia di autarchia ogni tanto mi vince...eppure non so fare a meno di cercare la voce altrui, un contatto umano da cui poi inesorabilmente fuggire, anche solo per paura delle delusioni.
Cercare la compagnia per sentirsi più soli, questa la vena umoristica della mia nottata.
Perché cercare la compagnia altrui? La voglia di autarchia ogni tanto mi vince...eppure non so fare a meno di cercare la voce altrui, un contatto umano da cui poi inesorabilmente fuggire, anche solo per paura delle delusioni.
Cercare la compagnia per sentirsi più soli, questa la vena umoristica della mia nottata.
Location:Misterbianco,Italia
La potenza dei social network e della rete
La rete sta ampiamente modificando il nostro sguardo sul mondo, avvicinando le popolazioni e le idee. Certo, parliamo sempre degli effetti sulle popolazioni ricche, eppure sono ricadute mirabolanti. Le recenti rivolte/rivoluzioni nel settentrione dell'Africa, nate dal passaparola sulla rete, ne sono un chiaro esempio. La rete è l'ambiente all'apparenza più democratico in assoluto. All'apparenza: perché il rischio che come sempre le opinioni siano pilotate rimane sempre alto. In un certo senso la differenza fra la rete di pochi anni fa e la rete oggi è data da pochi siti, Twitter e Facebook su tutti. Questi aggregatori di vita sociale online da un lato hanno la funzione meritoria di ogni portale che voglia aiutare la vita sociale, dall'altro sono un primo grosso filtro su quanto realmente gira ed è importante conoscere in rete. In questo momento, non sei un personaggio famoso se la tua pagina facebook non ha migliaia di amici, e ciò che scrivi non vale niente se non viene ritwittato da almeno una decina di persone. È un meccanismo permesso o semplicemente un sistema che sta imparando a difendersi da un eccessivo appiattimento? L'appiattimento di cui parlo è quello che ciascun buon lettore ha sperimentato leggendo i commenti ai più importanti blogger: centinaia di commenti distribuiti dalla mera casualità, senza poter stabilire una gerarchia di valore, mentre i pensieri più geniali venivano dispersi dalla banalità di mille parole.
Eppure la rete è e deve essere una serie infinita di nodi e di snodi senza distribuzione gerarchica, luogo metafisico e concreto ove tutto si raccoglie per perdersi inesorabilmente, come una biblioteca di Babele o come una città invisibile. La rete è degnamente figlia di una cultura post moderna che nel dare importanza alle cose ha imparato a sminuirle, a definirle per la loro nullità. E così nella rete delle reti Mr. B è solo uno dei tanti e la sua voce una delle tante di pari valore, ovvero di nessun valore reale.
E ciò che conta davvero sono gli uomini e i loro travagli oltre i terminali.
Calvino e Borges forse avrebbero amato la rete.
Eppure la rete è e deve essere una serie infinita di nodi e di snodi senza distribuzione gerarchica, luogo metafisico e concreto ove tutto si raccoglie per perdersi inesorabilmente, come una biblioteca di Babele o come una città invisibile. La rete è degnamente figlia di una cultura post moderna che nel dare importanza alle cose ha imparato a sminuirle, a definirle per la loro nullità. E così nella rete delle reti Mr. B è solo uno dei tanti e la sua voce una delle tante di pari valore, ovvero di nessun valore reale.
E ciò che conta davvero sono gli uomini e i loro travagli oltre i terminali.
Calvino e Borges forse avrebbero amato la rete.
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